Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1756 del 27/01/2021

Cassazione civile sez. lav., 27/01/2021, (ud. 23/07/2020, dep. 27/01/2021), n.1756

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5427/2017 proposto da:

D.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL SUDARIO 18,

presso lo studio PELAGGI, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI

PELAGGI;

– ricorrente –

contro

CANON ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANASTASIO II n. 416,

presso lo studio 1376 dell’avvocato STEFANO RADICIONI, rappresentata

e difesa dall’avvocato TOMMASO CIVITELLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4280/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 17/10/2016 R.G.N. 1264/2015.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Il Tribunale di Roma respingeva le domande proposte da D.E., agente della Canon Italia s.p.a., tra le quali, per quel che ancora qui rileva, quella intesa ad ottenere il compenso aggiuntivo pari all’1,5% del fatturato di vendita;

2. la pronuncia del primo giudice era confermata in sede di gravame con due sentenze non definitive ed una definitiva ed avverso le stesse veniva proposto ricorso per Cassazione; quest’ultima, con sentenza n. 2125/2015, accoglieva tre dei motivi di impugnazione statuendo l’erroneità della decisione della Corte d’appello che aveva accolto l’eccezione di prescrizione sollevata dalla società in relazione alla domanda concernente il compenso provvigionale ed il compenso aggiuntivo richiesti; osservava che la decisione era in contraddizione con precedente pronuncia che aveva dichiarato inammissibile l’eccezione di prescrizione per non essere stata la stessa tempestivamente riprodotta in appello e che il rapporto di lavoro non era dotato della cosiddetta stabilità reale, sicchè il termine prescrizionale non poteva decorrere in costanza di rapporto; doveva pertanto essere riesaminata dal giudice del rinvio la domanda concernente il diritto ritenuto erroneamente prescritto;

3. la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 17.10.2016, rigettava le domande indicate nelle conclusioni del ricorso in riassunzione, rilevando che il doc. 5, posto a fondamento della pretesa di compenso aggiuntivo sul fatturato di vendita di prodotti al cliente SIP risultava non firmato e privo di data, conteneva conteggi da cui non emergevano in modo intellegibile l’incarico dedotto ed, in particolare, l’impegno a corrispondere provvigioni aggiuntive per l’attività ulteriore asseritamente pattuita;

4. non solo le prove orali espletate, secondo la Corte, non avevano confermato l’esistenza a monte di un tale impegno, ma la società aveva documentalmente dimostrato che il N., il quale avrebbe autorizzato tali ulteriori attività, non era presidente, nè aveva la rappresentanza legale della società, essendone direttore commerciale e membro del c.d.a. senza alcun potere di impegnare la Canon in materia di compensi ai dipendenti, potendo solo il presidente ed il direttore amministrativo assumere determinazioni per la società vincolanti nei confronti dei dipendenti;

5. non poteva ritenersi che il preteso accordo fosse stato confermato dal Presidente, essendo risultate le dichiarazioni rese dal teste M. affatto generiche al riguardo e non essendo configurabile l’apparenza giuridica in ordine ai poteri del N., anche perchè il D. era, per il livello di sua appartenenza, al corrente dei poteri degli altri dirigenti della società;

6. con riferimento all’altra domanda, avanzata in subordine per il riconoscimento di competenze discendenti dall’aggravio di lavoro conseguente allo svolgimento delle mansioni aggiuntive, ne veniva rilevata l’infondatezza per difetto della relativa prova e, quanto all’accordo relativo alla quota aggiuntiva sull’incentivo, per dedotto superamento del 100% dell’obiettivo indicato, veniva evidenziato come lo stesso non prevedesse alcunchè in caso di superamento del 100% dell’obiettivo, stabilendo unicamente che, in caso di raggiungimento pieno dell’obiettivo, il dirigente avesse diritto alla somma ivi indicata;

7. di tale decisione domanda la cassazione il D., affidando l’impugnazione a due motivi di ricorso, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., cui resiste, con controricorso, la società Canon Italia.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo, il D. denunzia violazione degli artt. 1362,1366 e 1370 c.c., nonchè erronea e/o insufficiente interpretazione delle norme contrattuali relative al diritto al pagamento di una quota ulteriore dell’incentivo per obiettivi sul secondo semestre dell’anno 2000 e difetto di motivazione, sostenendo il ricorrente che, a fronte del raggiungimento di un fatturato pari a Lire 6.935.948.200, con conseguimento anche di tutti gli obiettivi qualitativi, in luogo dei 15 milioni di Lire riconosciutigli, egli avrebbe avuto diritto ad almeno 48.661.500 Lire; adduce che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte distrettuale, il piano per la determinazione della retribuzione variabile individuava espressamente un criterio di proporzionalità tra l’obiettivo e l’incentivo, laddove stabiliva che “il calcolo delle relative commissioni sarà effettuato in base al raggiungimento percentuale dell’obiettivo (funzione lineare)” (doc. 17);

