Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17558 del 21/08/2020

Cassazione civile sez. III, 21/08/2020, (ud. 25/02/2020, dep. 21/08/2020), n.17558

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28522-2018 proposto da:

COMUNE DI ZELO BUON PERSICO, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA SAN BERNARDO 101, presso

lo studio dell’avvocato GENNARO TERRACCIANO, rappresentato e difeso

dall’avvocato GIUSEPPE GIANNI’;

– ricorrente –

contro

PUNTO D’INCONTRO SERVIZI SOCIETA’ COOPERATIVA SOCIALE ARL ONLUS, in

persona del presidente pro tempore, domiciliato ex lege in ROMA,

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dagli avvocati ROBERTO CORDINI, IRENE ANNA D’ONGHIA;

– controricorrente –

e contro

C.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1062/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25/02/2020 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Comune di Zelo Buon Persico ricorre per la cassazione della sentenza n. 1062/2018 della Corte d’Appello di Milano, pubblicata il 27 febbraio 2018, articolando due motivi, corredati di memoria.

Resistono con autonomi controricorsi C.A. e la Cooperativa Punto d’Incontro, illustrata da memoria.

Il ricorrente espone in fatto di essere stato convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, dalla Cooperativa Punto d’Incontro per essere condannato al pagamento di Euro 85.804,30, al netto degli interessi legali e della rivalutazione, in solido con A., E. e C.P. nonchè con P.E. e/o in via alternativa e/o concorsuale, per le prestazioni rese a favore di C.A. dal gennaio 2006.

Il Tribunale di Milano, con decisione n. 7559/2016, accoglieva parzialmente la domanda attorea, condanna il Comune al pagamento di Euro 42.294,22, avendo l’attrice ottenuto a parziale copertura della retta buona parte dello stipendio percepito dall’assistita, dichiarava cessata la materia del contendere nei confronti di C.E., C.P. ed P.E., escludeva che C.A. fosse tenuta ad ulteriori prestazioni nei confronti dell’attrice, trasmetteva gli atti al PM per l’eventuale adozione di provvedimenti ex art. 404 C.C. e ss. e ex art. 712 c.p.c. e ss..

Il Comune impugnava la decisione dinanzi alla Corte d’Appello di Milano, chiedendo la sospensione della provvisoria esecutività della sentenza di prime cure, lamentando la violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere il Tribunale riqualificato la domanda di adempimento come domanda di arricchimento senza causa, per avere individuato a suo carico un obbligo di provvedere ad integrare la retta dovuta per l’assistenza di C.A. a fronte di una supposta impossibilità dei parenti a farsene carico, per avere disposto la trasmissione degli atti al PM per l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 404 c.c. e ss. e art. 715 c.p.c. e ss..

La Cooperativa chiedeva il rigetto dell’appello e in via incidentale subordinata che C.A. fosse condannata a pagare la sommai Euro 46.294,22, con interessi e rivalutazione.

La sentenza oggetto dell’odierna impugnazione, pur disconoscendo la ricorrenza di un obbligo ex lege in capo all’appellante, ravvisava la ricorrenza a suo carico di un obbligo di natura convenzionale, in ragione di quanto previsto dall’art. 8 della convenzione del 2005, che prevedeva che allo scadere della convenzione, dicembre 2015, in assenza di nota scritta da parte del Comune volta a manifestare la volontà di non procedere al rinnovo della convenzione, il Comune avrebbe dovuto sostenere i costi del soggetto inserito fino alla reale dimissione, confermava, pertanto la condanna dell’odierno ricorrente al pagamento di Euro 44.622,20, al netto degli interessi legali sulle annualità via via maturate dalla scadenza al saldo, ed al pagamento delle spese processuali.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo il ricorrente deduce la “erroneità in diritto della sentenza per violazione e/o falsa applicazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. e del principio di delimitazione della domanda con riferimento all’edictio actionis così come individuato dall’attore in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; erroneità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1364,1366,1367 e 1369 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per avere il giudice di merito errato nell’interpretazione dell’art. 8 della convenzione del 2005.

2.La tesi è che il giudice di merito dovesse solo verificare l’esistenza o meno di un vincolo di assistenza ex lege nei confronti di C.A. e che la sentenza, pur avendo accertato l’insussistenza di tale obbligo, smontando il fondamento dell’azione di indebito arricchimento, avrebbe violato l’art. 112 c.p.c. e stravolto la comune intenzione delle parti nell’interpretazione dell’art. 8 della convenzione con la cooperativa Punto di incontro, imponendo a suo carico un obbligo di pagamento della retta condizionato alle mancate dimissioni della assistita da parte della Cooperativa, cioè subordinandolo ad un atto unilaterale di quest’ultima. Tale conclusione avrebbe violato il tenore letterale della clausola che, essendo chiaro, non era abbisognevole di alcuna interpretazione, e il principio di buona fede di cui all’art. 1366 c.c. che ove correttamente impiegato avrebbe dovuto indurre il giudice a quo a ritenere che l’obbligo di pagare la retta dovesse riguardare un periodo breve e ragionevole, dopo la scadenza del termine finale della convenzione, atto a consentire le dimissioni dell’assistita e la sua collocazione in altra struttura.

3. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza gravata per violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1421 e 1375 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per non avere il giudice di appello sollevato d’ufficio l’eccezione di nullità dell’art. 8 della convenzione.

Secondo il Comune, l’art. 8 era tale da trasformare l’impianto contrattuale in una obbligazione unilaterale del Comune di provvedere alla dimissione della paziente, sostenendo i costi della permanenza di quest’ultima fino a detto evento, nonostante l’assenza di obblighi di legge a carico dell’ente pubblico. La clausola avrebbe dovuto essere dichiarata nulla per violazione dell’art. 1375 c.c. che impone la buona fede delle parti nell’esecuzione del contratto e della norma imperativa in materia di indebito oggettivo.

4.Occorre in primo luogo esaminare l’eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività sollevato dalla cooperativa resistente, atteso che la notificazione di esso, tramite servizio postale con raccomandata presso il domicilio eletto, sarebbe avvenuto in data 4 ottobre 2018, cioè oltre il termine di sei mesi decorrenti dalla pubblicazione della sentenza, avvenuta il 27 febbraio 2018, ed il deposito del ricorso sarebbe avvenuto il 3 ottobre 2018, ben oltre il termine del 27 settembre 2018.

L’eccezione merita accoglimento.

Come emerge dalla relata di notifica in atti, il ricorso era stato notificato con lettera raccomandata A/R n. (OMISSIS) presso lo studio degli Avvocati Cordini e D’Onghia, (OMISSIS). La notificazione non era andata a buon fine, giacchè i destinatari risultavano trasferiti.

Con successiva raccomandata n. 329 del 3 ottobre 2018, pervenuta nella sfera dei destinatari il 4 ottobre 2018, il ricorso veniva notificato presso lo studio degli Avvocati Cordini e D’Onghia, in (OMISSIS), ove avevano trasferito lo studio nell’aprile 2018. La comunicazione all’Ordine era stata fatta il 10 e l’11 aprile 2018, come risulta dalla documentazione allegata al controricorso.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la notificazione presso il domicilio dichiarato che abbia avuto esito negativo a causa dell’avvenuto trasferimento dello studio del procuratore non può spiegare effetti, dovendo la notifica essere eseguita presso il procuratore all’indirizzo risultante dall’albo “costituisce onere del notificante, quale adempimento preliminare agli incombenti relativi al procedimento notificatorio, accertarsi della assenza di mutamenti riguardanti il domicilio del procuratore costituito nel giudizio al fine di identificare correttamente il luogo della notificazione, con la conseguenza che ricade sullo stesso il rischio dell’eventuale esito negativo della notificazione (ed, eventualmente, della successiva intempestività della notificazione medesima), fatti salvi il caso fortuito o la forza maggiore ed escluse le ipotesi in cui il richiedente non sia incorso in negligenza ed il mancato perfezionamento sia dipeso esclusivamente da causa allo stesso non imputabile” (Cass. 19/06/2013; n. 21437; Cass. 1/06/2010, n. 14494; Cass., Sez. Un., 18/02/2009, n. 3818).

Del resto, come evidenziato dalla questa Corte con la sentenza n. 21437/13, “le stesse Sezioni unite (cfr. sentenza n. 7607 del 2010) hanno precisato che, a seguito della sentenza n. 477 del 2002 della Corte costituzionale – secondo cui la notifica di un atto processuale si intende perfezionata, per il notificante, al momento della consegna del medesimo all’ufficiale giudiziario – la tempestività della proposizione del ricorso per cassazione esige che la consegna della copia del ricorso per la spedizione a mezzo posta venga effettuata nel termine perentorio di legge e che l’eventuale tardività della notifica possa essere addebitata esclusivamente a errori o all’inerzia dell’ufficiale giudiziario o dei suoi ausiliari, e non a responsabilità del notificante; pertanto, la data di consegna all’ufficiale giudiziario non può assumere rilievo ove l’atto in questione sia “ab origine” viziato da errore nell’indicazione dell’esatto indirizzo del destinatario, poichè tale indicazione costituisce una formalità che non sfugge alla disponibilità del notificante. Ed è proprio alla stregua di tali principi che è stato ulteriormente precisato che (v. ordinanza n. 2320 del 2011) la data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario non può assumere alcun rilievo (quindi anche in funzione della valutazione della tempestività dell’adempimento), non potendosi ritenere neppure giustificata la ripresa del procedimento notificatorio, qualora sia imputabile al richiedente la mancata notifica del ricorso presso un procuratore cancellato dall’albo degli avvocati, stante l’agevole consultazione di tale albo – il quale rappresenta la fonte legale di conoscenza del domicilio degli iscritti e nel quale il procuratore ha l’obbligo di fare annotare i mutamenti della sua sede” (Cass. 20323/14, Cass. 21637/2013) – attuabile anche per via informatica e telematica, con la conseguenza che va dichiarato inammissibile il ricorso notificato oltre il termine di cui all’art. 325, o all’art. 327 c.p.c., nel caso in cui il ricorrente non abbia documentato che l’esito negativo della prima notifica, anteriormente richiesta, era ascrivibile alla impossibilità di accertare la detta cancellazione presso l’albo”.

