Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17555 del 28/06/2019

Cassazione civile sez. II, 28/06/2019, (ud. 15/11/2018, dep. 28/06/2019), n.17555

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23675-2015 proposto da:

D.M.D., quale titolare della Impresa di Costruzioni di

D.M.D., rappresentato e difeso dall’avv. Andrea Pianese in virtù di

procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.G., C.M., C.A. e

C.M.T., in proprio e quali eredi di Ca.An.,

elettivamente domiciliati in ROMA, via Aubry n. 1, presso lo studio

dell’avv. Bruno Moscarelli, unitamente al loro difensore avv.

Antonio Orlando;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

e contro

D.M.M. e LLOYD’S OF LONDON;

– intimati –

avverso la sentenza n. 528/2015 della Corte di appello di Napoli

depositata il 30 gennaio 2015;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 15

novembre 2018 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. Sgroi Carmelo, che ha concluso per il rigetto di

entrambi i ricorsi; udito l’Avv.to Andrea Pianese, per parte

ricorrente.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 4 novembre 2005 C.A., C.G., C.M. e C.M.T., nella qualità di comproprietari per successione di S.d., evocavano, dinanzi al Tribunale di Napoli – Sezione distaccata di Puozzuoli, D.M.M., nella qualità di progettista e direttore dei lavori, e D.M.D., quale appaltatore in quanto titolare della omonima impresa di costruzione, chiedendo la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni subiti in conseguenza del sequestro giudiziario – e successivo ordine di demolizione (mai eseguito) del fabbricato ereditario sito in (OMISSIS), in ordine al quale avevano affidato al geom. D.M.M., nel rispetto degli strumenti urbanistici, la realizzazione delle opere di risanamento statico e di adeguamento dell’immobile per predisporlo all’esercizio della ristorazione, essendosi aggiudicati la relativa autorizzazione del Comune di (OMISSIS).

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza sia di D.M.D., che eccepiva di avere svolto i lavori sotto il costante controllo del progettista e direttore dei lavori, nonchè dei committenti, e alla luce della clausola di cui all’art. 9 del contratto, il quale spiegava riconvenzionale per ottenere il pagamento del saldo dei lavori e per il fermo delle attrezzature in cantiere (svolta domanda di manleva nei confronti del direttore dei lavori), sia del geom. D.M., il quale chiedeva ed otteneva di chiamare in garanzia la propria assicurazione Lloyd’s di Londra Assicurazioni per rischi professionali, il giudice adito rigettava le domande attoree ed accoglieva quella riconvenzionale limitatamente al pagamento del compenso.

In virtù di rituale appello interposto dai C., con il quale lamentavano – fra l’altro – la contraddittorietà del rigetto della domanda di risarcimento dei danni formulata nei confronti del progettista per avere il primo giudice comunque riconosciuto la responsabilità del professionista, anche per quanto atteneva alla ditta appaltatrice, la Corte di appello di Napoli, nella resistenza sia del direttore dei lavori, che formulava appello incidentale condizionato, al pari dei Lloyd’s, sia della ditta appaltatrice, che proponeva ulteriore appello incidentale, accoglieva parzialmente l’appello principale e per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda riconvenzionale di pagamento del residuo corrispettivo dell’appaltatore, assorbiti gli appelli incidentali condizionati, e rigettato quello incidentale dell’appaltatrice, confermate le spese di primo grado quanto al direttore dei lavori e all’assicurazione, compensate in relazione all’appalto, distribuzione delle spese processuali che veniva formulata nello stesso senso anche per l’appello.

