Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17557 del 27/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 27/07/2010, (ud. 08/07/2010, dep. 27/07/2010), n.17557

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24922/2006 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO Luigi, che la rappresenta e difende,

giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.M.;

– intimata –

sul ricorso 27742/2006 proposto da:

F.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALBERICO II 33,

presso lo studio dell’avvocato GALLEANO SERGIO, che la rappresenta e

difende, giusta mandato a margine del controricorso e ricorso

incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 8804/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 09/01/2006 r.g.n. 7793/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

08/07/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO per delega GALLEANO SERGIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto principale,

accoglimento dell’incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 12.12.2005/9.1.2006 la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza resa dal Tribunale di Roma il 3.10.2002, impugnata da F.M., dichiarava sussistere fra la stessa e le Poste Italiane un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dal 9.6.1999, per effetto della nullità della clausola di durata apposta al contratto stipulato fra le parti con riferimento al periodo 9.6/30.10.1999, ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994 “per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Osservava in sintesi la corte territoriale che, trattandosi di contratto stipulato successivamente al 30.4.1998, si doveva ritenere che gli accordi sindacali intervenuti successivamente all’accordo del 25.9.1997 non fossero meramente ricognitivi del perdurare delle esigenze legittimanti le assunzioni a tempo determinato, ma erano piuttosto volti a stabilire precisi limiti di scadenza all’autorizzazione alla stipulazione di contratti a tempo determinato, con la conseguenza che era inibito alle parti di autorizzare retroattivamente, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica, la stipulazione di contratti a termine non più legittimati per effetto della durata in precedenza stabilita.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le Poste Italiane con un unico motivo.

Resiste con controricorso F.M., la quale ha anche proposto ricorso incidentale e depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con un unico motivo la società ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) dell’art. 425 c.p.c. e dei criteri di ermeneutica contrattuale in relazione agli accordi collettivi intercorsi, nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), deduce che il potere normativamente attribuito alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle già stabilite dall’ordinamento, poteva essere esercitato senza limiti di tempo, non prevedendosi alcun limite temporale al riguardo, con la conseguenza che agli accordi c.d. attuativi del contratto del 25.9.1997 non poteva che riconoscersi una funzione meramente ricognitiva della permanenza delle esigenze sottese alla necessità di stipulare ulteriori contratti a termine.

Con il ricorso incidentale la intimata denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 1218, 1219 e 1227 c.c., rilevando che la società ricorrente, costituendosi in primo grado, nulla aveva dedotto in ordine alla colpa concorrente della lavoratrice, con la conseguenza che la corte territoriale aveva pronunciato su una eccezione mai proposta dal datore di lavoro, e che, comunque, non era ravvisabile alcun comportamento dilatorio della lavoratrice, idoneo a fondare una colpa della stessa nella verificazione del danno.

1.1 ricorsi vanno preliminarmente riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2. Con riferimento al ricorso principale, vanno ribaditi i principi, ormai acquisiti, che questa Suprema Corte ha affermato con riferimento alla disciplina dell’istituto nel sistema vigente anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001.

In primo luogo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, questa Corte ha più volte affermato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato” (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23/8/2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, come questa Corte ha più volte rilevato, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l.

26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit).

Rilevato, quindi, che, in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, hanno reputato che con tali accordi le parti avessero convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998) della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.

Questa Corte ha anche osservato che tale interpretazione non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di una più diffusa argomentazione ai fini della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

Inoltre, è stato rilevato che tale interpretazione si palesa rispettosa del canone ermeneutico dell’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi (in considerazione della loro idoneità ad introdurre termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano previsti ex ante), laddove, diversamente opinando, gli stessi risulterebbero “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866).

Infine, corretta è apparsa, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del lavoratore si era già definitivamente perfezionato.

Ed infatti, anche ad ammettere che le parti fossero mosse dall’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti di sanatoria delle assunzioni effettuate senza la copertura dell’accordo del 25 settembre 1997 (scaduto in forza delle convenzioni attuative), si dovrebbe, comunque, richiamare la regola dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già acquisiti, con la conseguente esclusione per le parti stipulanti del potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (cfr, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141).

Il ricorso principale va, pertanto, rigettato.

