Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17593 del 23/08/2011

Cassazione civile sez. VI, 23/08/2011, (ud. 15/07/2011, dep. 23/08/2011), n.17593

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

Avv. B.R. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e

difeso da se stesso ed elettivamente domiciliato in Roma, v. Luigi

Capuana, n. 207, presso lo studio dell’Avv. Bacci Marcello;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CANTU’ (CF.: (OMISSIS)), in persona del Sindaco pro-

tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Manzi Luigi in virtù di

procura speciale a margine del controricorso ed elettivamente

domiciliato presso il suo studio, in Roma, v. Federico Confalonieri,

n. 5;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza n. 30 del 2010 del Tribunale di Como

– sez. dist. di Cantù, depositata il 14 aprile 2010 (e non

notificata).

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15 luglio 2011 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per il

rigetto del ricorso.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Che il consigliere designato ha depositato, in data 18 maggio 2011, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.: “Il giudice di pace di Cantù, con sentenza n. 332 del 2008, rigettava l’opposizione a verbale di accertamento n. (OMISSIS) elevato della Polizia locale di Cantù proposta dall’Avv. R. B.. A seguito di appello interposto dal ricorrente soccombente, il Tribunale di Como – sez. dist. di Cantù, con sentenza n. 39 del 2010, depositata il 14 aprile 2010, rigettava il gravame e condannava l’appellante al pagamento delle spese e competenze del grado. A sostegno dell’adottata sentenza il suddetto Tribunale ravvisava l’infondatezza di tutti i motivi dell’impugnazione proposta sia con riguardo all’assunta illegittimità dell’attività di notificazione del verbale che con riferimento alla mancata prova circa il supposto stato di necessità (in effetti non dedotta ritualmente), condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite in virtù del principio della soccombenza.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Avv. B.R., articolato su tre motivi.

Con il primo motivo è stata dedotta la violazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 4, per omessa contestazione mediante notificazione come prevista ed indicata dalla stessa norma.

Con il secondo motivo è stato prospettato un motivo intitolato “sulla mancata escussione del teste indicato dal ricorrente sia in primo grado che in appello”. Con il terzo motivo è stata denunciata, in via subordinata, la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., comma 2, e dei criteri normativi contenuti nella vigente tariffa professionale per la determinazione delle spese legali, deducendosi anche il vizio di extrapetizione per il riconoscimento del rimborso forfetario per spese generali, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Rileva il relatore che sembrano sussistere i presupposti per ritenere manifestamente infondato il primo motivo del ricorso ed inammissibili gli altri due.

Con riferimento al primo motivo si osserva che, in generale, la giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 563 del 1994; Cass. n. 8079 del 1996 e Cass. n. 22375 del 2006) ha affermato che l’Amministrazione che si avvalga del servizio postale per la notificazione degli estremi della violazione, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 14 è tenuta ad osservare le norme sulla notificazione degli atti giudiziari a mezzo della posta, come dettate dalla L. n. 980 del 20 novembre 1982, sicchè i relativi adempimenti non possono formare oggetto di concessione a privati, come prevista per taluni servizi postali dal D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, art. 29 e dagli artt. 121 e 148 del regolamento di esecuzione approvato con D.P.R. 29 maggio 1982 n. 655. La L. n. 890 del 1982, riserva infatti all’amministrazione postale tutti gli adempimenti del procedimento di notificazione e il D.Lgs. n. 261 del 1999, che ha liberalizzato i servizi postali, ha continuato a riservare in via esclusiva (art. 4, comma 5) al fornitore del servizio universale (e cioè all’Ente Poste) gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie. Conseguentemente, la notificazione affidata all’agenzia privata concessionaria, a norma dell’art. 29 del codice postale, ed eseguita dai dipendenti della stessa, si deve considerare giuridicamente inesistente e ad essa consegue l’effetto dell’estinzione dell’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione, secondo la previsione della L. n. 689 del 1981, art. 14.

