Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17599 del 21/08/2020

Cassazione civile sez. II, 21/08/2020, (ud. 19/12/2019, dep. 21/08/2020), n.17599

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. PICARONI Milena – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 298-2016 proposto dalla:

CO & GI IMMOBILIARE s.r.l., in persona del suo amministratore

legale rappresentante pro tempore G.N., rappresentata e

difesa dall’Avvocato ANGELO PELIGRA, ed elettivamente domiciliata,

presso lo studio dell’Avv. Vincenzo Sparano, in ROMA, CORSO VITTORIO

EMANUELE II 154;

– ricorrente –

contro

D.M.N. e A.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1448/2015 della CORTE d’APPELLO di CATANIA,

depositata il 28/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

19/12/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato in data 20.11.2007, la ditta CO & GI IMMOBILIARE s.r.l. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Ragusa, D.M.N. e A.R., deducendo che con atto pubblico del 6.6.2007 aveva acquistato dai convenuti un immobile sito in Comiso, costituito da tre unità immobiliari, per il prezzo complessivo di Euro 364.000,00; che i venditori avevano garantito che l’immobile, e in particolare le unità contraddistinte catastalmente quali particelle (OMISSIS) sub (OMISSIS) e 55 sub (OMISSIS), avevano destinazione d’uso commerciale, categoria C/1; che parte dell’immobile, alla data della vendita, risultava locato ad uso commerciale alla ditta B.G. per il canone annuo di Euro 18.000,00; che nei mesi successivi all’acquisto, dovendo procedere alla ristrutturazione dei locali, l’attrice aveva scoperto che l’immobile acquistato, a dispetto di quanto dichiarato dai venditori, e di quanto risultante presso l’Agenzia del Territorio di Ragusa, non presentava destinazione d’uso commerciale, ma risultava avere ben più modesta. destinazione urbanistica a magazzino (categoria C/2); che il conduttore, preso atto della diversa destinazione urbanistica, aveva rilasciato l’immobile senza preavviso, a far data dal 5.10.2007; che la destinazione urbanistica del bene costituiva qualità essenziale dell’immobile acquistato e tale difformità incideva sul valore del bene.

Chiedeva, pertanto, la riduzione del prezzo di vendita, tenuto conto del reale valore di mercato del bene; in subordine, solo nell’ipotesi in cui fosse accertata la possibilità di ottenere il mutamento della destinazione d’uso urbanistica, instava per la condanna dei convenuti al rimborso delle spese e oneri accessori per la pratica amministrativa.

Si costituivano in giudizio D.M.N. e A.R., i quali eccepivano che la diversa destinazione d’uso dell’immobile era ben conosciuta dall’attrice sin dall’inizio delle trattative precontrattuali, proprio in considerazione del fatto che l’acquirente avrebbe dovuto provvedere al cambio di destinazione d’uso; che con scrittura privata in data 8.5.2006 il D.M. aveva autorizzato l’allora promittente acquirente a presentare presso il Comune di Comiso il progetto per la ristrutturazione e il cambiamento d’uso dei suddetti locali; che i locali, allo stato, risultavano autorizzati, e in particolare uno di essi era divenuto sede di comitato elettorale, mentre l’altro era adibito alla vendita di capi di abbigliamento; che mai i convenuti avevano garantito la destinazione dell’immobile ad attività commerciale.

Con sentenza n. 217/2011 del 18.3.2011 il Tribunale di Ragusa rigettava la domanda compensando fra le parti le spese del giudizio.

Contro detta sentenza proponeva appello la Co & Gi Immobiliare, deducendo che il Tribunale aveva ritenuto non provato che l’immobile appartenesse alla categoria C/2 (magazzini), avendo ignorato la certificazione del Comune di Comiso del 10.10.2007, la concessione edilizia e il certificato di agibilità (dai quali risultava la destinazione d’uso degli immobili come magazzini), nonchè per avere il Giudice sostenuto che non costituiva qualità promessa la destinazione ad attività commerciale.

Si costituivano in giudizio gli appellati chiedendo il rigetto dell’appello.

Con sentenza n. 1448/2015, depositata in data 28.9.2015, la Corte d’Appello di Catania rigettava il gravame condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado.

Avverso la suddetta sentenza propone ricorso per cassazione la Co & GI Immobiliare s.r.l. sulla base di quattro motivi; gli intimati D.M.N. e A.R. non hanno svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto; omesso insufficiente esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione all’art. 1362 c.c.), nel capo in cui la Corte d’Appello afferma che non risulta che i venditori avessero promesso o garantito che gli immobili erano destinati ad attività commerciali e riteneva così insussistente il dedotto inadempimento”.

1.2. – Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto – Vizio di motivazione – Omesso insufficiente esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione all’art. 1362 c.c.), nel capo in cui il Giudice di merito trascura, sia ai fini della corretta interpretazione della comune volontà dei contraenti e sia ai fini della ritenuta conoscenza in capo all’acquirente delle reali caratteristiche del bene venduto, tutte le altre risultanze processuali, tali da invalidare l’efficacia probatoria degli elementi in base ai quali si è (erroneamente) formato il convincimento del Giudice di merito”.

