Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17565 del 21/08/2020

Cassazione civile sez. III, 21/08/2020, (ud. 22/06/2020, dep. 21/08/2020), n.17565

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34031-2018 proposto da:

IMMOBINVEST SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA STOPPANI 1,

presso lo studio dell’avvocato CARMELO BARRECA, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato SILVIO MOTTA;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT LEASING SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G.

MAZZINI 146, presso lo studio dell’avvocato EZIO SPAZIANI TESTA,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIANCARLO CATAVELLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1950/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 18/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/06/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO;

 

Fatto

RITENUTO

che:

1. Immobinvest Srl ricorre, affidandosi a tre motivi, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Milano che aveva confermato la pronuncia del Tribunale con la quale era stata accolta la domanda proposta dalla Unicredit Leasing Spa (già Locat Spa) per ottenere la risoluzione del contratto di leasing stipulato nel 2008, avente per oggetto l’acquisto e la ristrutturazione di un immobile e la condanna della società odierna ricorrente al rilascio del bene.

1.1. Per ciò che interessa in questa sede, il contratto prevedeva l’acquisto da parte della Locat Spa e la concessione in godimento alla Immobinvest srl di un capannone industriale con fabbricati accessori ed una palazzina adibita ad uffici sui quali dovevano essere effettuati lavori di ristrutturazione: in relazione a ciò veniva contrattualmente previsto un complessivo finanziamento di Euro 1950.000,00, di cui 850.000,00 per l’acquisto del bene ed Euro 1.050.000,00 per il finanziamento della ristrutturazione.

1.2. L’esecuzione del contratto aveva avuto inizio con il pagamento dell’anticipo e di parte dei canoni pattuiti, fino a quando non era emerso che, a causa di irregolarità urbanistiche (accompagnate da un verbale elevato per violazione delle norme edilizie), i lavori di ristrutturazione non potevano essere eseguiti, ragione per cui la società utilizzatrice aveva cessato di pagare i canoni.

2. La parte intimata ha resistito con controricorso.

3. La controversia, già fissata per l’adunanza camerale del 9 marzo 2020, in ragione della sopravvenienza del D.L. 8 marzo 2020, n. 11 è stata rinviata a nuovo ruolo, con successiva fissazione dell’odierna adunanza camerale, per la quale il ricorrente ha tempestivamente depositato memoria in via telematica, in ottemperanza al Protocollo di Intesa per la trattazione delle adunanze ex art. 375 c.p.c. del 9.4.2020.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in relazione all’art. 132 c.p.c. e all’art. 156 c.p.c., comma 2, la nullità della sentenza per contraddittoria ed insufficiente motivazione.

1.1. Deduce, “in via cautelativa”, che la Corte territoriale erroneamente non aveva dichiarato inammissibile l’appello ma lo aveva rigettato nel merito ed assume che, in tal modo, aveva reso una motivazione apparente ed in quanto tale nulla.

1.2. Lamenta che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte – e cioè che l’appellante non aveva espressamente confutato la statuizione con la quale il primo giudice aveva ritenuto l’infondatezza della domanda, “non ravvisando in base all’esame del contratto e nei fatti accertati nel procedimento, alcun vizio genetico tale da inficiare la validità dell’accordo” – la società aveva chiesto testualmente sia che la sentenza fosse modificata previo accertamento dell’infondatezza della pretesa di pagamento degli interessi del preammortamento sia che fosse rigettata la domanda di risoluzione del contratto di leasing.

1.3. Assume, pertanto, che la contestazione dell’inadempimento era stata specificamente formulata, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici d’appello che avevano rilevato che l’inadempimento addebitatogli non era stato contestato.

1.4. Deduce, inoltre, che la decisione del Tribunale era stata altresì impugnata nella parte in cui non era stata accolta la richiesta di sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione: in base a ciò lamenta che la motivazione doveva ritenersi contraddittoria nella parte in cui affermava che non erano state contestate circostanze e motivazioni che, invece, erano state oggetto di specifica censura.