A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava che il Comune di (OMISSIS), con nota del 27.08.2004, aveva comunicato alla dante causa degli appellanti di non dare inizio ai lavori di cui alla DIA del 09.08.2004 “fin tanto che non fosse stata depositata la licenza edilizia per la realizzazione dell’immobile, nonchè l’elaborato grafico rispondente allo stato dei luoghi, tale non essendo quello allegato, apparendo tutto ciò indispensabile per istruire la pratica in relazione al cambio di destinazione richiesto”, in ordine alla quale la predetta dante causa, con comunicazione del 10.09.2004, a firma del direttore dei lavori, geom. D.M.M., dichiarava al Comune di avere aggiornato i grafici e la relazione tecnica e che le opere previste in esecuzione degli stessi rispondevano alle caratteristiche ed alla casistica imposta dalla legge, senza alterazione dello stato dei luoghi e dell’aspetto esteriore dell’immobile. Da ciò il giudice distrettuale deduceva la piena corresponsabilità della dante causa degli appellanti con il direttore dei lavori laddove, in spregio delle rettifiche apportate all’originario progetto, erano state realizzate opere senza titolo su un’area dichiarata di interesse pubblico, con la conseguenza che alcun risarcimento dei danni era dovuto dall’appellato.

Di converso, quanto alla posizione di D.M.D., andava riconosciuta la corresponsabilità dell’impresa costruttrice laddove aveva realizzato opere per le quali sarebbe stato necessario un titolo concessorio in ragione dei vincoli paesaggistici vigenti nella zona, non potendolo esonerare da responsabilità la circostanza che ricevesse precisi ordini precisi dal Direttore dei lavori, sotto lo stretto controllo della committenza. Nè poteva essere invocata la forza preclusiva dell’art. 9 del contratto di appalto, che escludeva la responsabilità dell’impresa appaltatrice nella sola ipotesi di danni derivanti da errori di progettazione.

Concludeva che l’illegittimità urbanistica delle opere appaltate ed eseguite inficiava di nullità l’intero contratto di appalto, per cui nessun residuo corrispettivo doveva essere versato dai committenti.

Al pari non poteva trovare accoglimento la domanda riconvenzionale di risarcimento per indisponibilità delle attrezzature conseguente al sequestro, avendo lo stesso appellante incidentale dato causa ai danni lamentati con la sua condotta.

Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Napoli ha proposto ricorso D.M.D., sulla base di tre motivi, cui hanno resistito i C. con controricorso, contenente anche ricorso incidentale affidato a sei motivi.

Non ha svolto difese l’intimato D.M.M., nè la compagnia di assicurazione.

In prossimità della udienza pubblica parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il primo motivo il ricorrente nel denunciare – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., nonchè dell’art. 2 Cost. e artt. 1337 e 1338 c.c., oltre a motivazione contraddittoria ed insufficiente, contesta la correttezza della sentenza di appello sotto un duplice profilo: per non avere esaminato gli elementi attinenti alle patologie contrattuali di carattere genetico e per avere tutelato la responsabilità del committente pure a conoscenza delle cause di invalidità del contratto.

Sotto il primo rilievo lamenta che la corte territoriale abbia pronunciato declaratoria di nullità dell’intero contratto di appalto nonostante l’illegittimità edificatoria – di cui peraltro egli non era a conoscenza – che aveva dato luogo al sequestro riguardasse il solo posizionamento del solaio, innalzato di un metro rispetto a quello preesistente.

Sotto un secondo aspetto deduce la irragionevole tutela apprestata alla parte committente nonostante fosse a conoscenza delle cause di invalidità del contratto.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la falsa applicazione dell’art. 1418 c.c. e ss., oltre ad omessa applicazione degli artt. 1427,1432 e 1439 c.c., nonchè insufficiente motivazione, per avere il giudice distrettuale riformato la sentenza di primo grado riconoscendo la responsabilità dell’appaltatore nonostante lo stesso non fosse a conoscenza che il Comune di (OMISSIS) aveva richiesto al committente di munirsi della licenza edilizia. Inoltre non era stato accertato che i lavori eseguiti dall’impresa si discostassero da quelli elaborati “di cui alla DIA, realizzando opere per le quali sarebbe stato necessario un titolo concessorio”.

Con il terzo mezzo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1346 e 1418 c.c., nonchè della L. n. 47 del 1985, artt. 7,8 e 12, oltre a difetto di motivazione, e nella sostanza lamenta la parificazione della costruzione realizzata in totale assenza di concessione edilizia con quella che presenta difformità eseguite in corso d’opera, dal momento che nel caso in esame il Comune di (OMISSIS) aveva rilasciato un’autorizzazione amministrativa in virtù della DIA del 10.09.2004 prot. n. 015797, come rilevato dalla stessa corte di merito, per lavori di manutenzione straordinaria, restauro conservativo ed adeguamento sismico. Ribadisce il ricorrente che solo in corso d’opera il direttore dei lavori ed il proprietario avevano richiesto all’appaltatore di impostare l’altezza del solaio ad una quota da loro indicata.

