Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17582 del 05/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 05/09/2016, (ud. 12/04/2016, dep. 05/09/2016), n.17582

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18362-2013 proposto da:

AZIENDA MULTISERVIZI IGIENE AMBIENTE TORINO – AMIAT S.P.A. P.I.

07309150014, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. QUIRINO VISCONTI 20,

presso lo studio dell’avvocato LUCA TUFARELLI, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati FABRIZIO BARBIERI, ANGELO BENESSIA,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

L.M.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA

VIA CICERONE N. 44, presso lo studio dell’avvocato MARIANO PROTTO,

che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati UMBERTO

GIARDINI, ALESSANDRO MAZZA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 745/2012 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 24/07/2012 R.G.N. 203/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/04/2016 dal Consigliere Dott. BOGHETICH ELENA;

udito l’Avvocato RISTUCCIA MARIANNA per delega Avvocato TUFARELII

LUCA;

udito l’Avvocato CORBYONS GIOVANNI per delega Avvocato PROTTO

MARIANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO RICCARDO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con sentenza depositata il 19-24.7.2012, la Corte d’appello di Torino, respingendo l’appello dell’Azienda Multiservizi Igiene Ambientale Torino s.p.a. (nel proseguo AMIAT), ha accertato la formazione del giudicato esterno circa il profilo del risarcimento del danno conseguito alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato a L.M.G., accertamento svolto dalla sentenza n. 528/2005 della Corte di appello di Genova (intervenuta tra le parti con riguardo alla domanda di illegittimità del licenziamento intimato dalla società in data 17.11.1986 e ribadito il 6.12.1991).

2. Il giudice d’appello ha, in particolare, ritenuto che la società avrebbe dovuto sollevare le proprie censure relative alla statuizione di condanna al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18, nel corso del giudizio celebrato avanti la Corte di appello di Genova a seguito di rinvio della Corte di Cassazione, che con sentenza n. 8363/2003 aveva demandato alla suddetta Corte territoriale l’accertamento della legittimità del licenziamento e, in particolare, dell’accordo conciliativo intervenuto tra le parti che poneva – quale condizione sospensiva dell’atto di recesso – la condanna in sede penale del lavoratore in ordine alla condotta contestata.

3. La società ricorre per la cassazione di questa sentenza con due motivi. Il lavoratore resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso per tassazione, con due motivi, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2909, 1362 e ss., 2708 c.c., in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18, (nel testo precedente le modifiche di cui alla L. n. 92 del 2012), nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5), avendo la Corte territoriale omesso di analizzare la sentenza della Corte di appello di Genova (n. 528/2005, a seguito di secondo rinvio da parte della sentenza n. 8363/2003 di questa Corte) alla luce delle domande delle parti e degli accertamenti concretamente svolti, senza considerare che la questione della formazione del giudicato sul capo del risarcimento del danno non poteva che essere affrontata nel presente giudizio. La Corte di Genova aveva reso un enunciato che, a fronte della domanda assolutamente generica di condanna da parte del lavoratore (quale conseguenza della declaratoria di illegittimità del licenziamento), non possedeva gli elementi costitutivi dell’accertamento richiesto dall’art. 2909 c.c., ma integrava una pronuncia di condanna generica che, secondo i principi dell’ordinamento, devolveva al giudice della liquidazione l’accertamento della esistenza effettiva del danno e della sua entità, profili determinanti in questa fattispecie ove non poteva rinvenirsi alcuna colpa dell’azienda nell’aver negato la reintegrazione nel posto di lavoro.

2. I motivi del ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto strettamente connessi, non sono fondati.

La Corte territoriale ha fondato la pronuncia sulle seguenti argomentazioni: a) la Corte di appello di Genova (in sede di rinvio a seguito della sentenza n. 8363/2003 della Corte di Cassazione) ha accertato l’illegittimità del licenziamento intimato a L.M. e, fra l’altro, ha condannato la società AMIAT a reintegrare il lavoratore e “a corrispondergli a titolo di risarcimento del danno una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal dì del recesso a quello della effettiva reintegra”; b) la Corte di Cassazione, in sede di impugnazione della sentenza della Corte genovese, ha confermato la correttezza della valutazione di illegittimità del licenziamento nonchè della “statuizione di reintegra e di risarcimento secondo commisurazione rimasta priva di censure in questa sede” (sentenza n. 22419/2009); c) le censure della società relative al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18, sono state dedotte per la prima volta nel presente giudizio, mentre dovevano essere esplicitate nel precedente giudizio di rinvio svoltosi davanti alla Corte di appello di Genova (e nel successivo giudizio di impugnazione avanti alla Corte di Cassazione).

