Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1754 del 24/01/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 24/01/2017, (ud. 17/11/2016, dep.24/01/2017),  n. 1754

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20365-2015 proposto da:

ARTA ABRUZZO – AGENZIA REGIONALE PER LA TUTELA DELL’AMBIENTE – C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NIZZA, 63, presso lo studio

dell’avvocato MARCO CROCE, rappresentata e difesa dall’avvocato

MANUEL DE MONTE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.R.F. C.F. (OMISSIS), con l’avv. B.D. C.F.

(OMISSIS), domiciliati in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi

dall’avvocato ANGELO TENAGLIA, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 44/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 19/02/2015 R.G.N. 1322/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/11/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato DE MONTE MANUEL;

udito l’Avvocato TENAGLIA ANGELO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – La Corte di Appello di L’Aquila, in riforma della sentenza di prime cure, ha accolto la domanda proposta da D.R.F. nei confronti dell’ARTA Abruzzo Agenzia Regionale per la Tutela dell’Ambiente – e “ritenuta l’illegittimità del licenziamento intimato all’appellante ed il diritto dello stesso allo svolgimento dell’incarico dirigenziale sino alla sua naturale scadenza”, ha condannato l’Agenzia al risarcimento del danno “rapportato all’intero trattamento economico, comprensivo anche del trattamento previdenziale, che avrebbe percepito se fosse rimasto in servizio fino alla scadenza del contratto di incarico dirigenziale”.

2 – La Corte territoriale ha premesso che l’impugnazione del licenziamento, avvenuta solo con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, notificato alla controparte il 17 giugno 2011, non poteva essere ritenuta tardiva, perchè solo con la L. n. 183 del 2010 l’onere di impugnazione era stato esteso ai dirigenti. Ha aggiunto che, anche a voler ritenere che detto onere includesse i licenziamenti intimati prima della entrata in vigore della nuova normativa, l’eccezione di decadenza doveva ritenersi infondata, poichè la L. n. 10 del 2011 aveva differito al 31 dicembre dello stesso anno l’efficacia delle nuove disposizioni e a quella data il giudizio era già stato incardinato.

3 – Quanto alla legittimità del recesso il giudice di appello ha rilevato che:

a) doveva essere esclusa qualsiasi acquiescenza al provvedimento da parte del D.R. perchè quest’ultimo con la lettera del 9 ottobre 2009 si era limitato a chiedere delucidazioni all’ARTA, comprensibili dato “l’effetto sorpresa” prodotto dalla missiva del 6 ottobre, con la quale il recesso veniva comunicato a distanza di solo un anno dalla conferma dell’incarico dirigenziale;

b) il D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11, come modificato dal D.L. n. 78 del 2009, art. 17, comma 35 novies, applicabile anche al rapporto dirigenziale, non consente il licenziamento ad nutum di tutti i dipendenti pubblici che abbiano raggiunto l’anzianità contributiva, ma attribuisce alle pubbliche amministrazioni solo una facoltà, che può essere esercitata unicamente in presenza di specifiche e concrete esigenze organizzative e previa determinazione di criteri generali;

c) il provvedimento, dunque, deve essere motivato e non può essere correlato al solo raggiungimento del requisito contributivo;

d) non possono, inoltre, essere valutati atti intervenuti solo successivamente al recesso, sicchè erroneamente il Tribunale aveva valorizzato la Delib. adottata il 12 aprile 2011, n. 80 ossia un anno e mezzo dopo il licenziamento del D.R.;

d) il danno subito dall’appellante era pari all’intero trattamento economico che quest’ultimo avrebbe percepito per il tempo residuo di validità dell’incarico.

4 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’ARTA Abruzzo sulla base di cinque motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. D.R.F. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo l’Agenzia denuncia “violazione di legge e dei principi dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione della L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 1”. Ribadito che il D.R. non aveva mai impugnato in via stragiudiziale l’atto risolutorio, la ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare detta circostanza e, quindi, ritenere maturata la decadenza.

1.2 – Il secondo motivo censura la sentenza impugnata, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per falsa applicazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11 e per omesso esame di un fatto controverso. Si duole la Agenzia della errata interpretazione della missiva del 9 ottobre 2009 con la quale, a suo dire, il dirigente avrebbe prestato acquiescenza alla risoluzione del rapporto. Aggiunge che la Corte territoriale ha errato nel ritenere che il provvedimento dovesse essere motivato e che dovessero essere fissati criteri di applicazione della norma, perchè la L.R. 19 febbraio 2010, n. 1, art. 23, comma 15, aveva imposto la risoluzione unilaterale di tutti i rapporti con i dirigenti in possesso del requisito contributivo e detta normativa era stata richiamata nella determina dirigenziale del 27 aprile 2010, riguardante il D.R..

