Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17536 del 28/06/2019

Cassazione civile sez. trib., 28/06/2019, (ud. 14/05/2019, dep. 28/06/2019), n.17536

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8392/2013 R.G. proposto da:

S.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Viscardi Augusto, con

domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. Cipollaro Fabrizio, in

Roma, Via XX settembre, n. 3, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato

presso i cui uffici è domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n.

12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 27/2012, depositata il 24 gennaio 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 maggio

2019 dal Consigliere D’Orazio Luigi.

Fatto

RILEVATO

Che:

1. L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento nei confronti di S.M. per l’anno 2003, rilevando che con sentenza del Tribunale di Como n. 803/2008, impugnata dall’imputato, il S. era stato condannato per i reati di falso in scrittura privata ex art. 485 c.p. e truffa ex art. 640 c.p., per avere indotto la signora R.S. a pagare il costo della pubblicità relativa alla cessione in franchising della agenzia di viaggi “Grandi Vacanze”, riconducibile al contribuente, ma in realtà inesistente. In particolare, sulla base dei costi delle fatture per la pubblicità pari ad Euro 110.000,00 l’Agenzia delle entrate aveva calcolato un ricarico del 20 % in relazione alla fee di ingresso al franchising ed alle sucessive royalties (pari quindi ad Euro 22.000), per il periodo di 27 mesi (dal giugno 2001 all’agosto 2003), determinando la porzione di reddito per primi otto mesi del 2003 (da gennaio ad agosto 2003) in Euro 39.111,00 (Euro 132.000:27X8), con imposte ai fini Irpef, Irap ed Iva.

2. La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, mentre la Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate, evidenziando che le prove testimoniali acquisite nel processo penale erano utilizzabili nel processo tributario, che il giudice deve procedere ad autonoma valutazione delle risultanze istruttorie provenienti dal processo penale, che il contribuente aveva indotto la Rigoli a stipulare contratti di pubblicità a vantaggio del S., realizzando un profitto di Euro 100.000,00, che dai contratti di franchising erano derivati fee e royalties in favore del contribuente, in base ai contratti stipulati a seguito della pubblicità effettuata, nella percentuale indicata dalla Agenzia delle entrate.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente.

4. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c., artt. 115,116 e 654 c.p.p. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7,D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 e art. 39, comma 1, lett. d, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.”, in quanto il giudice di appello, pur ritenendo utilizzabili nel giudizio tributario le prove acquisite nel processo penale a carico del contribuente per falso e truffa, solo a seguito di autonoma valutazione degli elementi di fatto, in presenza di divieto di prova testimoniale ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, in realtà avrebbe fatto solo “illusoria applicazione” di tale principio, avendo uniformato il proprio convincimento proprio sulla intervenuta statuizione penale, senza alcun autonomo vaglio critico e senza indicare gli elementi di prova sottesi alla decisione di accoglimento dell’appello della Agenzia delle entrate.

1.1. Tale motivo è infondato.

Invero, costituisce principio giurisprudenziale consolidato quello per cui, in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorchè i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perchè il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario (Cass. Civ., 28 giugno 2017, n. 16262).

Si è ulteriormente precisato che nel processo tributario, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perchè il fatto non sussiste”, come pure quella di condanna (Cass., 2012/8129; Cass., 2015/2938; Cass., 2005/10945), non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare (Cass.Civ., 22 maggio 2015, n. 10578), sicchè tale sentenza rappresenta un semplice elemento di prova, liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva (Cass., 24 novembre 2017, n. 28174; Cass., 13 febbraio 2015, n. 2938; Cass., 27 febbraio 2013, n. 4924; Cass., 28 ottobre 2016, n. 21873).

Nella specie, da un lato, si rileva che la sentenza penale di primo grado era stata comunque impugnata dal contribuente e, dall’altro, che la Commissione regionale ha più volte chiarito di voler procedere ad un autonomo vaglio critico delle risultanze istruttorie, poi effettuato alla luce delle dichiarazioni testimoniali della parte civile nel processo penale a carico del S. (cfr. pagina 1 della sentenza della CTR “la sentenza penale si sarebbe fondata in maniera quasi esclusiva sulla testimonianza della parte civile che aveva costituito una società in data 22 aprile 2002, poi cancellata in data 25 marzo 2003”).

In particolare, la Commissione tributaria regionale ha affermato, con un giudizio autonomo ed indipendente dalla sentenza penale, che “il contribuente resistente abbia determinato un progetto criminale atto a stipulare contratti a nome della Signora R. da utilizzare a proprio vantaggio, determinando un profitto eccedente i 100.000,00 Euro”.