I tre motivi di ricorso principale vanno esaminati congiuntamente per la contiguità argomentativa che li connota.

Essi sono infondati.

Secondo la stessa prospettazione del ricorrente, l’appalto avente ad oggetto opere di manutenzione straordinaria, per il restauro e il risanamento statico e di adeguamento sismico del fabbricato sito in (OMISSIS) per destinarlo ad attività di ristorazione, è stato stipulato il 10 dicembre 2004 ed è stato preceduto dall’autorizzazione dei lavori, c.d. D.I.A., rilasciata dal Comune il 9 agosto 2004 (prot. n. 014796) (erroneamente indicata dal D.M. la data 10.09.2004 ed il prot. n. 015797), come da dichiarazione di parte committente ed accertamento fattone dai giudici di merito; alla D.I.A., tuttavia, faceva seguito la comunicazione del Comune del 27 agosto 2004 di non dare inizio ai lavori fin tanto “che non fosse stata depositata la licenza edilizia per la realizzazione dell’immobile nonchè l’elaborato grafico rispondente allo stato dei luoghi (tale non essendo quello allegato)”, ritenendo l’Amministrazione locale trattarsi di atti necessari per l’istruzione della pratica in relazione al cambio di destinazione richiesto, cui la dante causa dei C., S.D.C., faceva seguito dando conto, con comunicazione del 10.09.2004, indirizzata allo stesso Comune, di avere provveduto ad aggiornare i grafici e la relazione tecnica, precisando altresì che le opere previste in esecuzione degli stessi “rispondevano alle caratteristiche ed alla casistica imposta dalla legge senza alterazione dello stato dei luoghi e dell’aspetto esteriore dell’immobile”.

E’ evidente pertanto che i lavori erano stati commissionati in assenza di concessione edilizia, per avere l’Amministrazione espresso parere nel senso che si trattava di lavori per i quali era necessario il rilascio di licenza edilizia.

Ora, non solo parte ricorrente ha omesso di riportare il contenuto degli atti processuali, come avrebbe dovuto in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, che a suo avviso documenterebbero una vicenda di nullità del contratto non genetica, bensì in corso d’opera, ossia riconducibili a comportamenti dell’appaltatore in progress, ma, e ciò è troncante, non ha considerato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 3913 del 2009; n 13969 del 2011), il contratto di appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia è nullo ex artt. 1346 e 1418 c.c., per illiceità dell’oggetto; nullità che non è sanabile retroattivamente in virtù di condono edilizio (che elide le sole sanzioni penali ed amministrative), nè di convalida, per il divieto di cui all’art. 1423 c.c., onde l’appaltatore non può pretendere, in forza del contratto nullo, il corrispettivo pattuito, nè di far valere, comunque, pretese che si fondano su di esso.

La giurisprudenza di questa Corte, infatti, ha ripetutamente affermato che il contratto di appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia (o paesaggistica,o ambientale ecc.) è nullo, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., avendo un oggetto illecito per violazione delle norme imperative in materia urbanistica-ambientale, con la conseguenza che tale nullità, una volta verificatasi, impedisce sin dall’origine al contratto di produrre gli effetti suoi propri.

L’illiceità dell’opera e la conseguente sanzione della nullità operano cioè per il solo fatto che – e solo se – l’appalto sia, di fatto, eseguito in carenza di autorizzazioni urbanistiche, in quanto la relativa attività dedotta in contratto ed eseguita senza i suddetti provvedimenti non solo è vietata, ma è penalmente punita, con la previsione di responsabilità a carico del committente e dell’assuntore dei lavori. Per tale ragione dottrina e giurisprudenza sono solite avvertire che al riguardo non rilevano – nè possono rilevare – gli stati soggettivi delle parti, come la ignoranza del mancato rilascio della concessione edilizia, che non potrebbe ritenersi scusabile per la loro grave colpa, ben potendo i contraenti, con l’ordinaria diligenza, avere conoscenza della reale situazione, incombendo anche sul costruttore l’obbligo giuridico del rispetto della normativa urbanistica, alla stregua del disposto di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 6.

