Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1753 del 24/01/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 24/01/2017, (ud. 17/11/2016, dep.24/01/2017),  n. 1753

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13421-2014 proposto da:

C.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA G. PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato STEFANO DI MEO,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PARIDE CASINI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CONSORZIO FITOSANITARIO PROVINCIALE DI MODENA C.F. (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso lo studio dell’avvocato

GUIDO FRANCESCO ROMANELLI, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato ENRICO GRAGNOLI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 477/2013 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 23/05/2013 R.G.N. 358/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/11/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato DE MEO STEFANO;

udito l’Avvocato GRAGNOLI ENRICO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA che ha concluso per l’accoglimento del secondo e del

nono motivo del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – La Corte di Appello di Bologna ha respinto l’appello proposto da C.G. avverso la sentenza del Tribunale di Modena che aveva rigettato il ricorso volto ad ottenere, previa dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato al ricorrente dal Consorzio Fitosanitario Provinciale di Modena il 15 novembre 2007, la condanna dell’ente alla reintegra nelle funzioni di direttore tecnico e amministrativo nonchè al risarcimento del danno, quantificato in misura alle retribuzioni maturate dalla data del recesso.

2 – La Corte territoriale ha premesso che l’appellante, all’esito del procedimento disciplinare, era stato licenziato in relazione ad una pluralità di addebiti, poichè il Consorzio aveva contestato al dirigente: di avere tenuto condotte biasimevoli nei confronti dei collaboratori; di avere mantenuto atteggiamenti contrari ai doveri di lealtà e collaborazione nei rapporti con la presidenza e con la commissione esaminatrice; di essersi reso responsabile di inadempimenti ed irregolarità inerenti alla gestione tecnico amministrativa.

3 – Ha escluso la fondatezza dei motivi di gravame ed ha rilevato, in sintesi, che:

a) non doveva essere attivata la procedura di verifica della responsabilità dirigenziale, con acquisizione del parere del Comitato dei Garanti, perchè l’ente aveva contestato condotte di rilevanza disciplinare, che giustificavano il licenziamento a prescindere dagli eventuali riflessi sull’ottenimento dei risultati attesi dalla amministrazione;

b) con la Delib. 28 giugno 2006 era stato approvato il regolamento del Consorzio che attribuiva il potere disciplinare alla Commissione esaminatrice, che nel caso di specie lo aveva correttamente esercitato nel rispetto delle forme previste dalla normativa vigente;

c) l’unico ufficio dell’ente era diretto dallo stesso C. per cui la segnalazione, ai fini dell’avvio del procedimento, poteva essere effettuata solo dal Presidente che, in effetti, aveva comunicato alla Commissione i comportamenti ritenuti di rilevanza disciplinare;

d) non era stato violato il termine di 15 giorni previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 5, applicabile nella sola ipotesi in cui il dipendente non si avvalga della facoltà di difendersi;

e) non rilevava la mancata affissione del codice disciplinare, poichè le condotte in relazione alle quali il licenziamento era stato intimato risultavano contrarie al cosiddetto “minimo etico” e potevano astrattamente avere anche rilevanza penale;

f) la genericità della contestazione deve essere esclusa nei casi in cui il dipendente sia stato posto in condizione di difendersi, come avvenuto nella fattispecie, nella quale, inoltre, l’iniziativa disciplinare era stata tempestivamente esercitata, perchè avviata il 2 ottobre 2007 in relazione a comportamenti tenuti nell’arco temporale compreso fra i mesi di luglio e settembre dello stesso anno;

g) l’ente non aveva violato il divieto del ne bis in idem, poichè le condotte non coincidevano con quelle oggetto di precedenti iniziative e, comunque, la asserita coincidenza non riguardava tutte le contestazioni, formulate in relazione ad una pluralità di addebiti, ciascuno astrattamente idoneo a giustificare il provvedimento espulsivo;

h) l’avere il Consorzio consentito la prosecuzione dell’attività lavorativa sino al 31 dicembre 2007, pur avendo intimato il licenziamento per giusta causa, non rendeva illegittimo il recesso, comportando solo la conversione in licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con obbligo del datore di lavoro di pagare l’indennità sostitutiva del preavviso, in effetti erogata;

i) i fatti addebitati erano stati provati, attraverso la produzione documentale e le dichiarazioni testimoniali, ed erano tali da giustificare il licenziamento in considerazione del particolare legame di fiducia che caratterizza il rapporto dirigenziale.

