Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17579 del 28/06/2019

Cassazione civile sez. lav., 28/06/2019, (ud. 09/05/2019, dep. 28/06/2019), n.17579

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1760-2014 proposto da:

R.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato ENRICO LUBERTO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSIO ARIOTTO;

– ricorrente –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA SPEDALI CIVILI DI BRESCIA, in persona del

Commissario Straordinario pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE LIEGI 35/B, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE DI

PAOLO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati DARIO

MEINI, PIETRO BENEDETTO CARLESCHI.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. la Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 27.6.2013, respingeva il gravame proposto da R.M. avverso la decisione del Tribunale della stessa città, che aveva dichiarato l’inammissibilità del ricorso per intervenuto giudicato, in relazione a precedente giudizio tra le stesse parti, conclusosi con sentenza del Tribunale di Brescia del 27.2.2006, confermata dalla Corte d’appello il 15.3.2007;

2. ritenuta la tempestività dell’appello, la Corte rilevava che i fatti descritti nel precedente ricorso avevano avuto riguardo a mutamenti di mansione denunciati dalla R., la quale aveva sostenuto che l’azienda avesse esercitato lo jus variandi al di fuori delle previsioni contrattuali e di legge, ponendo in essere atti di vero e proprio mobbing allo scopo di giungere al demansionamento della dipendente ed all’allontanamento della stessa, poi realizzatosi con il recesso impugnato in quella sede; era stato affrontato anche il tema del risarcimento del danno subito, connesso ai comportamenti asseritamente posti in essere dai colleghi e dal primario, danni (comprensivi del danno morale e di quello biologico) da dequalificazione e connessi alla lesione della professionalità ed alla violazione dell’art. 2103 c.c., e non solo il tema dei danni conseguenti all’illegittimo licenziamento, come desumibile dalla quantificazione di danni che, per la loro entità, non potevano non ricomprendere anche i danni da mobbing e da demansionamento; la sentenza emessa a conclusione del primo giudizio aveva avuto riguardo e rigettato non solo la prima domanda, sul presupposto che sussistesse la giusta causa del licenziamento, ma anche le domande risarcitorie avanzate dalla lavoratrice, e la inammissibilità della richiesta di accertamento del mobbing era da ritenersi pronunciata in senso atecnico, essendo stata la relativa domanda valutata anche nel merito insieme al dedotto demansionamento;

3. peraltro, secondo la Corte di Brescia, era irrilevante il fatto che nel presente giudizio era stato anticipato al 1998, anzichè al 1999, il verificarsi di qualche presunto episodio di mobbing, stante l’operatività del principio del dedotto e deducibile ed essendo di ostacolo all’operatività del giudicato solo l’allegazione di fatti nuovi posteriori, che nella specie erano tuttavia estranei al rapporto di lavoro, conclusosi con il licenziamento, e come tali non potevano dare luogo a responsabilità contrattuale del datore di lavoro;

4. di tale decisione domanda la cassazione la R., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, l’Azienda Ospedaliera Spedali Civili di Brescia.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. con il primo motivo, si denunziano violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 324 c.p.c., in ordine alla ritenuta fondatezza dell’eccezione di giudicato formulata dalla parte resistente, deducendosi la nullità della sentenza e sostenendosi l’ammissibilità del ricorso proposto dalla R. e del susseguente giudizio di cognizione, sul rilievo che nessun giudicato si era formato sulla domanda di risarcimento per i danni da mobbing e demansionamento, a conferma di ciò rilevando la considerazione che il Tribunale di Brescia, nelle motivazioni della sentenza di primo grado emessa all’esito del presente giudizio, aveva dichiarato compensate le spese di lite in ragione del fatto che la ricorrente era stata certamente profondamente provata dai fatti de quibus, “tant’è che il mobbing è stato riconosciuto dall’Inail” e che ciò doveva ritenersi dirimente;

1.2. invero, secondo la ricorrente, il riconoscimento da parte dell’INAIL del mobbing patito risaliva al novembre 2006, ossia ad un tempo successivo al primo ricorso datato 18.12.2003 e lo stesso era stato oggetto di riconoscimento medico legale solo alla fine dell’anno 2006, con oggettiva concretizzazione del danno, attraverso la sua certificazione integrale e definitiva, temporalmente successiva al giudizio che, invece, secondo la Corte bresciana, avrebbe già sentenziato in via definitiva in relazione ad una tale domanda: da ciò doveva desumersi che la R. non avrebbe potuto proporre precedentemente una domanda di risarcimento, prima ancora della effettiva concretizzazione del danno medesimo o che avesse proposto con il primo ricorso una domanda relativa ad un fatto evento non ancora integralmente realizzatosi;

1.3. si ribadisce che nel precedente giudizio la domanda di mobbing e demansionamento era stata giudicata inammissibile, ciò che rendeva non configurabile un precedente giudicato ostativo e si riportano stralci del precedente ricorso da cui sarebbe reso evidente che i fatti a carattere persecutorio erano stati dedotti solo a supporto della ritenuta illegittimità del licenziamento;