Ed allora diviene irrilevante accertare l’intenzione asserita come comune alle due parti di fare a meno di concessione o autorizzazione; nè può essere consentito alle stesse di aggirare la sanzione di cui al combinato disposto degli art. 1346 e 1418 c.c., ovvero subordinare questa alla loro volontà, manifestata nel contratto, di richiedere i provvedimenti suddetti, in quanto anche in tal caso l’appalto dedotto in contratto non è – come mostra di ritenere il ricorrente – soltanto la costruzione di un’opera dietro corrispettivo e quindi comunque lecito (sol che nel contratto venga prevista la richiesta del provvedimento urbanistico), ma un’opera contrastante con una norma imperativa, senza alcuna possibilità di considerare l’illecito amministrativo e penale conseguente a tale attività come operante in una sfera diversa ed estranea al rapporto contrattuale tra committente ed appaltatore (Cass. n. 7961 del 2016; Cass. n. 13969 del 2011 cit.; Cass. n. 4015 del 2007; Cass. n. 2035 del 1994), dal momento che è proprio la violazione della norma penale ed amministrativa, consistente nella obbiettiva esecuzione (volontaria o meno) di opere edilizie (che la richiedono) senza la prescritta autorizzazione ad essere stata dedotta nel contratto. Il quale, infatti, è considerato dalla giurisprudenza di legittimità egualmente nullo e l’opera illecita ancorchè sopraggiunga alla sua esecuzione un condono edilizio, in quanto la nullità, una volta verificatasi, anche se non ancora dichiarata, impedisce sin dall’origine al negozio di produrre gli effetti suoi propri e ne rende inammissibile anche la convalida ai sensi dell’art. 1423 c.c. (Cass. n. 2884 del 2002). E, per converso, tale sanzione è esclusa allorquando il provvedimento autorizzativo viene rilasciato dopo la data della stipulazione del contratto ma, pur sempre, prima della realizzazione dell’opera (Cass. n. 3913 del 2009 cit.). Ma ove per qualunque ragione (anche dipendente dall’amministrazione) detta condizione non si verifichi, l’impossibilità dell’oggetto per la sussistenza di un impedimento di carattere giuridico che ostacola in modo assoluto il risultato cui la prestazione è diretta, rende nullo il contratto con la conseguenza che l’appaltatore non può pretendere, in forza di esso, il corrispettivo pattuito. In definitiva, anche la pretesa opzione esegetica secondo cui l’assetto contrattuale sarebbe quanto meno riconducibile ad ipotesi di nullità parziale rispetto ai lavori discendenti dall’unico contratto si scontra col dato di fatto della totale abusività delle opere realizzate, dovendo, ad ogni modo, considerarsi che, come questa Corte ha già affermato (Cass. n. 2187 del 2011, pronuncia invocata dallo stesso ricorrente), in ipotesi di contratto di appalto avente ad oggetto la costruzione di immobili mancanti della concessione edilizia, occorre distinguere a seconda che tale difformità sia totale o parziale, ricorrendo la seconda ipotesi solo ove si tratti di modifica concernente parti non essenziali del progetto.

Al riguardo, a parte la novità del relativo tema d’indagine, dato che il ricorrente, che pure imputa alla sentenza l’omesso esame della questione, non enuncia quando l’avrebbe sottoposta in sede di merito, occorre rilevare che la circostanza secondo cui non tutte le opere eseguite dall’appaltatore avevano necessità del rilascio di concessione edilizia, non giova alla tesi del D.M., tenuto conto che tale fatto prescinde del tutto dal tema dell’osservanza degli obblighi di buona fede ricadenti sull’appaltatore, ma attiene, in tesi, all’inadempimento dell’obbligo di consentire l’esecuzione dei lavori appaltati (id est di predisporre un progetto cantierabile) che trova la sua fonte nel contratto d’appalto.