4 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso C.G. sulla base di nove motivi. Il Consorzio Fitosanitario di Modena ha resistito con tempestivo controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 3 marzo 2001, n. 165, artt. 21 e 22 e della L.R. 26 novembre 2001, n. 43, artt. 47 e 40 oltre che dell’art. 23 del C.C.N.L. 10.4.1996 del Comparto Regioni Enti Locali – Area della dirigenza, come modificato dall’art. 14 C.C.N.L. 1998-2001 e dall’art. 13 C.C.N.L. 2002-2005, e dell’art. 15 C.C.N.L. 1998-2001, come modificato dall’art. 14 C.C.N.L. 2002-2005”. Sostiene, in sintesi, il C. che le condotte addebitate, sia singolarmente che nella loro globalità, andavano sussunte nell’ambito della responsabilità dirigenziale, sicchè il Consorzio avrebbe dovuto adottare la procedura prevista dalle norme di legge e dalle disposizioni contrattuali richiamate in rubrica, richiedendo il previo parere del Comitato dei Garanti. A riprova di ciò evidenzia che le medesime condotte erano già state esaminate proprio in sede di “valutazione delle prestazioni dirigenziali” e che la stessa difesa del Consorzio aveva finito per riconoscere che il recesso era stato esercitato per la asserita incapacità del dirigente a ricoprire l’incarico. Aggiunge che il giudice di appello ha fondato la decisione su una lettura parziale della sentenza di questa Corte n. 3929 del 20 febbraio 2007, perchè non ha considerato che nella ipotesi in cui sussiste un indissolubile legame fra addebiti di rilievo disciplinare e condotte attinenti alla responsabilità dirigenziale deve essere attivata la specifica procedura di valutazione, che prevale ogniqualvolta l’inadempimento possa essere ricondotto ad entrambe le responsabilità.

1.2 – Il secondo motivo addebita alla sentenza impugnata la “violazione e falsa applicazione D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, artt. 55, 4, 5, 17 e 27, del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 107, della L.R. Emilia Romagna n. 43 del 2001, artt. 3, 13, 26, 33, 34 e 39” nonchè l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Premesso che ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 il procedimento disciplinare deve essere condotto in tutte le sue fasi dall’ufficio competente, rileva il ricorrente che lo statuto del Consorzio aveva solo attribuito alla Commissione Amministratrice il potere di infliggere le sanzioni, ma detta attribuzione non poteva e non può dirsi sufficiente ad individuare nella commissione stessa l’ufficio voluto dal legislatore, posto che la previsione statutaria non contiene alcun richiamo al precetto normativo nè alla “gestione del potere disciplinare”. Aggiunge che la Corte territoriale ha errato nel ritenere che la Commissione sia organo di gestione dell’ente perchè, al contrario, la stessa esercita solo compiti di indirizzo politico, equiparabili a quelli propri della giunta regionale. Non poteva, pertanto, lo Statuto individuare in detto organo l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, perchè gli atti di amministrazione e gestione del personale sono riservati ai dirigenti e la separazione fra attività di indirizzo politico amministrativo e funzioni gestorie, finalizzata ad assicurare il rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento, impedisce che l’organo politico possa essere titolare del potere disciplinare.

1.3 – Con la terza censura il ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 17 e art. 55, comma 4 e del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 107 e della L.R. 24 maggio 1996, n. 16, art. 6” (art. 360 c.p.c., n. 3). Rileva che la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere illegittimo il licenziamento in quanto la segnalazione disciplinare era stata effettuata dal Presidente della Commissione amministratrice, il quale non rivestiva la posizione di “capo struttura” rispetto al ricorrente. Il giudice di appello, inoltre, avrebbe dovuto rilevare che nella specie era stato violato il requisito della terzietà o, quanto meno, della imparzialità della Commissione, perchè della stessa faceva parte il Presidente, ossia il soggetto che aveva attivato il procedimento, segnalando i comportamenti ritenuti di rilievo disciplinare.

1.4 – Il quarto motivo denuncia, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 5, che prescrive di adottare il provvedimento disciplinare “trascorsi inutilmente 15 giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente”. Sostiene il ricorrente che detto termine dovrebbe operare anche nelle ipotesi in cui l’incolpato abbia svolto le proprie difese, poichè, altrimenti, si creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento, tra l’altro a favore del dipendente meno diligente e collaborativo.

1.5 – La quinta censura denuncia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 3, della L.R. n. 43 del 2001, art. 24, dell’art. 2106 c.c., della L. n. 604 del 1966, art. 3, della L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 1 e 2. Evidenzia il C. che la legge regionale, nel recepire la normativa nazionale richiamata in rubrica, ha stabilito che la definizione della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è riservata alla contrattazione collettiva la quale, nel caso di specie, non conteneva alcuna tipizzazione degli illeciti disciplinari. L’eccezione, formulata in primo grado e reiterata in appello, non riguardava la affissione del codice bensì la impossibilità stessa di esercitare il potere disciplinare, in assenza della tipizzazione delle condotte illecite e delle relative sanzioni riservata alla contrattazione collettiva. Aggiunge che la Corte territoriale avrebbe dovuto chiarire quali fossero le norme penali o i precetti etici violati dal dirigente, tanto più che la stessa Corte, nel qualificare il recesso come licenziamento per giustificato motivo soggettivo e non per giusta causa, aveva finito per riconoscere che i fatti non erano di gravità tale da giustificare l’immediata cessazione del rapporto.