2. Il motivo è inammissibile.

2.1. In via preliminare va osservato che la sentenza impugnata si presta ad una duplice lettura.

Essa, pur avendo rigettato l’appello procedendo al suo esame nel merito, ha preliminarmente evocato in modo espresso l’art. 342 c.p.c..

2.2. Tanto premesso, si osserva quanto segue:

a. se il richiamo di tale disposizione si intende equivalente ad una dichiarazione di inammissibilità dell’appello per mancata specificità dei motivi (il che sarebbe giustificato dall’espresso richiamo all’art. 342 c.p.c. a pagina 3 ed a pagina 6 della sentenza impugnata), la censura, nell’indicazione della norma violata, risulterebbe erronea (in quanto doveva evocare, per l’appunto, la violazione dell’art. 342 c.p.c.), ed ipotizzandone una lettura “sostanziale” (cfr. Cass. SUU 17931/2013) – intesa cioè a riferirsi a tale disposizione – si impone il rilievo secondo cui nell’illustrazione del motivo è stata omessa qualsiasi indicazione specifica della motivazione della sentenza del Tribunale sui punti che la corte territoriale ha dichiarato non criticati.

Infatti, la dichiarazione di condivisione della motivazione del primo giudice da parte della Corte territoriale, imponeva al ricorrente di fornire l’indicazione specifica della motivazione della sentenza di primo grado e, nel contempo, delle parti dell’atto appello, ad essa correlate e svolgenti funzione critica.

La ricorrente, invece, si è limitata a riprodurre brevi passi dell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado per dimostrare la doglianza a suo tempo svolta: tali passi, denominati “contestazione” non sono in alcun modo idonei a prospettare efficacemente la censura, necessariamente specifica, che l’appellante ha inteso prospettare, al di là della mancata, e pur necessaria, riproduzione della motivazione di primo grado criticata.

Viene, pertanto, in rilievo il principio di diritto, secondo cui: “In tema di ricorso per cassazione, ove la sentenza di appello sia motivata “per relationem” alla pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366 c.p.c., comma 6 occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonchè le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali.” (Cass., Sez. Un., n. 7074/2017).

E, va al proposito rilevato che una volta ritenuta inammissibile la censura contro la motivazione di inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 342 c.p.c., la motivazione che nel merito i giudici di secondo grado hanno enunciato, non sarebbe scrutinabile.

Infatti, questa Corte ha affermato il principio, ormai consolidato, secondo il quale “qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), con cui si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere nè l’interesse ad impugnare; conseguentemente è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata” (cfr. Cass., Sez. Un., 3840/2007; Cass. 9647/2011; Cass. 15122/2013; Cass. 17004/2015; Cass. 30393/2017).

b. Se invece, sulla base di una alternativa di lettura della sentenza impugnata, si ritenesse che, al di là del duplice richiamo all’art. 342 c.p.c., la sentenza abbia prima dichiarato l’appello inammissibile in relazione a tale norma e poi proceduto al suo esame nel merito, tale valutazione si tradurrebbe nella convinzione che la Corte, in realtà, abbia proceduto a tale esame: in tal caso, il motivo sarebbe comunque inammissibile.

Invero, la sentenza ha indicato i punti della motivazione della pronuncia di primo grado che poi ha dichiarato di condividere, ma i passi dell’atto d’appello che si riproducono non appaiono in alcun modo raccordati alla motivazione del provvedimento in quella sede impugnato, ed anzi appaiono intrinsecamente generici: ragione per cui il motivo deve dichiararsi inammissibile anche su tale ipotesi interpretativa.

c. ma, sempre collocandoci nella seconda alternativa di lettura della sentenza, anche a voler ritenere che il motivo possa considerarsi ammissibile, emergerebbe che la censura di violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 sarebbe priva di fondamento in quanto la Corte territoriale, dopo avere ripercorso la motivazione del primo giudice, ha affermato che non era stata criticata specificamente con l’atto d’appello: sicchè da una parte la motivazione non può ritenersi apparente tanto che la stessa intestazione della rubrica del ricorso denuncia solo “una motivazione contraddittoria ed insufficiente” evocando, con ciò inammissibilmente, il paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ormai modificato.

