Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17597 del 28/06/2019

Cassazione civile sez. I, 28/06/2019, (ud. 10/04/2019, dep. 28/06/2019), n.17597

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria G.C. – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16951/2015 proposto da:

O.S., elettivamente domiciliata in Roma, Via Cosseria

n. 2, presso lo studio dell’avvocato Placidi Alfredo, rappresentata

e difesa dall’avvocato Zorzella Nazzarena, giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 21/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, del

09/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/04/2019 dal cons. TRIA LUCIA.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. la Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 9 gennaio 2015, accoglie l’appello principale del Ministero dell’Interno avverso l’ordinanza del Tribunale di Bologna che aveva concesso il permesso di soggiorno per motivi umanitari a O.S., revoca tale concessione e respinge l’appello incidentale della O.;

2. la Corte d’appello, per quel che qui interessa, precisa che:

a) il racconto della richiedente non appare credibile, come chiaramente argomentato dalla Commissione territoriale;

b) in particolare, non è credibile il fatto che la donna, giunta in Italia per sfuggire alla propria situazione personale, sarebbe stata coinvolta nel traffico di stupefacenti dal proprio fidanzato e che non lo avrebbe denunciato per paura di essere percossa;

c) neppure è credibile che il fidanzato della richiedente sarebbe riuscito a sottrarsi alla giustizia italiana ritornando in Nigeria, mentre lei è stata processata e condannata per reati commessi sotto costrizione;

d) la Commissione ha rilevato esattamente che la donna avrebbe potuto denunciare i maltrattamenti subiti dal fidanzato nel corso del procedimento giudiziale a seguito del quale aveva patteggiato la pena, quantomeno per ottenere uno sconto di pena, tanto più che il fidanzato non si trovava più in Italia;

e) di conseguenza non appare credibile nemmeno il fatto che il fidanzato, dalla Nigeria, le faccia pressioni per la restituzione del debito contratto per il viaggio, non del tutto saldato;

f) manca, inoltre, il presupposto dell’attualità del pericolo nel rientro nel Paese di origine, visto che la richiedente si trova in Italia dal 2006 e solo ora ha chiesto le misure di protezione, richiamando il matrimonio forzato contratto in Nigeria e l’omicidio del marito seguito ad un tentativo di stupro che sono fatti che si riferirebbero agli anni 2005-2006;

g) d’altra parte, diversamente da quanto sostenuto dalla O., dall’esame della documentazione prodotta emergerebbe che la stessa è assistita da un avvocato locale e quindi non sarebbe totalmente priva di tutela;

h) le suddette incongruenze sono state valutate dal Tribunale che ha, di conseguenza, escluso la possibilità di concedere la protezione internazionale;

i) in particolare, sono state ritenute insussistenti le condizioni per concedere la protezione sussidiaria in mancanza di prova dell’interessamento del Paese (e, in particolare, della zona) di provenienza di una situazione di conflitto interno o internazionale come emergente dal rapporto annuale di Amnesty International 2013;

l) non si condivide la decisione finale del Tribunale che, in base alle medesime circostanze riferite nel racconto, ha concesso la protezione umanitaria;

m) da ultimo si rileva che, come affermato dal Ministero dell’Interno, nella specie sussistono anche gli impedimenti per il rilascio del permesso di soggiorno di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 4, comma 3, in quanto la richiedente è stata condannata in via definitiva per reati inerenti la vendita e lo spaccio di sostanze stupefacenti, non essendo credibile, come si è detto, il racconto dell’interessata nella parte cui la stessa sostiene di essere stata costretta dalla violenza del fidanzato a commettere i suddetti reati;

n) comunque, mancano altre ragioni che possano giustificare l’attribuzione del suddetto titolo di soggiorno;

3. il ricorso di O.S., illustrato da memoria, domanda la cassazione della suddetta sentenza per tre motivi; il Ministero dell’Interno non svolge attività difensiva in questa sede.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

Sintesi dei motivi.