Va quindi ritenuto che nel caso in esame il primo tentativo di notifica ha avuto esito negativo per ragioni che sono imputabili al solo notificante, il quale ha omesso di accertare, tramite apposite ricerche, la effettiva ubicazione dello studio dei procuratori risultanti dall’albo professionale.

Dimostrandosi, dunque, inesistente, e non nulla, la notifica eseguita dall’appellante in data 26 settembre 2018, stante la assenza di una qualsiasi relazione tra il luogo della notificazione ed il destinatario della stessa, va dichiarata la inammissibilità del ricorso, in quanto la tardività comporta il passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado, e la inammissibilità non può ritenersi sanata dalla intervenuta costituzione del controricorrente nel presente giudizio.

5. Quand’anche non fosse stato inammissibile, il ricorso non sarebbe stato accolto per le seguenti ragioni:

– il primo motivo, per un verso, non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata – infatti il ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., sebbene la Corte d’Appello abbia dato alla domanda risarcitoria una qualificazione diversa da quella del giudice di prime cure che proprio perchè aveva accolto la domanda ex art. 2041 c.c. era stato accusato dal ricorrente di ultrapetizione – per altro, tenta di correggere la propria argomentazione difensiva, introducendo la denuncia di erronea interpretazione dell’art. 8 della convezione stipulata dalla cooperativa Punto d’Incontro, allegata (contrariamente a quanto eccepito dalla cooperativa Punto di Incontro (p. 8)) al ricorso e contrassegnata con il numero 5 (cfr. p. 29 del ricorso); omette, tuttavia, di confrontarsi con la giurisprudenza costante di questa Corte, secondo cui “in tema di interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica nella parte in cui si sostanzia nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. “(Cass. del 05/12/2017, n. 29111); sicchè la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 28/11/2017, n. 28319).

Ebbene, nel caso in esame il ricorrente, pur insistendo nel sostenere l’interpretazione disattesa, e cioè che la clausola della convenzione fosse chiara e coerente con la volontà dei contraenti di vincolarsi reciprocamente per un anno, salva facoltà di rinnovo e con facoltà reciproca di recedere dalle rispettive obbligazioni tramite espressa dichiarazione di volontà (p. 23) invoca l’interpretazione secondo buona fede, ribadendo, ciononostante, che, essendo il tenore letterale della clausola sufficiente ad evidenziare la volontà delle parti, il ricorso alle regole di cui agli artt. 1366-1371 c.c. non fosse necessario per dare una interpretazione corretta alla locuzione convenzionale, aggiungendovi equivoci e comunque non sviluppati riferimenti alla causa concreta del contratto (p.24) ed alla mala fede della controparte (p.25). Tale contraddittorio e complesso apparato argomentativo, che pure è stato completato con l’indicazione di taluni canoni ermeneutici asseritamente violati, non focalizza la propria attenzione sugli argomenti utilizzati dalla Corte d’Appello per addivenire alla propria conclusione, allo scopo di dimostrarne l’erroneità, sulla scorta dei canoni invocati: allude ad esempio al difetto di interpretazione sistematica, ma omette ogni riferimento ad altre clausole della convenzione che, ove prese in esame, avrebbero consentito una diversa ricostruzione della volontà delle parti; altrettanto generico e decontestualizzato è il riferimento agli artt. 1364, 1367, 1369 (pp. 23, 25).

– il secondo motivo invoca la nullità dell’art. 8 della convenzione per contrarietà a norme imperative e, in specie per violazione “dell’art. 1375 c.c., che impone la buona fede delle parti nell’esecuzione del contratto e della norma imperativa in materia di indebito oggettivo, particolarmente rilevante in ragione della natura soggettiva del contraente Pubblica amministrazione; tali clausole generali impongono la buona fede delle parti nell’esecuzione del contratto e vietano l’indebita locupletazione di chiunque a danno dell’altro”.

Ora, a prescindere dal fatto che la eventuale violazione degli artt. 1375 e 2041 c.c. non darebbe luogo alla nullità del contratto o di una sua singola clausola, come preteso dal ricorrente – il fondamento in iure della richiesta di pronunciarsi sulla nullità è, perciò, del tutto errato – è opinione di questa Corte che d’ufficio potrebbe rilevare la nullità della clausola in esame che non ve ne siano i presupposti.

Proprio la causa concreta della convenzione, invocata erroneamente dal ricorrente, giustifica la validità di una pattuizione che preveda la permanenza della persona assistita presso la struttura ospitante, pur dopo la scadenza del termine finale della convenzione, in attesa della ricerca di una sua diversa sistemazione: ricerca che non poteva certamente competere alla struttura ospitante.

6. Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

7. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il Comune ricorrente al pagamento delle spese in favore delle controricorrenti, liquidandole in Euro 5.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge, a favore della Cooperativa Punto D’incontro e in Euro 4.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione Terza civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 agosto 2020

 

 

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