Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17544 del 23/08/2011

Cassazione civile sez. lav., 23/08/2011, (ud. 04/05/2011, dep. 23/08/2011), n.17544

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.A., + ALTRI OMESSI

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BRUXELLES 59, presso lo studio

dell’avvocato FERIOZZI ANTONIO, rappresentati e difesi dall’avvocato

DE GIROLAMO ANTONIO, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

POSTE ITALIANE SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 175, presso lo studio

dell’avvocato URSINO ANNA MARIA, che la rappresenta e difende, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5771/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 07/11/2006, R.G.N.9008/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/05/2011 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato RAFFAELE DE GIROLAMO per delega ANTONIO DE GIROLAMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Ricorre A.M. e gli ricorrenti indicati in epigrafe per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 5771/06, depositata il 7 novembre 2006, prospettando un articolato motivo di ricorso.

1.1. Il Giudice d’appello, con la suddetta sentenza n. 5771/06, rigettava l’impugnazione proposta nei confronti di Poste Italiane spa, in ordine alla sentenza del Tribunale di Cassino n. 18367/2002, ritenendo inammissibile la domanda degli appellanti per sopravvenuta carenza di interesse.

2. Il Tribunale aveva respinto – per sopravvenuta carenza di interesse, in ragione di quanto previsto dall’Accordo collettivo 19 dicembre 2000 – le domande (formulate con i ricorsi monitori) tese ad ottenere la condanna di Poste Italiane spa al pagamento, in proprio favore, delle somme richieste (oltre accessori) a titolo di quote retributive giornaliere relative alle festività dell’8 dicembre 1996, 1 novembre 1998, 15 agosto 1999, 26 dicembre 1999, coincidenti con la domenica.

3. Resiste con controricorso Poste Italiane.

4.1 ricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I ricorrenti, con l’unico motivo di censura, deducono omessa insufficiente motivazione circa un punto controverso e decisivo per il giudizio.

Espongono gli stessi che la Corte d’Appello, pur ritenendo inapplicabile un accodo collettivo, regolamentante diritti quesiti, in mancanza di espressa delega dei sindacati stipulanti, ha ravvisato l’inammissibilità della propria domanda, per essere intervenuta, nella fattispecie in esame, sopravvenuta carenza d’interesse, in quanto l’Accordo del 19 dicembre 2000 – stipulato tra le OO.SS. e Poste Italiane sulle festività – non inciderebbe sui diritti di essi lavoratori in modo deteriore.

Tale affermazione è priva di motivazione in quanto non accompagnata dal raffronto tra due diverse soluzioni.

Peraltro, ad avviso dei ricorrenti, andava ravvisato un disvalore nel previsto pagamento rateizzato, in ciò, affermando gli stessi, dunque, che non poteva ritenersi sussistente la ritenuta sopravvenuta carenza di interesse.

2. Il motivo è fondato.

2.1. Va premesso che la Corte d’Appello nella sentenza impugnata, correttamente afferma che la retribuzione aggiuntiva deve essere riconosciuta sia per le festività di cui alla L. n. 260 del 1949, art. 5, comma 1, sia per le festività di cui all’art. 2 della medesima legge, come richiamato dalla L. n. 90 del 1954, art. 3 in ragione dell’Accordo interconfederale del 3 dicembre 1954, reso efficace erga omnes dal D.P.R. n. 1029 del 1960.

2.2.In proposito si può ricordare che la L. n. 260 del 1949, art. 5, comma 1, primo periodo, (come mod. dalla L. n. 90 del 1954), prevede che nelle ricorrenze della festa nazionale (2 giugno), dell’anniversario della liberazione (25 aprile), della festa del lavoro (1 maggio) e nel giorno dell’unità nazionale (4 novembre), lo Stato, gli Enti pubblici ed i privati datori di lavoro sono tenuti a corrispondere ai lavoratori da essi dipendenti i quali siano retribuiti non in misura fissa, ma in relazione alle ore di lavoro da essi compiute, la normale retribuzione globale di fatto giornaliera compreso ogni elemento accessorio”.