Sostiene di contro il ricorrente che la condanna generica proferita dalla Corte genovese demanda al giudice della liquidazione la valutazione sia della esistenza effettiva del danno sia della sua concreta entità.

3. La argomentazione non appare corretta.

Il danno conseguente alla illegittimità del licenziamento fu regolarmente chiesto nel primo giudizio (proposto presso la Pretura di Torino il 16.1.1992) ed ottenuto con la prima statuizione giudiziale con cui (a differenza delle sentenze precedenti) si dichiarò illegittimo l’atto di recesso (la sentenza della Corte genovese n. 528/20905); in quella stessa sede la società avrebbe dovuto chiedere la limitazione del danno all’entità minima prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, (cinque mensilità) ovvero diversa valutazione equitativa. Ne consegue che detta richiesta, come logicamente e congruamente statuito dalla sentenza impugnata, è preclusa dal giudicato venutosi a formare sull’entità dei danni da licenziamento, che è stato determinato, dalla Corte genovese, nell’indennità pari alle retribuzioni globali di fatto dalla data del recesso a quello della effettiva reintegra.

E’ stato affermato che il risarcimento dei danni spettanti al lavoratore illegittimamente licenziato è parametrato economicamente dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, secondo una presunzione iuris tantum, alla misura delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito qualora non fosse stato illegittimamente licenziato – dalla quale vanno detratti, ove risultanti, gli importi che il lavoratore abbia percepito per aver svolto, nel periodo successivo alla risoluzione del rapporto, un’attività remunerata – e che l’importo delle cinque mensilità di cui all’art. 18 cit., comma 4, rappresenta il minimo inderogabilmente dovuto al lavoratore, in base ad una presunzione iuris et de iure, quale parte comunque irriducibile dell’obbligazione risarcitoria conseguente all’illegittimo licenziamento (cfr. ex multis Cass. nn. 6499/2011, 18146/2007).

E’ stato inoltre ritenuto (cfr. Cass. nn. 3020/1989, 2379/1998) che la parte la quale in applicazione dell’art. 18 cit. abbia ottenuto con sentenza passata in giudicato, previa declaratoria dell’illegittimità del licenziamento, la condanna del datore di lavoro al pagamento di un certo ammontare commisurato alle retribuzioni perdute, non può, con una successiva domanda, richiedere il risarcimento dei danni ulteriori, in quanto la generica domanda di risarcimento proposta nel primo giudizio era atta a ricomprendere e ricomprendeva tutti i danni maturati fino alla sentenza di reintegra nel posto di lavoro sicchè l’identità oggettiva dei due giudizi fa operare, rispetto al secondo, la preclusione del giudicato, estesa non solo a quanto dedotto ma anche a quanto deducibile.

Nella specie, il lavoratore aveva chiesto che il datore di lavoro venisse condannato a risarcirgli il danno in misura pari alle retribuzioni globali di fatto dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegrazione, con il limite dell’importo minimo di cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, sicchè il giudice del merito, una volta ritenuta l’illegittimità del licenziamento, si è attenuto al principio secondo cui spettavano al lavoratore tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione, non potendo detrarre alcunchè a titolo di aliunde perceptum (in quanto non eccepito dalla società). Formatosi, pertanto, il giudicato sul diritto alla spettanza del risarcimento del danno, sul periodo di riferimento (dalla data del licenziamento al momento di reintegrazione nel posto di lavoro) e sul parametro da prendere in considerazione (le retribuzioni globali di fatto), la Corte territoriale ha correttamente statuito che il successivo giudizio può avere ad oggetto esclusivamente l’effettiva entità delle voci stipendiali che concorrono a delineare la retribuzione globale di fatto del lavoratore.

Tale statuizione è, inoltre, conforme alla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. nn. 24242/2010, 4547/2009, 11677/2005, 847/2004) che – pur qualificando come condanna generica la sentenza che (dichiarando l’illegittimità del licenziamento) condanna il datore di lavoro a corrispondere al lavoratore le mensilità di retribuzione per il periodo compreso tra la data del licenziamento e quella dell’effettiva reintegrazione – ha ritenuto proponibile un ulteriore giudizio volto alla (mera) individuazione della retribuzione globale dl fatto da prendere quale parametro del risarcimento, impregiudicato (in quanto coperto da giudicato) il profilo della sussistenza e dell’entità del danno corrispondenti nel numero di mensilità determinate dalla sentenza di condanna.

4. In conclusione, il ricorso va rigettato. Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza.

5. Il ricorso è stato notificato il 23/7/2013, dunque in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite a favore di L.M.G., liquidate in Euro 100,00 per spese, Euro 7.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2016

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