1.3 – La medesima rubrica la ricorrente antepone al terzo motivo, con il quale ribadisce che l’art. 72 prevede espressamente la possibilità di licenziare i lavoratori che possano accedere al trattamento pensionistico, senza fare alcun riferimento al contenuto dell’atto, per cui “l’obbligo di motivazione resta confinato agli atti di organizzazione interna e non si estende a quelli di attuazione”.

1.4 – La quarta critica denuncia la violazione, oltre che del richiamato art. 72, anche dell’art. 2697 c.c.. Sostiene la ricorrente che la norma fissa l’obbligo della previa adozione di criteri generali solo per il personale dei comparti di sicurezza, difesa ed esteri ed evidenzia che il richiamo alla Delib. 12 aprile 2011, n. 80 era finalizzato solo a dimostrare la effettiva sussistenza delle esigenze di contenimento della spesa e di riorganizzazione della struttura.

1.5 – Infine con il quinto motivo la ricorrente denuncia “violazione di legge e dei principi dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., omesso esame di un fatto controverso, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5” e rileva che ai fini del calcolo delle spettanze retributive, quantificate dal D.R. in complessivi Euro 101.906,36, non si poteva assumere a base di calcolo la busta paga del gennaio 2010, poichè ciò comportava l’erroneo inserimento nel conteggio “anche di retribuzioni/indennità variabili e di esclusività”, che presuppongono l’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa.

2 – Il primo motivo è inammissibile, perchè non coglie il decisum della sentenza impugnata e svolge, conseguentemente, argomentazioni non idonee a confutare le ragioni della ritenuta infondatezza della eccezione di tardività.

La Corte territoriale, infatti, ha richiamato a fondamento della decisione la L. n. 183 del 2010, art. 32 il comma 1 bis inserito dalla L. n. 10 del 2011, art. 2, comma 54 ed ha evidenziato che la disposizione aveva differito l’efficacia della nuova normativa al 31 dicembre 2011, sicchè l’onere di previa impugnazione stragiudiziale non poteva operare nella fattispecie, non ricompresa nella originaria previsione della L. n. 604 del 1966, perchè la nuova normativa aveva spiegato effetti quando già il giudizio di impugnazione del licenziamento era pendente.

La statuizione, conforme sul punto al principio di diritto affermato da questa Corte (cfr. Cass. n.14406/2015; Cass. n. 22534/2015; Cass. 22824/2015; Cass. ord. n. 2462/2016), non è stata in alcun modo censurata dalla ricorrente che ha insistito sulla mancanza dell’atto stragiudiziale di impugnazione del licenziamento, senza indicare le ragioni per le quali la Corte territoriale avrebbe errato nella interpretazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 1 bis e nel ritenere che alla fattispecie non si applicasse, prima dell’intervento riformatore, la disciplina dettata dalla L. n. 604 del 1966.

3 – Parimenti inammissibile, per plurime ragioni concorrenti, è il secondo motivo, nella parte in cui censura la sentenza impugnata per avere escluso che il D.R. avesse prestato acquiescenza alla risoluzione del rapporto.

Il motivo è formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione ed allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, perchè la Agenzia ricorrente, che pone a fondamento della doglianza la missiva del 9 ottobre 2009, non ne trascrive il contenuto nelle parti rilevanti ai fini della decisione, non produce in questa sede il documento nè fornisce indicazioni sulle modalità della produzione nei precedenti gradi di giudizio.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che il ricorso deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a comprendere le ragioni per le quali si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, “a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione” (cfr. fra le più recenti Cass. 13.7.2016 n. 14323).

3.1 – Si deve poi aggiungere che la interpretazione degli atti unilaterali è riservata all’apprezzamento del giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale, con la specificazione dei canoni in concreto violati e con la indicazione, che deve essere altrettanto specifica, delle ragioni per le quali la sentenza impugnata si sarebbe discostata dalle regole dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c. (Cass. 18.7.2016 n. 14639 che richiama in motivazione Cass. 29.8.2006 n. 18661; Cass. 27.1.2009 n. 1893; Cass. 23.1.2014 n. 1391).

Pertanto è inammissibile il motivo con il quale il ricorrente si limiti a contestare il risultato ermeneutico ed a contrapporre allo stesso una diversa interpretazione, sollecitando la Corte di legittimità ad effettuare un non consentito sindacato di merito.

4 – Il secondo, il terzo ed il quarto motivo, da trattare congiuntamente perchè connessi, sono infondati perchè la sentenza impugnata ha correttamente ritenuto che il recesso, intimato ai sensi del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 35 novies dovesse essere motivato.