Ai sensi del successivo comma 3, “ai salariati retribuiti in misura fissa, che prestino la loro opera nelle suindicate festività, è dovuta, oltre la normale retribuzione globale di fatto giornaliera, compreso ogni elemento accessorio, la retribuzione per le ore di lavoro effettivamente prestate, con la maggiorazione per il lavoro festivo. Qualora la festività ricorra nel giorno di domenica, spetterà ai lavoratori stessi, oltre la normale retribuzione globale di fatto giornaliera, compreso ogni elemento accessorio, anche una ulteriore retribuzione corrispondente all’aliquota giornaliera”. Tale ultimo periodo, costituisce una delle disposizioni, della cui interpretazione il ricorrente si duole.

La L. n. 90 del 1954, art. 3 ha previsto che le disposizioni del citato L. n. 260 del 1949, art. 5, “si estendono a tutte le ricorrenze festive previste dall’art. 2 della stessa legge, escluse le domeniche ed i periodi di sospensione del lavoro in atto da oltre due settimane, limitatamente ai lavoratori dipendenti da privati datori di lavoro, i quali siano retribuiti non in misura fissa, ma in relazione alle ore di lavoro da essi compiute”. L’applicabilità di tale previsione anche ai lavoratori a retribuzione fissa di Poste, come si è detto, costituisce oggetto lei suddetti motivi di ricorso.

La citata L. n. 260 del 1949, art. 2 a sua volta, stabilisce che “sono considerati giorni festivi, agli effetti della osservanza del completo orario festivo e del divieto di compiere determinati atti giuridici, oltre al giorno della festa nazionale” (sì consideri, in proposito, che la L. n. 54 del 1977, art. 1 ha disposto che la celebrazione della festa nazionale della Repubblica abbia luogo la prima domenica di giugno; successivamente la L. n. 336 del 2000, art. 1 ha disposto che, a decorrere dal 2001, la celebrazione della festa nazionale della Repubblica abbia nuovamente luogo il 2 giugno di ciascun anno), i giorni seguenti:

tutte le domeniche;

il primo giorno dell’anno;

il giorno dell’Epifania (festività soppressa dalla L. n. 54 del 1977, art. 1 e ripristinata ai sensi del D.P.R. n. 792 del 1985, art. 1);

il giorno della festa di San Giuseppe – festività soppressa dalla L. n. 54 del 1977, art. 1;

il 25 aprile, anniversario della liberazione;

il giorno di lunedì dopo Pasqua;

il giorno dell’Ascensione – (festività soppressa dalla L. n. 54 del 1977, art. 1);

il giorno del Corpus Domini- Festività soppressa dalla L. n. 54 del 1977, art. 1;

il 1 maggio: festa del lavoro;

il giorno della festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo (festività soppressa dalla L. n. 54 del 1977, art. 1 e ripristinata, solo per il comune di Roma (quale festa del Santo Patrono), ai sensi del D.P.R. n. 792 del 1985, art. 1;

il giorno dell’Assunzione della B. V. Maria;

il giorno di Ognissanti;

il 4 novembre: giorno dell’unità nazionale (la L. n. 54 del 1977, art. 1 ha disposto che la celebrazione della festa dell’unità nazionale abbia luogo la prima domenica di novembre e, pertanto, il 4 novembre cessa di essere considerato festivo);

il giorno della festa dell’Immacolata Concezione;

il giorno di Natale;

il giorno 26 dicembre”.

Rileva, altresì, per i lavoratori retribuiti in maniera fissa, dipendenti delle imprese industriali, il D.P.R. n. 1029 del 1960 (che recepisce l’Accordo interconfederale del 3 dicembre 1954 per il trattamento degli impiegati e degli altri lavoratori retribuiti in misura fissa nelle ricorrenze festive che cadono di domenica) che all’art. 1, comma 1 ha stabilito “qualora una delle ricorrenze nazionali, oppure una delle altre festività elencate nella L. 27 maggio 1949, n. 260, art. 2 cadano di domenica, agli impiegati ed ai lavoratori retribuiti in misura fissa è dovuto, in aggiunta al normale trattamento economico, un importo pari ad una quota giornaliera della retribuzione di fatto”.