1. il ricorso è articolato in tre motivi;

2. con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 4,5,6,7 e 8, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, degli artt. 2,3,6 Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Omesso esame di fatti decisivi;

2.1. si sottolinea che la sentenza impugnata muove dalla premessa di una non precisata non credibilità del racconto della ricorrente che è il frutto dell’omessa valutazione dei fatti decisivi del giudizio e che si basa sull’omessa considerazione del matrimonio forzato subito dalla ricorrente nonchè sull’apodittica affermazione secondo cui la richiedente in Nigeria potrebbe giovarsi dell’assistenza di un legale, affermazione effettuata senza esaminare la documentazione allegata che dimostra l’assenza in Nigeria di tutela istituzionale per le donne vittime di violenze domestiche. Il che risulterebbe confermato dal rilievo attribuito nella sentenza impugnata al ritardo con il quale è stata richiesta la protezione, rilievo che non solo si pone in contrasto con il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 1, ma che dimostra come la Corte territoriale non abbia preso nella dovuta considerazione le pesanti pressioni subite dal fidanzato per la restituzione del debito contratto per il viaggio verso l’Italia;

2.2. sin dal ricorso originario, la ricorrente ha posto a fondamento della sua domanda due elementi fattuali: 1) il matrimonio forzato subito, il conseguente tentativo di stupro da parte dell’anziano marito, la sua reazione cui era conseguita la morte dell’uomo; 2) le violenze e le continue minacce subite, una volta arrivata in Italia, da un connazionale con cui aveva una relazione affettiva, il quale dapprima l’ha costretta a commettere attività criminali e tuttora la minaccia per riavere il denaro (circa Euro 15.000) prestatole per emigrare in Italia nel 2006;

2.3. al primo dei due elementi è stato attribuito rilievo centrale e al riguardo la ricorrente ha evidenziato e provato – sulla base di fonti nazionali e internazionali autorevoli, quali il Rapporto di ricerca del Dipartimento delle Pari Opportunità del 2014 e il Rapporto di Amnesty International 2011 – che in Nigeria i fenomeni dei matrimoni forzati e delle violenze domestiche contro donne e ragazze rappresentano tuttora una delle problematiche più gravi del Paese che il sistema istituzionale e giudiziario non riescono a prevenire e ad affrontare al fine di preservare le donne dalle violenze e di assicurare alla giustizia i responsabili. Anzi nel Rapporto del 2012 sui Diritti umani in Nigeria del Dipartimento di Stato USA si denuncia che nel Paese le autorità di polizia non intervengono nei conflitti familiari e che la polizia spesso abusa delle donne che si recano ad effettuare delle denunce per violenze domestiche subite. Nel Rapporto di Amnesty International del 2012 si rileva poi che il sistema giudiziario nigeriano ha continuato ad essere caratterizzato da risorse insufficienti, corruzione e generale sfiducia;

2.4. ne deriva che il fattore principale della domanda di protezione – con particolare riguardo al rifugio politico – è sempre stato quello del rischio di persecuzione in ragione dell’appartenenza al genere femminile data l’assenza di forme di effettiva protezione da parte dello Stato di provenienza autore esso stesso, tramite la polizia, di violenza sulle donne denuncianti molestie etc., come evidenziato dai citati Rapporti;

2.5. la ricorrente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda e i fatti sono coerenti e plausibili, non contraddittori. La Corte d’appello ha omesso di valutare tali elementi e la documentazione attestante l’assenza di effettiva protezione istituzionale delle donne in Nigeria, rispetto alle violenze domestiche, omettendo così di verificare l’effettivo grado di tutela apprestata o meno in concreto dalle autorità nigeriane in situazioni del genere. La Corte territoriale si è limitata a negare la credibilità del racconto della richiedente valutando esclusivamente la parte del racconto relativo alle minacce subite dal fidanzato e omettendo così di prendere in considerazione la prima parte del racconto. Anzi, al riguardo la Corte senza negare l’avvenuto matrimonio forzato e il conseguente decesso del marito causato dalla richiedente ha affermato genericamente che ella in Nigeria potrebbe essere assistita da un avvocato locale e quindi avere tutela;

2.6. tale assunto è il frutto di un personale e non obiettivo giudizio della Corte che, in quanto tale, si pone in contrasto con la normativa richiamata, tanto più che è il frutto dell’omessa valutazione dei fatti decisivi rappresentati in giudizio oltre che dell’omesso accertamento della situazione aggiornata del Paese di origine;

3. con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14; del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27; degli artt. 2, 3 e 6 CEDU. Omesso esame di fatti decisivi, con specifico riferimento al diniego del riconoscimento della protezione sussidiaria;