4.1 – La facoltà della Pubblica Amministrazione di risolvere unilateralmente il rapporto di impiego al raggiungimento della massima anzianità contributiva è stata prevista dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 72, comma 11, primo e secondo periodo, poi convertito dalla L. 6 agosto 2008, n. 112, che, nel testo originario prevedeva: “Nel caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, le pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2 possono risolvere, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici, il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi. Con appositi decreti” (…) “sono definiti gli specifici criteri e le modalità applicative dei principi della disposizione di cui al presente comma relativamente al personale dei comparti sicurezza e difesa (n.d.r., a cui, in sede di conversione, si aggiungeva quello “affari esteri”), tenendo conto delle rispettive peculiarietà ordinamentali”.

L’art. 72, comma 11, veniva successivamente novellato dalla L. 4 marzo 2009, n. 15, art. 6, comma 3, che ne modificava il testo, sostituendo il requisito del compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni, con il requisito del “compimento dell’anzianità massima di servizio di 40 anni”.

Entrambe le formulazioni della norma, succedutesi in breve arco temporale, si limitavano a richiedere il requisito, in un caso della massima anzianità contributiva, nell’altro della massima anzianità di servizio, senza imporre ulteriori condizioni, quanto alla formazione della volontà negoziale dell’Amministrazione, e senza richiedere in modo espresso il rispetto dell’obbligo motivazionale. La determinazione di specifiche modalità applicative era, infatti, espressamente prevista solo per il personale dei comparti sicurezza, difesa ed affari esteri, in ragione delle peculiarietà dei rispettivi ordinamenti.

Successivamente, il D.L. 10 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 35-novies, convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, sostituiva il dell’art. 72, il comma 11. Si faceva riferimento (anni 2009, 2010, 2011) al requisito della massima anzianità contributiva; si confermava il preavviso; si precisava la unilateralità del recesso collegandolo all’esercizio del potere di organizzazione esercitato ai sensi dell’art. 5, comma 2, del T.U., con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro; si prevedeva l’applicabilità della disciplina anche per il personale dirigenziale. L’adozione di specifici criteri e modalità applicative continuava ad essere prevista solo per i comparti sicurezza, difesa e affari esteri.

Le condizioni richieste per il recesso sono rimaste immutate anche nelle successive novelle, fino all’intervento del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 1, comma 5, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, in ragione del quale il vigente art. 72, comma 11, primo periodo, prevede che “Con decisione motivata con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi, le pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, art. 1, comma 2, incluse le autorità indipendenti, possono, a decorrere dalla maturazione del requisito di anzianità contributiva per l’accesso al pensionamento” (…) “risolvere il rapporto di lavoro e il contratto individuale anche del personale dirigenziale, con un preavviso di sei mesi e comunque non prima del raggiungimento di un’età anagrafica che possa dare luogo a riduzione percentuale” (…).

La ricostruzione della disciplina va completata con il richiamo al D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 16, comma 11, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, che, ha stabilito: “In tema di risoluzione del rapporto di lavoro l’esercizio della facoltà riconosciuta alle pubbliche amministrazioni prevista dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 72, comma 11 convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, non necessita di ulteriore motivazione, qualora l’amministrazione interessata abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo”.

4.2 – Le disposizioni sopra citate sono già state interpretate da questa Corte con la sentenza n. 21626 del 23.10.2015, che ha affermato il carattere innovativo e non interpretativo del D.L. n. 98 del 2011, art. 16 e con la sentenza n. 11595 del 6 giugno 2016 con la quale, ribadito il principio, si è precisato che “se è chiaro che il requisito della adozione dell’atto generale organizzativo (sostitutivo dell’ulteriore motivazione) è frutto di scelta innovativa (come detto dalla citata pronunzia del 2015), altrettanto chiaro e condiviso è che l’obbligo motivazionale solo de futuro sostituito dall’atto generale – sussisteva già a regolare l’originaria risoluzione di cui al D.L. del 2008, art. 72, comma 11”.

A dette conclusioni la Corte è pervenuta dopo avere sottolineato la necessità di interpretare la normativa che qui viene in rilievo, non solo alla luce dei principi costituzionali consacrati nell’art. 97 Cost., ma anche e soprattutto della direttiva 2000/78 CE, perchè il compimento della massima anzianità contributiva necessariamente si correla all’età del lavoratore, con la conseguenza di rendere applicabile la richiamata direttiva nella parte in cui prevede che disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscono discriminazione solo qualora “siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”.

E’ stato, quindi, affermato che “La facoltà attribuita dal D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, alle Pubbliche amministrazioni di poter risolvere il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi, nei caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, deve essere esercitata, anche in difetto di adozione di un formale atto organizzativo, avendo riguardo alle complessive esigenze dell’Amministrazione, considerandone la struttura e la dimensione, in ragione dei principi di buona fede e correttezza, imparzialità e buon andamento, che caratterizzano anche gli atti di natura negoziale posti in essere nell’ambito del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato. L’esercizio della facoltà richiede, quindi, idonea motivazione, poichè in tal modo è salvaguardato il controllo di legalità sulla appropriatezza della facoltà di risoluzione esercitata, rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguite nell’ambito di politiche del lavoro. Tale motivazione, si aggiunge, si rende ancor più necessaria in mancanza di un atto generale di organizzazione perchè costituisce il solo strumento di conoscenza e verifica delle ragioni organizzative che inducono l’Amministrazione ad adottare atti di risoluzione contrattuale. In mancanza, la risoluzione unilaterale dei rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato viola le norme imperative che richiedono la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, comma 2), l’applicazione dei criteri generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), e i principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., nonchè l’art. 6, comma 1, della direttiva 78/2000/CE.”.