1.3. – Con il terzo motivo, la ricorrente censura la “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli artt. 2727 e 2729 c.c.), nella parte in cui il Giudice di merito ha valutato in modo non unitario l’unico indizio offerto da parte convenuta, costituito dalla scrittura privata dell’8.5.2006, in merito all’asserita conoscenza in capo all’acquirente dell’effettiva destinazione urbanistica dei beni ceduti, così preterendo le altre prove documentali ed orali, senza valutarli gli uni per mezzo degli altri”.

1.4. – Con il quarto motivo, la ricorrente lamenta “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto – Omesso e insufficiente esame circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 in relazione all’art. 116 c.p.c.), nella parte in cui il Giudice di merito lamenta che l’attrice non avrebbe fornito la prova dei danni”.

2. – In ragione della loro connessione logico-giuridica, e della analoga modalità formulazione delle relative censure, i motivi vanno congruamente esaminati e decisi.

2.1. – Essi non possono trovare accoglimento.

2.2. – La Corte di merito ha rilevato come dalla scrittura privata dell’8.5.2006, anteriore alla stipula del contratto di vendita, depositata in atti, risultava che il D.M. avesse autorizzato G.N. (legale rappresentante della società appellante) a presentare al Comune di Comiso un “progetto per ristrutturazione o cambiamento d’uso dei suddetti locali”. Inoltre, La Corte ha sottolineato che le parti nell’atto notarile in data 6.6.2007 non avessero inteso attribuire alla definizione “locali ad uso commerciale” quella di “locali destinati ad attività commerciale” (tra i quali rientrano quelli compresi nella categoria C/1, quali negozi e botteghe); quanto piuttosto avessero voluto semplicemente indicare che gli immobili avevano una destinazione diversa rispetto a quella abitativa.

Per la Corte, dunque, non sussisteva il dedotto inadempimento mancando, in radice, l’esistenza di una qualità promessa; laddove il cambiamento d’uso era stato già ottenuto dall’appellante, che appunto nell’atto di appello chiedeva il rimborso della relativa spesa, pur non provandone l’ammontare.

2.3. – Con riferimento al dedotto “omesso insufficiente esame circa un fatto decisivo per il giudizio”, va rilevato che questa Corte ha ripetutamente affermato che il novellato paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 28 settembre 2015) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., non v’è specifica adeguata indicazione.

Laddove, poi, va aggiunto che è altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per sostenere il mancato esame di deduzioni istruttorie, di documenti, di eccezioni di nullità della sentenza non definitiva e degli atti conseguenti, di critiche rivolte agli elaborati peritali (ovvero di semplici allegazioni difensive a contenuto tecnico), o per lamentarsi di una motivazione non corretta (Cass. n. 27415 del 2018); ciò in quanto nel paradigma ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non è inquadrabile il vizio di omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018). Le censure (riferite, nella specie, dalla ricorrente non già ad asserite omissioni della decisione della causa inter partes, quanto alla contestazione della asserita erronea interpretazione da parte del collegio giudicante del contestato contenuto del contratto) si sostanziano viceversa in una mera richiesta di riesame delle risultanze istruttorie operata dalla Corte distrattuale; le cui affermazioni di fatto sul punto risultano invece congrue e plausibili, sottraendosi come tali al sindacato di legittimità.

2.4. – In secondo luogo, si evidenzia come la ricorrente lamenti, in sintesi, l’erroneità della valutazione del quadro probatorio acquisito e quindi delle conclusioni cui la Corte sarebbe di conseguenza pervenuta.

Ma è consolidato il generale principio ermeneutico secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il Giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013; Cass. n. 1554 del 2004).

Parimenti, per venire più specificamente al thema decidendum, va rilevato che, quanto alla interpretazione del contratto (specificamente riferibile alle censure mosse con i motivi de quibus), l’accertamento, anche in base al significato letterale delle parole, della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto dei negozi inter partes (cfr. Cass. n. 18509 del 2008), si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che anche tale accertamento è censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione (Cass. n. 1646 del 2014), solo nel caso in cui (contrariamente a quanto risulta nella presente fattispecie) la motivazione stessa risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche; con la precisazione che nessuna di tali censure può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante, Cass. n. 26683 del 2006; Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 1754 del 2006).

Per sottrarsi al sindacato di legittimità, infatti, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, sì che quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto la interpretazione poi disattesa dal giudice del merito (nella specie da entrambi i giudici di merito), dolersi in sede di legittimità che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10466 del 2017; Cass. n. 8909 del 2013; Cass. n. 24539 del 2009; Cass. n. 15604 del 2007; Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 17248 del 2003). Essendo altresì pacifico che il difetto di motivazione censurabile in sede di legittimità è configurabile (cosa che nella specie non è dato ravvisare) solo quando dall’esame del ragionamento svolto dal Giudice di merito, e quale risulta dalla stessa sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre a una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza del processo logico che ha indotto il Giudice al suo convincimento, ma non già quando vi sia difformità rispetto alle attese del ricorrente (Cass. n. 13054 del 2014).

2.5. – In quest’ultimo caso, infatti, la censura si risolve, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando la ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

3. – Il ricorso va pertanto rigettato. Nulla per le spese in ragione del fatto che gli intimati non hanno svolto alcuna difesa. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della seconda sezione civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 19 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 agosto 2020

 

 

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