Questa Corte, ha affermato, a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 11117 del 1995 (seguita dalla giurisprudenza successiva, da ultimo, Cass. sentenza n. 30 del 2011, ma, in precedenza, si possono richiamare le sentenze n. 17764 del 2004, n. 10309 del 2002, n. 6747 del 2002, 4998 del 2002, n. 3164 del 2002), con un orientamento confermato nel tempo, al quale il collegio aderisce, che il compenso aggiuntivo previsto dalla L. n. 260 del 1949, art. 5, comma 3, ultima parte, come mod. dalla L. n. 90 del 1954, è dovuto per la coincidenza dì festività nazionali cadenti di domenica non lavorate e spetta al lavoratore retribuito in misura fissa – senza distinzioni nell’ambito delle categorie previste dall’art. 2095 c.c. – e trova giustificazione nel fatto che ove le suddette festività non coincidessero con la domenica, il dipendente fruirebbe di un giorno in più di riposo e la misura fissa della sua retribuzione lo priverebbe, in mancanza di siffatta previsione normativa, di un corrispondente compenso.

Quanto all’applicabilità del combinato disposto di cui alla L. n. 90 del 1954, art. 3 e alla L. n. 260 del 1949, art. 2 il diritto dei lavoratori trova fondamento nel disposto del D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1029, che ha recepito le clausole dell’accordo interconfederale 3 dicembre 1954 – che obbligano a riconoscere anche ai lavoratori retribuiti in misura fissa, in aggiunta al normale trattamento economico, un importo “pari a una quota giornaliera della retribuzione” per l’eventualità che una qualsiasi delle festività (civili e religiose) considerate dalla L. n. 260 del 1949, e successive modifiche, venga a cadere di domenica – estendendone espressamente le previsioni a tutti i dipendenti da imprese industriali (c.d. efficacia erga omnes), tra le quali va ricompresa l’Amministrazione Poste, secondo quanto già affermato da questa Corte con indirizzo giurisprudenziale che si condivide (Cass. n. 21616 del 2007, n. 17938 del 2006).

Per effetto del D.L. n. 487 del 1993, art. 1, convertito nella L. n. 71 del 1994, come modificato dalla L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 27, l’Azienda autonoma delle Poste è stata trasformata da amministrazione statale in ente pubblico economico e, successivamente (con effetto dal 1 gennaio 1998) in società per azioni, conseguendone la trasformazione della natura giuridica dei rapporti di lavoro da pubblici a privati, mentre l’obbligo del nuovo ente, previsto dal citato D.L., art. 6, comma 6, di applicare ai dipendenti la pregressa disciplina non solo economica, ma anche normativa, già vigente per il rapporto di impiego statale, è venuto meno con la stipulazione del primo contratto collettivo in data 26 novembre 1994 (vedi citata Cass. n. 21616 del 2007, n. 4974 del 2006, n. 4735 del 2005, n. 18715 del 2003). Ne consegue che si applicano ai dipendenti postali le disposizioni vigenti per il rapporto di lavoro dei dipendenti gli enti pubblici economici e, tra esse (giusta il rinvio operato dagli artt. 2093 e 2129 c.c.), le disposizioni inderogabili che disciplinano la materia del trattamento economico e normativo dei dipendenti delle imprese private.

A queste ultime occorre, dunque, avere riguardo, posto che la pretesa dei lavoratori ha ad oggetto una festività caduta nel corso del rapporto di lavoro con l'(allora) ente Poste italiane e successiva alla data di stipulazione del primo contratto collettivo.