3.1. si sottolinea che la ricorrente, già nell’appello incidentale, aveva sostenuto che, diversamente da quanto deciso sul punto dal Tribunale, nel Rapporto di Amnesty International 2013 richiamato dal giudice si evidenziava che la situazione di violenza e di insicurezza per i cittadini nigeriani era peggiorata e che poliziotti e soldati avevano commesso uccisioni illegali e sommarie rimanendo impuniti. Si registrava anche un deterioramento della situazione dei diritti umani, tanto che centinaia di persone erano state uccise in tutto il Paese nel contesto di violenze di matrice politica, comunitaria e settaria specialmente in prossimità delle elezioni politiche. Nel report Human Rights Watch del 2014 la Nigeria è descritta come un Paese nel quale gli abusi sono raccapriccianti, c’è un tasso alto di povertà e di corruzione, le violenze sono quotidiane e la polizia è di frequente coinvolta nelle violazioni di diritti umani;

3.2. nella sentenza impugnata non vi è traccia di tali plurimi fattori di rischio e vi si afferma che mancherebbero prove di una situazione di conflitto interno o internazionale nella zona di provenienza della richiedente essendo i documenti prodotti di carattere generale e inidonei a rendere il racconto credibile;

3.3. i documenti allegati – il cui carattere poco specifico non li rende inutilizzabili – comprovano l’incapacità delle autorità nigeriane di dare protezione dall’interessata e la sussistenza degli elementi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 cioè il nesso tra la condizione personale della richiedente e il rischio di danno grave;

4. con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 251 del 2008, art. 32, comma 3;

4.1. si sostiene che la Corte d’appello ha accolto l’appello del Ministero dell’Interno I punto in quanto ha palesemente travisato la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale, nella quale non era stata mai negata la credibilità della narrazione della ricorrente;

4.2. infatti, il Tribunale aveva negato lo status di rifugiato sull’assunto che la richiedente avrebbe potuto difendersi adeguatamente in Nigeria sia per il matrimonio forzato sia per la morte del marito, mentre ha negato la protezione sussidiaria per la ritenuta insussistenza di una situazione di violenza indiscriminata nella zona della Nigeria di provenienza;

4.3. la Corte territoriale ha aggiunto di considerare ostativi al riconoscimento della protezione umanitaria sia il TU n. 286 del 1998, art. 4, comma 3, sia il D.Lgs.n. 251 del 2007, artt. 10 e 16;

4.4. si tratta di un argomento errato perchè l’art. 4, comma 3, cit. riguarda le condizioni per il rilascio del visto o del permesso di soggiorno ordinario, quindi non è applicabile in materia di protezione internazionale o umanitaria e altrettanto inconferenti sono il D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 10 e 16 in quanto l’art. 10 riguarda le cause di esclusione del rifugio politico e l’art. 16 le cause di esclusione della protezione sussidiaria, quindi non sono applicabili alla protezione umanitaria (Cass. n. 21667/2013);

4.5. la ricorrente è da anni priva di effettiva tutela, anche in Italia, in quanto nessun Ente le ha proposto, all’epoca della condanna, di partecipare ad un progetto sociale TU n. 286 del 1998, ex art. 18 può sperare solo di ottenere una forma di protezione per evitare la completa emarginazione sociale sia in Italia sia in Nigeria.

Esame dei motivi.

5. l’esame dei motivi di censura porta al rigetto del ricorso, per le ragioni di seguito indicate;

5.1. è pacifico che la richiedente, nella prima parte del proprio racconto, abbia riferito di aver subito in Nigeria un matrimonio forzato seguito dalla morte del marito da lei involontariamente provocata;

5.2. in base alla costante giurisprudenza di questa Corte, è certo, in diritto, che la costrizione di una donna a un matrimonio forzato costituisce grave violazione della sua dignità, e dunque trattamento degradante ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), che configura a sua volta danno grave la cui minaccia rileva ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria (vedi: Cass. n. 25873/2013; n. 12333/2017; n. 28152/2017);

5.3. ciò è confermato dalla Convenzione di Istanbul (ratificata e resa esecutiva con L. 27 giugno 2013, n. 77) ove si stabilisce che:

– art. 3: ai fini della Convenzione: “a) con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata; b) l’espressione “violenza domestica” designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”;