Passando all’esame del ricorso incidentale, con il primo motivo i committenti lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1218,2226 e 1176 c.c. per avere la corte territoriale rigettato la domanda risarcitoria nei confronti del direttore dei lavori ritenendo la corresponsabilità con la committenza, pur rilevando un nesso di causalità tra il danno ed il comportamento del professionista.

Privo di fondamento è pure il primo motivo di ricorso incidentale.

L’esclusione del risarcimento dei danni da parte del direttore dei lavori risulta motivata, nella sentenza impugnata, con riferimento al fatto incontroverso, eccepito da parte del geometra, che la stessa dante causa dei C. aveva comunicato al Comune di (OMISSIS) che le opere previste in esecuzione dei grafici e della relazione tecnica inviati erano rispondenti alle caratteristiche ed alla casistica imposta dalla legge, “senza alterazione dello stato dei luoghi e dell’aspetto esteriore dell’immobile”.

Da tale comportamento del creditore della prestazione, il giudice di appello ha logicamente desunto l’insussistenza di un danno ascrivibile al solo D.M.M., aggiungendo che il preteso creditore avrebbe potuto evitare i danni usando l’ordinaria diligenza. Tale valutazione del comportamento del creditore, in quanto sorretta da idonea motivazione, esula dal sindacato di legittimità. Peraltro l’art. 1227 c.c., comma 2, nel porre la condizione dell’evitabilità del danno, da parte del creditore, con l’uso della normale diligenza, non si limita a richiedere a quest’ultimo la mera inerzia, di fronte all’altrui comportamento dannoso, ma gli impone, secondo i principi di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c., una condotta attiva o positiva, diretta a limitare le conseguenze dannose di detto comportamento (Cass. n. 2422 del 2004; Cass. n. 2063 del 2004; Cass. n. 15231 del 2007; Cass. n. 26639 del 2013).

Con il secondo motivo del ricorso incidentale i committenti lamentano – in ipotesi di mancato accoglimento del primo mezzo l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio con riferimento alle argomentazioni del giudice distrettuale che nell’escludere la responsabilità del direttore dei lavori ha utilizzato argomentazioni che difetterebbero di coerenza.

Anche siffatta censura non può trovare ingresso, in quanto non vi è alcuna contraddittorietà in sentenza nell’avere predicato una ipotesi di nullità negoziale e al contempo escluso da un lato la remunerazione per l’impresa appaltatrice e dall’altro la pretesa risarcitoria legata alle conseguenze indirette di quella nullità, dal momento che vi avrebbe dato causa con la sua condotta la stessa committenza.

Sicchè i riferimenti giurisprudenziali indicati nel ricorso incidentale non posso essere ritenuti pertinenti: pur vero che in essi è affermata la responsabilità del progettista per la difformità urbanistica dell’opera e per il non corretto svolgimento dell’iter relativo all’acquisizione del titolo abilitativo nei confronti del committente, ma alla condizione che di quella nullità di quel contratto non sia compartecipe il committente, come invece occorso nella specie, a seguito di accertamento del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità.

Con il terzo motivo i ricorrenti incidentali lamentano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., comma 2 e art. 1655 c.c. e ss., nonchè dell’art. 116 c.p.c., per avere la corte distrettuale escluso il diritto dei committenti al risarcimento dei danni nonostante la riconosciuta responsabilità della ditta appaltatrice, limitandola soltanto al fine della dichiarazione di nullità del contratto di appalto.

La censura risulta inammissibile in quanto non attinge specificamente la ratio decidendi della sentenza gravata, la quale si fonda sull’affermazione che, dalla comunicazione inviata in data 10.09.2004 dalla dante causa dei ricorrenti incidentali al Comune di (OMISSIS), risultava la piena responsabilità della committente, concorrente con quella del geometra, per avere consapevolmente dato incarico di realizzare, in rettifica all’originario progetto, opere prive di titolo abilitativo, su un’area dichiarata di interesse pubblico con D.M. 15 dicembre 1959, come emergeva dall’ordinanza dell’amministrazione locale n. 1452005, con conseguente impossibilità di ricondurre l’evento dannoso lamentato al solo professionista o all’impresa appaltatrice.