Per come dedotto in ricorso, confermato con il controricorso ed emergente dalla stessa sentenza impugnata, nella specie, tuttavia, non risulta che sia stata delegata l’intera attività di notificazione del verbale di accertamento ad una ditta esterna al Comune di Cantù, evincendosi che alla ditta appaltatrice Maggioli s.p.a. sia state demandate le sole prestazioni materiali di stampa, di successivo imbustamento e di consegna dei relativi plichi alle Poste Italiane s.p.a., che ha, quindi, proceduto direttamente al conseguente recapito nei confronti del destinatario. Pertanto, l’attività propria finale concernente la notificazione effettiva dell’atto amministrativo non risulta delegata ad una società privata (incaricata solo dell’attività materiale esecutiva meramente propedeutica), risultando, in ogni caso, riconducibile ad una prestazione dell’Ente Poste, ragion per cui la notificazione stessa deve ritenersi validamente effettuata.

Con riguardo al secondo motivo la cui rubrica è riferita alla mancata escussione del teste indicato dal ricorrente sia in primo grado che in appello, appare evidente la sua inammissibilità sia per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, (per mancata indicazione delle supposte norme di diritto violate e per la mancata esposizione, in modo sufficiente, delle ragioni poste a fondamento della censura) sia per difetto di autosufficienza della doglianza, non risultando riprodotte specificamente le circostanze sulle quali avrebbe potuto essere escusso il teste, nè indicati i presupposti dai quali si sarebbe potuto evincere la loro decisività. In proposito si ricorda che la giurisprudenza di questa Corte (v., tra le tante, Cass. n. 6440 del 2007 e Cass. n. 17915 del 2010, ord.) è pacifica nel ritenere che il ricorrente, il quale, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio (come una prova orale) o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative. Va sottolineato, inoltre, che l’esercizio del potere di disporre la rinnovazione dell’esame dei testimoni previsto dall’art. 257 c.p.c., esercitabile anche nel corso del giudizio di appello in virtù del richiamo contenuto nell’art. 359 c.p.c., involge un giudizio di mera opportunità che non può formare oggetto di censura in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione (v., da ultimo, Cass. n. 9322 del 2010).

Anche il terzo motivo si prospetta inammissibile per difetto di autosufficienza dal momento che il ricorrente si lamenta genericamente dell’attribuzione delle spese di lite in misura asseritamente maggiore di quella che sarebbe spettata in ragione dello scaglione effettivamente applicabile, senza, tuttavia, indicare quali diritti e quali onorari sarebbero stati liquidati in misura eccessiva o, almeno, quale avrebbe dovuto essere, in modo analitico, la somma da riconoscersi per gli uni e per gli altri nel limite massimo tariffario, onde consentire un concreto controllo nella presente sede dell’eventuale violazione dedotta (v., ex multis, Cass. n. 14744 del 2007 e Cass. n. 22287 del 2009).

Il profilo dello stesso motivo attinente al riconosciuto rimborso forfetario d’ufficio è manifestante infondato perchè il giudice di appello si è conformato alla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il rimborso cd. forfetario delle spese generali (nella specie applicabile ai sensi del D.M. 8 aprile 2004, n. 127, art. 14) costituisce una componente delle spese giudiziali, la cui misura è predeterminata dalla legge, che spetta automaticamente al professionista difensore, anche in assenza di allegazione specifica e di apposita istanza, dovendosi, quest’ultima, ritenere implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali che incombe sulla parte soccombente.

In definitiva, si riconferma che sembrano sussistere i presupposti, in relazione all’art. 380 bis c.p.c., per il rigetto del ricorso in virtù della manifesta infondatezza del primo motivo e dell’inammissibilità degli altri due motivi (oltre che della parziale manifesta infondatezza dell’evidenziato profilo dedotto con il terzo motivo)”.

Considerato che il Collegio condivide argomenti e proposte contenuti nella relazione di cui sopra, nei riguardi della quale non sono state sollevate critiche ad opera delle parti (non essendo risultate depositate memorie a tal fine e non essendo comparso alcuno all’adunanza camerale);

ritenuto che, pertanto, il ricorso deve essere rigettato per manifesta infondatezza, con la conseguente condanna del ricorrente, in quanto soccombente, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 600,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2011

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