3. Meritevole di accoglimento è, invece, il ricorso incidentale.

La censura, se non documenta adeguatamente (attraverso la compiuta trascrizione degli atti rilevanti, in coerenza col canone della necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione) la asserita novità della questione esaminata dalla corte territoriale, è comunque, nel merito fondata.

Giova, al riguardo, premettere come, secondo l’insegnamento risalente di questa Suprema Corte, formatosi in particolare con riferimento alla fattispecie dell’art. 18 St., devono ritenersi suscettibili di risarcimento i danni evitabili dal lavoratore con l’ordinaria diligenza, atteso che l’art. 1227 c.c., comma 2 (che stabilisce che il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza) pone a carico di quest’ultimo il dovere di non aggravare con il fatto proprio e con la propria condotta il pregiudizio subito (v. ad es. già Cass. n. 5766/1994), fermo restando, riguardo all’elemento della colpa, come non possa essere preso in considerazione ogni comportamento che astrattamente possa aggravare il danno, ma solo quello che ecceda l’ordinaria diligenza, essendo costituito il limite dell’esigibilità del comportamento attivo dall'”ordinaria”, e non dalla “straordinaria” diligenza, nel senso che le attività che il creditore è tenuto a porre in essere ai fini dell’evitabilità del danno non devono essere gravose o straordinarie (v. ad es. di recente Cass. n. 9898/2005; Cass. n. 12867/2004; Cass. 9850/2002).

In questo contesto, e con specifico riferimento alla questione se possa costituire fonte di danno risarcibile l’inerzia processuale, e quindi il maggior tempo trascorso tra l’illecito ed il suo accertamento giudiziale, nella giurisprudenza di legittimità è accreditata l’affermazione che l’ordinaria diligenza esige che il lavoratore faccia tempestivamente valere in giudizio il suo diritto (v. ad es. Cass. n. 10072/1995; Cass. n. 5766/1994), ma è, al tempo stesso, puntualizzato che, iniziata l’azione giudiziaria, “l’ordinaria diligenza è tuttavia nella valutazione della legittimità della pretesa giudiziale e nella tempestività con cui questa è fatta valere dal lavoratore; (per cui) questi ha il “diritto” di attendere il giudiziale riconoscimento del proprio diritto” (così Cass. n. 11786/2002), e, più in particolare, che, se non può escludersi la rilevanza di comportamenti di quest’ultimo gravemente dilatori (cfr. Cass. n. 9898/2005; Cass. n. 320/1992), il tempo impiegato per la tutela giurisdizionale non può in ogni caso essergli imputato come scarsa diligenza, stante l’esistenza di norme che ne regolano l’iter, con la previsione di termini perentori, che consentono ad entrambe le parti di interferire nell’attività processuale, e, comunque, per la presenza, per entrambi le parti, di poteri processuali paritetici per la tutela dei diritti e la conseguente riduzione del danno (v. ad es. Cass. n. 9898/2005; Cass. n. 5993/1995; Cass. n. 7872/1991).

Nel caso, la corte territoriale ha sostanzialmente omesso di chiarire le ragioni per le quali, nonostante la rituale messa in mora della società ricorrente e la conseguente imputabilità alla stessa del mancato ripristino della funzionalità del rapporto di lavoro, fosse configurabile una colpevole inerzia e un contegno dilatorio della lavoratrice e, comunque, ha ricollegato la riduzione del risarcimento a presupposti puramente apparenti, quali l’affievolirsi del nesso eziologico fra il danno e la causa che lo ha determinato per “il passare del tempo”, annettendovi rilevanza anche per il periodo successivo all’instaurazione dello stesso giudizio.

E ciò senza nemmeno verificare se fra la cessazione del rapporto di lavoro, l’offerta della prestazione di lavoro e l’instaurazione del giudizio fosse trascorso un tempo tale da far constatare comportamenti gravemente dilatori e fermo restando che il tempo impiegato per la tutela giudiziaria non può essere imputato quale causa di danno.

3. In conclusione, deve essere rigettato il ricorso principale ed accolto quello incidentale; la sentenza va di conseguenza cassata e la causa rinviata per un nuovo esame sull’ammontare del risarcimento spettante alla ricorrente incidentale ad altro giudice di merito, che provvederà anche in ordine al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e accoglie l’incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 8 luglio 2010.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2010

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