2.3. Il Collegio ritiene di dover aderire alla seconda ipotesi interpretativa: in particolare, la Corte ha confermato la decisione di primo grado, nella parte – invero centrale e decisiva del percorso motivazionale – concernente la mancata contestazione dell’inadempimento dedotto dall’Unicredit ed assumendo che ciò rendeva legittima la facoltà di risoluzione del contratto da parte della società concedente.

2.4. In tale modo i giudici d’appello, lungi dal rendere una motivazione apparente, hanno espressamente condiviso sia la ricostruzione del complesso sinallagma contrattuale contenuto nel contratto dedotto, sia le conseguenze che ne erano state tratte in primo grado: da ciò deriva che, oltre alla impropria denuncia di omessa ed insufficiente motivazione riconducibile ad una formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come già detto, non più esistente, la censura prospettata ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. risulta inammissibile sia per difetto di interesse ad impugnare, sia per mancanza di autosufficienza, sia in relazione al percorso argomentativo seguito nella sentenza impugnata che non è stato efficacemente attaccato.

3. Con il secondo ed il terzo motivo, il ricorrente deduce, altresì, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3:

a. la violazione degli artt. 1362 e 1464 c.c.: assume che poichè le opere di ristrutturazione da finanziare non potevano essere legalmente realizzate, doveva ricorrersi all’applicazione dell’art. 1464 c.c. che consentiva di riconoscere il suo diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione dovuta, esclusa dalla Corte sulla base di una interpretazione contraria al testo contrattuale sulla scorta della affermazione secondo la quale, trattandosi di obbligazione pecuniaria, la prestazione dovuta non poteva considerarsi “impossibile” (secondo motivo);

b. la violazione degli art. 1362 c.c. e ss. e dell’art. 1419 c.c.: assume, al riguardo, che non era stato valutato, nonostante le esplicite deduzioni, la concreta esecuzione del contratto di leasing e la doppia finalità del contratto di finanziamento del quale era stata invocata, fin dall’inizio del giudizio, la parziale nullità per la parte che avrebbe dovuto sovvenzionare le opere rivelatesi abusive; e richiama la L. n. 47 del 1985, art. 17 che prevedeva che gli atti di trasferimento di beni non conformi alle previsioni urbanistiche dovessero essere ritenuti nulli (terzo motivo).

3.1. Le censure – che devono essere esaminate congiuntamente per la loro intrinseca connessione e parziale sovrapponibilità – sono inammissibili sotto due profili.

3.2. In primo luogo, con riferimento alla violazione degli artt. 1362 c.c. e ss., si osserva che entrambe si riferiscono ad un testo contrattuale che non viene trascritto nel corpo del ricorso e del quale non viene indicata la sede processuale in cui può essere rinvenuto, con conseguente violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

3.3. In secondo luogo, le censure omettono di specificare quali canoni esegetici, solo genericamente indicati, sarebbero stati violati.

Ne consegue la violazione del principio di specificità del motivo.

3.4. Al riguardo vale solo la pena di rilevare che questa Corte ha affermato il consolidato principio di diritto secondo cui “il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e, segnatamente, di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorchè la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (art. 156 c.p.c., comma 2). Tali principi, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per cassazione e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di cassazione, nel quale la trattazione si esaurisce nella udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 c.p.c., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), comportano che il motivo di ricorso per cassazione, ancorchè la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), debba necessariamente essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo” (cfr. Cass. Sez. Un. 7074 del 2017 ed, in termini Cass. n. 4741/2005). 3.5. Ed è stato altresì condivisibilmente affermato che “in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss.. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali.” (cfr. ex multis Cass. 27136/2017; Cass. 873/2019).

3.6. Infine, per gli stessi motivi, anche il terzo rilievo prospettato, concernente la violazione dell’art. 1419 c.c., è inammissibile.

Manca, infatti, una allegazione idonea a prospettare le ragioni per le quali sarebbe stata configurabile la nullità parziale invocata.

4. In conclusione, il ricorso è inammissibile.

5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

P.Q.M.

La Corte,

dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in 10.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfettario spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale della sezione terza civile, il 22 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 agosto 2020

 

 

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