Come già osservato da questa Corte in numerose conformi decisioni, l’attività di impresa esercitata dagli enti pubblici economici va ricondotta alle categorie indicate nell’art. 2195 c.c., il cui comma 1, secondo la propria consolidata giurisprudenza, non ha alcun carattere definitorio, ma sostanzialmente esaurisce, ai numeri 1 e 2, l’ambito della nozione di imprenditore (di cui all’art. 2082 c.c.) mediante la previsione delle imprese industriali e, rispettivamente, di quelle commerciali in senso stretto; sicchè le successive previsioni, contenute nei numeri 3, 4 e 5 dello stesso comma 1, costituiscono mere specificazioni – motivate dalla importanza dei rispettivi settori economici – delle categorie generali delineate nei primi due punti (fra tante, Cass. n. 17938 del 2006, n. 4421 del 1995). Ne consegue che, ai fini di stabilire se sia o meno applicabile ai dipendenti dell’ente Poste l’Accordo interconfederale del 1954, recepito nel D.P.R. n. 1029 del 1960, la natura dell’attività economica da esso esercitata deve definirsi sulla base dei criteri fissati dal citato art. 2195 c.c; criteri che inducono a ritenerne il carattere industriale – derivandone la soggezione dei rapporti di lavoro all’accordo in questione -in quanto consistente nella realizzazione di servizi finalizzati alla costituzione di una nuova utilità (si v. vedi, con specifico riferimento all’Ente Poste, citata Cass. n. 17938 del 2006, Cass. n. 735 del 2006, n. 1727 del 2006, nonchè, in generale, Cass. n. 12373 del 2003, n. 6313 del 2001).

3. La Corte d’Appello di Roma, tuttavia, pur aderendo a tali principi, non fa, poi, concreta applicazione degli stessi, in ragione dell’Accordo intercorso tra le OO.SS. e Poste Italiane, sulle festività, del 19 dicembre 2000, di cui alla circolare n. 45/2000 del 27 dicembre 2000 di Poste Italiane, circostanza su cui si appunta la fondata doglianza dei ricorrenti.

Ad avviso del giudice di appello, l’Accordo in questione, poichè non incide in modo deteriore sui diritti dei lavoratori, deve trovare applicazione anche in ordine a diritti quesiti, pur in mancanza di espressa delega dei sindacati stipulanti, dando luogo all’inammissibilità della domanda dei ricorrenti per sopravvenuta carenza d’interesse.

4. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., sentenza n. 10553 del 2009), la sopravvenuta carenza d’interesse della parte alla definizione del giudizio, postula che siano accaduti nel corso del giudizio fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti e da rendere incontestato l’effettivo venir meno dell’interesse sottostante alla richiesta pronuncia di merito, senza che debba sussistere un espresso accordo delle parti anche sulla fondatezza (o infondatezza) delle rispettive posizioni originarie nel giudizio.

Ancora, si è affermato (Cass., sentenza n. 16017 del 2008) che la sopravvenuta carenza di interesse si avvera solo quando tutti i contendenti si diano reciprocamente atto della mutata situazione e sottopongano al giudice conclusioni conformi, nonchè (Cass., sentenza n. 27460 del 2006) che la cessazione della materia del contendere costituisce una fattispecie di sopravvenuta carenza di interesse delle parti alla naturale conclusione del giudizio, la quale può essere dichiarata soltanto quando i contendenti si diano reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento della situazione e sottopongano al giudice conclusioni conformi; pertanto, deve escludersi che il giudice possa dichiarare siffatta cessazione della lite per avere una delle parti allegato e provato l’insorgenza di fatti astrattamente idonei a privare essa stessa o la controparte dell’interesse alla prosecuzione del giudizio e quando, nelle rispettive conclusioni, ciascuno abbia insistito sulle originarie domande.

La motivazione della sentenza impugnata, che non supera il vaglio di congruità, contrasta con i suddetti principi, in quanto ritiene inammissibile la domanda per sopravvenuta carenza di interesse, peraltro, in base ad un non meglio precisato effetto migliorativo all’Accordo tra Poste e le OO.SS. del 19 dicembre 2000, senza tener conto della contraria posizione della parte interessata sul punto.

5. Pertanto il ricorso deve essere accolto.

6. In definitiva, la sentenza della Corte d’Appello di Roma deve essere cassata, con rinvio, alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 4 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2011

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