L’argomentazione, fatta propria già del giudice di prime cure e confermata dalla corte territoriale, non risulta essere stata criticata neanche in sede di gravame, quindi il motivo non coglie appieno la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale s’incentra proprio su siffatta considerazione.

Con il quarto mezzo di ricorso incidentale viene lamentato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti – in ipotesi di mancato accoglimento del terzo motivo – con riferimento alle argomentazioni del giudice distrettuale nell’escludere la responsabilità ai fini del risarcimento dei danni dell’appaltatrice che difettano di coerenza.

Anche la quarta censura è priva di pregio per le medesime considerazioni svolte con riferimento al secondo motivo del ricorso incidentale.

Con il quinto motivo i ricorrenti incidentali denunciano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2055 c.c. per avere la corte partenopea rigettato integralmente l’azione risarcitoria svolta nei confronti di entrambi gli originari convenuti senza tenere conto dei principi invocati in tema di responsabilità solidale tra appaltatore, progettista e direttore dei lavori, i cui rispettivi inadempimenti avevano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dai committenti.

La quinta doglianza va giudicata inammissibile, perchè non si confronta con le argomentazioni dei giudici del merito circa la concorrente responsabilità della committenza nel determinare i danni lamentati nel presente giudizio, come ampiamente esposto nei precedenti motivi.

Con il sesto ed ultimo motivo di ricorso incidentale viene lamentata la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 116 c.p.c., oltre ad omesso esame di circostanza decisiva discussa fra le parti, relativamente alla cattiva regolamentazione delle spese di primo grado nei rapporti tra i C. ed i Lloyd’s of London ponendole a carico dei primi.

Il mezzo è infondato.

Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, le spese sostenute dal terzo chiamato in giudizio a titolo, come nella fattispecie, di garanzia impropria, una volta che sia stata rigettata la domanda principale, vanno poste a carico della parte che, rimasta soccombente, abbia provocato e giustificato la chiamata in garanzia (Cass. 17 maggio 2001 n. 6757; conf. Cass. 9 aprile 2001 n. 5262; di recente: Cass. 21 febbraio 2018 n. 4195), con la sola eccezione che l’iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria, attesa la normale responsabilità dell’attore per aver dato luogo, con un’infondata pretesa, al giudizio nel quale legittimamente è rimasto coinvolto il terzo (cfr. Cass. 27 aprile 1991 n. 4634; di recente: Cass. 21 aprile 2017 n. 10070). Ed infatti, sul piano causale, una precisa concatenazione lega la domanda dell’attore alla costituzione del convenuto e questa alla chiamata in causa del terzo, dal momento che, come è naturale, detta chiamata certamente non avrebbe avuto luogo, ad opera del convenuto, in difetto della prima condizione, la quale, da un punto di vista logico processuale, viene così ad assumere un ruolo decisamente preponderante nella produzione del secondo evento (“causa causae est causa causati”); mentre vale ad interrompere questo nesso causale tra la domanda dell’attore e la chiamata del terzo, ponendosi quindi come causa unica del coinvolgimento del terzo, soltanto una chiamata che non abbia, “ictu oculi”, nessuna giustificazione sostanziale e processuale per la sua palese arbitrarietà.

E pertanto, qualora la domanda dell’attore contro il convenuto sia rigettata, col conseguente assorbimento della subordinata domanda di garanzia proposta dal convenuto contro il terzo, le spese sostenute da quest’ultimo vanno poste a carico dell’attore, a meno che la domanda di garanzia non sia palesemente arbitraria o temeraria, ipotesi neanche allegata nella specie.

In conclusione, vanno rigettati entrambi i ricorsi.

In considerazione della reciproca soccombenza, le spese del giudizio di legittimità vanno interamente compensate fra le parti.

Poichè i ricorsi, principale ed incidentale, sono stati proposti successivamente al 30 gennaio 2013 e sono stati rigettati, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte sia del ricorrente sia dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte, rigetta i ricorsi;

dichiara interamente compensate fra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte sia del ricorrente principale sia dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 15 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2019

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