– art. 37 – Matrimonio forzato: “1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare l’atto intenzionale di costringere un adulto o un bambino a contrarre matrimonio. 2 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per penalizzare il fatto di attirare intenzionalmente con l’inganno un adulto o un bambino sul territorio di una Parte o di uno Stato diverso da quello in cui risiede, allo scopo di costringerlo a contrarre matrimonio”;

– art. 60 – Richieste di asilo basate sul genere: “1 Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’art. 1, A (2) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare/sussidiaria”;

5.4. inoltre, non è necessario che la minaccia di grave danno giustificante tale protezione provenga dallo Stato, ben potendo provenire anche – tra gli altri – da “soggetti non statuali” (come il marito della ricorrente o i suoi familiari) se le autorità statali o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio “non possono o non vogliono fornire protezione” adeguata ai sensi del D.Lgs. cit., art. 6, comma 2, (art. 5, lett. c), del medesimo D.Lgs.;

5.5. da questo quadro normativo si desume la rilevanza della verifica della effettività dei poteri statuali e della capacità degli stessi di fornire adeguata protezione alla vittima del grave danno denunciato, ancorchè le minacce provengano da soggetti privati o addirittura da familiari;

5.6. tuttavia, nella specie, la Corte d’appello ha motivatamente ritenuto non credibile il racconto della richiedente – sia per la prima che per la seconda parte – sottolineandone la genericità e la contraddittorietà e ponendo anche l’accento sui lunghi anni passati dall’arrivo in Italia (e dal riferito svolgimento dei fatti) al momento di presentazione della domanda, considerati rilevanti ai fini della dimostrazione della mancanza del presupposto dell’attualità del pericolo;

5.7. la Corte territoriale ha altresì sottolineato che i documenti prodotti dall’interessata a sostegno dell’avvenuto matrimonio forzato si riferivano alla generale situazione delle vittime di questa pratica in Nigeria e, quindi, erano inidonee ad attribuire credibilità al racconto della richiedente sul punto;

5.8. di conseguenza, la Corte d’appello ha legittimamente omesso di assumere ulteriori informazioni aggiornate sulla effettiva protezione istituzionale offerta alle donne in Nigeria rispetto alle violenze domestiche e così di verificare l’effettivo grado di tutela apprestata o meno in concreto dalle autorità nigeriane in situazioni simili a quella sub judice, utilizzando i canali indicati al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, o mediante altre fonti che fossero in concreto disponibili (cfr. Cass. 16202/2012, 10202/2011, 17576/2010, 27310/2008, quest’ultima resa a Sezioni Unite);

5.9. infatti, in base ad un consolidato orientamento di questa Corte, in presenza di dichiarazioni intrinsecamente non attendibili alla stregua degli indicatori di genuinità di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 il giudice è esentato dall’onere di cooperazione nell’acquisizione probatoria (vedi, per tutte: Cass. 19 febbraio 2019, n. 4892);

6. d’altra parte, la Corte territoriale ha riformato la sentenza di primo grado nella parte relativa alla concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari per due ragioni, ciascuna delle quali idonea a sorreggere la relativa decisione, rappresentate da: a) la sussistenza degli impedimenti per il rilascio del permesso di soggiorno di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 4, comma 3, in quanto la richiedente è stata condannata in via definitiva per reati inerenti la vendita e lo spaccio di sostanze stupefacenti; b) la mancanza di altre ragioni che possano giustificare l’attribuzione del suddetto titolo di soggiorno;

6.1. nel presente ricorso viene motivatamente – e correttamente – contestata solo la prima delle due suddette autonome rationes decidendi, mentre nulla si dice a proposito della seconda;

6.2. trova quindi applicazione il principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, l’omessa impugnazione di una di tali ragioni rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (vedi, per tutte: Cass. 5 ottobre 1973, n. 2499; Cass. SU 8 agosto 2005, n. 16602; Cass. SU 29 maggio 2013, n. 7931; Cass. 11 febbraio 2011, n. 3386; Cass. 27 maggio 2014, n. 11827);

Conclusioni.

7. le suddette osservazioni – secondo cui i primi due motivi di ricorso sono da respingere e il terzo motivo va dichiarato inammissibile – portano al complessivo rigetto del ricorso;

8. nulla si deve disporre per le spese del presente giudizio di cassazione, essendo il Ministero dell’Interno rimasto intimato;

9. si da atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile, il 10 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2019

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