2. con il secondo motivo, si deduce la nullità della sentenza impugnata per carente ed illogica motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio de quo, con particolare riferimento all’omessa trattazione della circostanza dell’intervenuto riconoscimento del mobbing e del relativo danno da parte dell’INAIL nel mese di novembre 2006, adducendosi che la sentenza impugnata abbia omesso di considerare e motivare in merito all’intervenuto riconoscimento medico legale INAIL, nonostante che detta circostanza fosse stata espressamente dedotta e richiamata nell’atto di appello da parte della ricorrente;

2.1. si assume che la Corte d’appello avrebbe dovuto quanto meno spiegare i motivi per i quali il riconoscimento postumo al primo ricorso del danno da mobbing patito dalla ricorrente avrebbe comportato comunque una conferma della fondatezza dell’eccezione di giudicato avanzata dalla convenuta, conseguendo a tale omissione una pacifica carenza di motivazione ed illogicità della stessa;

3. strumentale e non giuridicamente rilevante deve ritenersi la tesi della riconosciuta malattia professionale da parte dell’INAIL in epoca successiva al primo ricorso, in quanto la circostanza evidenziata non è idonea ad escludere che nel primo giudizio potesse essere stato già dedotto un demansionamento con richiesta di riconoscimento e liquidazione dei danni da accertare autonomamente, a prescindere da ogni esame condotto in sede previdenziale; peraltro, in tale sede il riconoscimento del diritto azionato avviene su altre basi, che prescindono dalla sussistenza di una responsabilità datoriale in base a regole civilistiche, le quali presuppongono la allegazione di fatti e di un danno e la riconducibilità causale del secondo al primo, ai fini della operatività della presunzione che onera il datore della prova liberatoria;

4. non si assolvono, poi, gli oneri di specificità del presente ricorso, in quanto si riportano e si trascrivono isolati stralci del primo ricorso e non si produce la sentenza di appello resa all’esito di quel giudizio passata in cosa giudicata, da cui potrebbe rilevarsi la ragione dell’inammissibilità asseritamente di tenore diverso rispetto a quello ritenuto dalla sentenza di Corte d’appello qui impugnata; va, poi, considerato che anche logicamente non può escludersi che l’avere nel primo giudizio accertato la sussistenza di giusta causa del licenziamento, con pronunzia emessa in sede di gravame non impugnata in cassazione, sia consequenziale proprio all’accertamento della insussistenza di condotte vessatorie e demansionanti da parte del datore di lavoro;

5. posto che l’art.. 2087 c.c. riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (Cass. 29.1.2013 n. 2038), in ciò differenziandosi l’accertamento da svolgersi per il risarcimento del danno ricondotto a comportamento datoriale, l’autorità del giudicato copre sia il dedotto, sia il deducibile, cioè non soltanto le ragioni giuridiche fatte espressamente valere, in via di azione o in via di eccezione, nel medesimo giudizio (giudicato esplicito), ma anche tutte quelle altre che, se pure non specificamente dedotte o enunciate, costituiscano, tuttavia, premesse necessarie della pretesa e dell’accertamento relativo, in quanto si pongono come precedenti logici essenziali e indefettibili della decisione (giudicato implicito); con la conseguenza che, qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano per oggetto un medesimo negozio o rapporto giuridico e uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento compiuto circa una situazione giuridica o la risoluzione di una questione di fatto o di diritto incidente su punto decisivo comune ad entrambe le cause o costituenti indispensabile premessa logica della statuizione contenuta nella sentenza passata in giudicato, precludono il riesame del punto accertato e risolto, anche nel caso in cui il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo scopo ed il “petitum” del primo (cfr., tra le tante, Cass. 26.2.2019 n. 5480, Cass. 30.10.2017 n. 25745, Cass. 23.2.2016 n. 3488, Cass. 5.7.2013 n. 16824, Cass. 21.12.2010 n. 25862, sulla mancata conoscenza delle parti di questioni anteriori al tempo del primo processo; Cass. 3.8.2007 n. 17078sulla interpretazione diretta del giudicato da parte della Corte di Cassazione e sull’erronea interpretazione data di esso dal giudice del merito, che può essere denunciata in sede di legittimità sotto il profilo di violazione di norme di diritto, senza che ciò esima dal rispetto dei principi di specificità del ricorso – ex plurimis, Cass. n. 7406 del 2017, Cass. n. 24481 del 2014, Cass. n. 8008 del 2014, Cass. n. 896 del 2014, Cass. Sez. Un. 8077 del 2012 -).

6. la violazione denunziata con il secondo motivo, a prescindere dalla considerazione che non si indica in che termini il fatto decisivo sia stato evidenziato nell’atto di gravame, esula dal vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 e non risponde al paradigma devolutivo e deduttivo del novellato articolo del codice di procedura civile (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439); il vizio di mancanza di motivazione è, poi, riscontrabile solo quando lo stesso sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione e mancanza di motivazione si ha quando quest’ultima manchi del tutto, oppure formalmente esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum: nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame, atteso che, al di là di ogni valutazione sulla conformità ai principi applicabili in materia, la valutazione delle circostanze processuali effettuata è idonea a dare contezza dell’iter logico argomentativo seguito dalla Corte del merito nel pervenire alla soluzione adottata;

7. in conclusione, deve pervenirsi alla declaratoria di inammissibilità del ricorso;

8. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo;

9. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

la Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2019

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