La sentenza impugnata, nella parte in cui fa discendere dalla mancanza di motivazione la illegittimità dell’atto, è conforme a detti principi di diritto, ribaditi da Cass. 14.9.2016 n. 18099 e da Cass. 23.9.2016 n. 18723, ai quali il Collegio intende dare continuità.

4.3 – L’Agenzia ricorrente per escludere l’obbligo della motivazione fa leva sulla L.R. Abruzzo n. 1 del 2010, art. 23 e sostiene che il legislatore regionale avrebbe imposto la risoluzione di tutti i rapporti intercorrenti con il personale in possesso del requisito contributivo, senza lasciare alcun margine di discrezionalità all’ente.

Detta esegesi non tiene conto del tenore letterale della norma invocata che, nel testo applicabile ratione temporis, dopo avere previsto, al comma 15, “Per gli anni 2010 e 2011 l’Amministrazione regionale, in applicazione del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 72, comma 11 convertito nella L. 6 agosto 2008 e successive modificazioni, n. 133 a decorrere dal compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, risolve unilateralmente il rapporto di lavoro, con un preavviso di 6 mesi, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenza dei trattamenti pensionistici”, al comma 20, poi abrogato dalla L.R. 3 agosto 2011, n. 24, art. 7, stabilisce che “Le disposizioni di cui al presente articolo sono estese a tutti gli Enti strumentali ed Organismi regionali, pur nel rispetto delle rispettive autonomie funzionali ed organizzative”.

Il richiamo alla autonomia funzionale ed organizzativa esclude la asserita doverosità del recesso, e, quindi, rende pienamente operante il principio affermato da questa Corte in merito alla necessità della motivazione ed alla funzione che la stessa assolve di strumento di conformazione del diritto interno a quello dell’Unione.

4.4 – Si deve aggiungere che la giurisprudenza della Corte Costituzionale è consolidata nell’affermare che il rapporto di impiego alle dipendenze delle Regioni e degli Enti locali, essendo stato contrattualizzato ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2 è retto dalla disciplina generale dei rapporti di lavoro tra privati ed è soggetto alle regole che garantiscono l’uniformità di tale tipo di rapporti. Pertanto la legge statale, in tutti i casi in cui interviene a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità, costituisce un limite alla competenza residuale regionale (Corte Cost. n. 95 del 2007; nn. 77 e 339 del 2011; n. 290 del 2012; n. 186 del 2016).

Da ciò discende che qualora, come nella fattispecie, il legislatore regionale ritenga di dovere espressamente recepire nel testo normativo una norma statale che disciplina le modalità di risoluzione del rapporto di impiego, alla legge regionale non può essere attribuito un significato diverso da quello proprio della norma statale riprodotta, perchè una difformità fra le due discipline renderebbe costituzionalmente illegittima, per violazione dell’art. 117 Cost., la normativa regionale.

La L.R. n. 1 del 2010, art. 23, comma 15, non può, quindi, essere interpretato nel senso della assoluta doverosità del recesso, perchè detta doverosità non è prevista dal D.L. n. 112 del 2008, art. 72 che il legislatore regionale ha espressamente dichiarato di volere recepire (l’art. 23 è intitolato, infatti, “Norme per la riorganizzazione e razionalizzazione dell’Ente. Recepimento del D.L. n. 112 del 2008, art. 72 così come convertito con L. 133/2008 e successive modifiche”).

5 – Il quinto motivo è inammissibile perchè la sentenza impugnata, di condanna generica, non ha recepito il conteggio prodotto dall’appellante nè ha precisato quali indennità dovessero concorrere a formare “l’intero trattamento economico”. La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che “qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata nè indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa” (Cass. 22.4.2016 n. 8206).

Detto onere nella specie non è stato assolto, sicchè il motivo non può sfuggire alla sanzione di inammissibilità

6 – In conclusione il ricorso deve essere rigettato, poichè il dispositivo della

sentenza impugnata è conforme a diritto e può, quindi, il Collegio limitarsi alla integrazione, ex art. 384 c.p.c., della motivazione nei termini sopra indicati.

La complessità e la novità delle questioni trattate, solo di recente decise da questa Corte, giustificano l’integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dalla Agenzia ricorrente.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 17 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2017

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