1.1 sostiene che la Corte abbia del tutto ignorato sia le risultanze istruttorie dei precedenti gradi di merito, sia il criterio di proporzionalità pattuito e l’assenza nel detto Accordo di una espressa previsione di un tetto massimo per l’incentivo: l’errore del giudice del rinvio veniva individuato nell’avere ritenuto operante solo un unico scaglione di risultato “minimo” da raggiungere per potere conseguire il relativo “incentivo”, laddove era, invece, previsto che il calcolo delle commissioni avvenisse in base al raggiungimento percentuale dell’obiettivo;

1.2. osserva che, oltre al dato testuale, debba aversi riguardo ad una serie di altri criteri, quali quello della buona fede, di cui all’art. 1366 c.c., quello di cui all’art. 1370 c.c., secondo cui le clausole inserite nelle condizioni generali del contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti s’interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro”;

2. con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 35 e 36 Cost., adducendo erronea interpretazione delle norme costituzionali relativamente al diritto al pagamento di una quota ulteriore dell’incentivo per obiettivi sul secondo semestre 2000, sul rilievo che debba prevalere una prospettiva di equilibrio dell’aspetto contenutistico del rapporto di lavoro tesa ad evitare che prevalga la condizione del contraente più forte e ad affermare l’immediata portata precettiva dell’art. 36 Cost., da ritenere non circoscritta soltanto alla salvaguardia di trattamenti retributivi “minimi”, ma applicabile in ogni fattispecie anche ove si tratti di corrispettivi collegati al raggiungimento di obiettivi stabiliti dal datore di lavoro;

2.1. sostiene che occorra avere riguardo ad un principio di proporzionalità tra risultato economico ottenuto dall’azienda e conseguente maturazione, da parte del dipendente, di incentivi economici, peraltro calcolati in percentuale, in quanto, diversamente opinando, si realizzerebbe un indebito arricchimento dell’azienda;

3. va richiamato, relativamente al primo motivo, il principio, affermato da questa Corte, secondo cui le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 c.c., prevalgono su quelli integrativi degli artt. 1365-1371 c.c., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d’essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato ovvero escluda da sola che le parti abbiano posto in essere un determinato rapporto giuridico;

3.1. ne consegue che l’adozione dei predetti criteri integrativi non può portare alla dilatazione del contenuto negoziale mediante l’individuazione di diritti ed obblighi diversi da quelli contemplati nel contratto o mediante l’eterointegrazione dell’assetto negoziale previsto dai contraenti, neppure se tale adeguamento si presenti, in astratto, idoneo a ben contemperare i loro interessi (Cfr. 24.1.2012 n. 925, Cass. 21.8.2013n. 19357);

3.2. anche ove si intenda correttamente formulata la censura con specifica indicazione delle ragioni che sottendono la dedotta violazione di ciascuna delle norme richiamate – in conformità alla previsione di un onere di specificare i canoni che in concreto si assumano violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, (cfr. Cass. 27.6.2018 n. 16987, Cass. 28.11.2017 n. 28319, Cass. 15.11.2013 n. 25728) -, è da escludersi l’asserita violazione dei criteri ermeneutici indicati in rubrica, essendo stato correttamente evidenziato come sia contrario al testo della pattuizione ed alla lettera del suo contenuto il riconoscimento, da parte della società, di una quota proporzionale dell’incentivo anche oltre il limiti dell’obiettivo indicato ed al di là della sua misura integrale, come preteso dal ricorrente;

4. con riguardo al secondo motivo, è pacifico orientamento giurisprudenziale di questa Corte quello secondo cui in tema di adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost., il giudice del merito, anche nell’ipotesi in cui assuma come criterio orientativo un contratto collettivo non vincolante per le parti, non può fare riferimento a tutti gli elementi e gli istituti retributivi che concorrono a formare il complessivo trattamento economico, ma “deve prendere in considerazione solo quelli che costituiscono il cosiddetto minimo costituzionale, dal quale sono escluse le voci tipicamente contrattuali quali i compensi aggiuntivi, gli scatti di anzianità o la quattordicesima mensilità” (cfr. Cass. 13.5.2002 n. 6878, Cass. 17.1.2004 n. 668);

4.1. la pretesa non è stata, poi, mai azionata ai sensi dell’art. 2041 c.c. e pertanto neanche trova spazio il richiamo ad un indebito arricchimento di cui beneficerebbe l’azienda, dovendo osservarsi che l’azione generale di arricchimento ha natura complementare e sussidiaria, potendo essere esercitata solo quando manchi un titolo specifico sul quale possa essere fondato un diritto di credito; la stessa, invero, si differenzia da ogni altra azione sia per presupposti che per limiti oggettivi ed integra un’azione autonoma per diversità di causa petendi rispetto alle azioni fondate su titolo negoziale, ciò che conduce ad escludere che essa possa ritenersi proposta, per implicito, in una domanda fondata su altro titolo;

5. alla stregua delle esposte considerazioni, il ricorso deve essere complessivamente respinto;

6. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo;

7. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 3500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R., ove dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 23 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2021

 

 

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