Non v’è stata, dunque, la dedotta violazione di legge lamentata dal contribuente.

2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della “omessa insufficiente motivazione su fatti controverso e decisivi per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, versione ante L. 7 agosto 2012, n. 134 di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, stante l’inapplicabilità al processo tributario a norma dell’art. 54 comma 3-bis del decreto, delle nuove disposizioni modificative dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in quanto il giudice di appello non ha indicato gli elementi di fatto sui quale ha fondato il proprio convincimento.

2.1. Tale motivo è inammissibile.

Invero, la sentenza di appello è stata depositata il 24-1-2013 sicchè è applicabile al ricorso per cassazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella versione modificata dal D.L. 83/2012, riguardante i ricorsi per cassazione avverso le sentenze di appello depositate a partire dall’11-9-2012.

Infatti, le disposizioni sul ricorso per cassazione, di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, circa il vizio denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ed i limiti d’impugnazione della “doppia conforme” ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 348-ter c.p.c., si applicano anche al ricorso avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale, atteso che il giudizio di legittimità in materia tributaria, alla luce del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62, non ha connotazioni di specialità. Ne consegue che il D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3-bis, quando stabilisce che “le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546”, si riferisce esclusivamente alle disposizioni sull’appello, limitandosi a preservare la specialità del giudizio tributario di merito (Cass., sez.un., 8053/2014).

3. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a supporto della decisione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, non avendo, il giudice di appello, indicato, controllato e sottoposto ad autonoma valutazione i mezzi di prova, ancorchè raccolti in altro giudizio.

3.1.Tale motivo è infondato.

Invero, la Commissione regionale ha fornito la motivazione sottesa alla sua decisione, non incorrendo, dunque, nel dedotto vizio di omessa motivazione. In particolare, nella motivazione si è fatto riferimento alla condotta del contribuente che ha tratto in inganno la persona offesa R., inducendola a pagare le spese di pubblicità relative alla agenzia di viaggi “Grandi Vacanze”, riconducibile al S., con un profitto di circa Euro 100.000,00, con la precisazione che il contribuente ha ottenuto dall’attività commerciale consistita nella conclusione di contratti di franchising sia le somme iniziali di ingresso nel franchising (fee di ingresso), sia successive royalties.

4. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, normativa dell’accertamento induttivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.”, in quanto il giudice di appello, muovendo dal fatto noto costituito dai contratti di acquisto di spazi pubblicitari per la offerta di franchising da parte della Prisma, ditta intestata a R.S., ha presunto, senza riscontri probatori, che tali contratti sono stati stipulato dal S., che l’Agenzia pubblicitaria “Grandi Vacanze” fosse riconducibile al S., che da tale presunzione fossero presumibili stipulazioni di contratti di franchising, che quindi fosse presumibile la corresponsione di fee di ingresso e di royalties derivanti dalla utilizzazione da parte di presunti terzi acquirenti del franchising della ditta Grandi Vacanze, con un reddito di impresa pari ad Euro 110.000 da ricaricare del 20 %. Pertanto, “la catena di praesumpiones de praesunto inficia l’adozione del metodo induttivo dell’accertamento”.

4.1. Tale motivo è inammissibile.

Invero, la denuncia di violazione o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., può essere, poi, prospettata sotto più profili (Cass.Civ., sez.un., 24 gennaio 2018, n. 1785). Il giudice di merito può affermare che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni che non siano gravi, precisi e concordanti, incorrendo in un errore di diretta violazione della norma. Il Giudice di merito può, poi, fondare la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto alla conseguenza ignota, sì che la censura ricade ancora nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il terzo caso è quello in cui la critica al ragionamento presuntivo del giudice di merito si concreta in una attività diretta solo ad evidenziare che le circostanze di fatto avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo, allegando una inferenza probabilistica diversa da quella applicata dal giudice, ma in tal caso la censura impinge in un apprezzamento di merito, che riguarda la quaestio facti e si pone nel solco del vozio della motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. Civ., sez.un., 8053 e 8054 del 2014).

Nella fattispecie in esame, la censura del ricorrente non resta nell’ambito dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ma involge apprezzamenti di merito, non consentiti in sede di legittimità, soprattutto a fronte della modifica intervenuta sull’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ad opera del D.L. n. 83 del 2012, applicabile alla fattispecie in esame.

5. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 4.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 14 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2019

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