1.6 – Con il sesto motivo il ricorrente denuncia “nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4) ovvero violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 111 Cost., commi 6 e 7, all’art. 116 c.p.c., comma 1, all’art. 118 disp. att. c.p.c. e all’art. 132 c.p.c., comma 2, per motivazione omessa e solo apparente al riguardo della contestata legittimità del licenziamento per violazione del principio di non reiterazione della contestazione disciplinare e del relativo procedimento, per la violazione del principio di non frazionabilità e di tempestività della contestazione disciplinare e, infine, in ordine alla sussistenza di pretese numerose altre contestazioni idonee a giustificare il provvedimento espulsivo, nonchè violazione e/o falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 1, 2 e 5, all’art. 2106 c.c. e al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 2 per il mancato rispetto dei predetti principi regolanti l’esercizio del potere disciplinare”.

Ad avviso del C. la Corte territoriale, per respingere le eccezioni reiterate nell’atto di appello, avrebbe fatto ricorso ad una motivazione solo apparente, non avendo chiarito quale fosse l’episodio che aveva visto coinvolta la dott.ssa N., diverso da quello già contestato con la lettera del 10 agosto 2007, e non avendo precisato la ragione per la quale la contestazione doveva essere ritenuta tempestiva, benchè si riferisse a fatti già noti nel momento in cui era stata avviato il primo procedimento, poi non coltivato. Richiama giurisprudenza di questa Corte per sostenere che è affetta da nullità la decisione che sia basata su argomentazioni del tutto incoerenti rispetto alle questioni affrontate o che non contenga alcuna specificazione del fatto rilevante ai fini della decisione.

1.7 – La violazione delle norme richiamate nel sesto motivo è denunciata anche nella settima critica, con la quale si ripropone la questione della genericità della contestazione e si eccepisce la nullità della sentenza impugnata per assenza e, comunque, illogicità della motivazione. Si sostiene, in sintesi, che ove la contestazione manchi del carattere della specificità non rileva che il dipendente si sia difeso nel procedimento, perchè comunque il diritto di difesa è menomato dalla genericità della contestazione, alla quale non si può sopperire, come avvenuto nel caso di specie, solo in sede giudiziale, attraverso la articolazione dei capitoli di prova.

1.8 – La nullità della sentenza impugnata e la violazione dell’art. 111 Cost., artt. 116 e 132 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c. vengono eccepite anche nell’ottavo motivo con il quale il ricorrente sostiene che la motivazione sulla sussistenza delle condotte addebitate sarebbe una mera formula di stile, avendo la Corte territoriale fatto solo un generico richiamo alla contestazione, alla documentazione prodotta ed alle deposizioni dei testi, senza alcuna disamina del contenuto degli atti e delle dichiarazioni testimoniali. Analoghi rilievi vengono mossi al capo della sentenza relativo al giudizio di proporzionalità ed alla configurabilità del giustificato motivo soggettivo, non avendo la Corte territoriale in alcun modo esplicitato le ragioni per le quali gli addebiti potessero integrare lo specifico notevole inadempimento richiesto dalla L. n. 604 del 1966, art. 3.

1.9 – Infine il nono motivo denuncia “nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la stessa omesso di pronunciarsi, in violazione dell’art. 112 c.p.c., sul subordinato motivo di impugnazione, con il quale si censurava la sentenza di primo grado per avere ingiustificatamente escluso il diritto dell’appellante alla retribuzione o al risarcimento del danno per l’anticipata risoluzione del rapporto di lavoro alla data del 13.12.2007 rispetto al termine previsto del 31.12.2007”. Rileva il ricorrente che il giudice di primo grado aveva escluso la fondatezza anche della domanda subordinata perchè il Consorzio aveva corrisposto l’indennità di mancato preavviso. Evidenzia che il capo della decisione era stato oggetto di uno specifico motivo di appello, riportato per estratto nel corpo del motivo, sul quale la Corte territoriale aveva omesso di provvedere.

2 – Il primo motivo è infondato.

La non coincidenza fra responsabilità disciplinare e responsabilità dirigenziale si desume già dal tenore letterale del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 21 che, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis, fa discendere quest’ultima dal mancato raggiungimento degli obiettivi ovvero dall’inosservanza delle direttive, imputabili al dirigente e “valutati con i sistemi e le garanzie di cui al D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 286, art. 5”, facendo comunque salva “l’eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo”.

Nell’interpretare la disposizione in parola questa Corte, che già con la sentenza n. 3929 del 20 febbraio 2007 aveva evidenziato l’autonomia delle due forme di responsabilità, ha precisato che l’intervento del Comitato dei garanti, organo esterno all’amministrazione in funzione di garanzia, si giustifica in considerazione del carattere gestionale della responsabilità dirigenziale “non riferibile a condotte realizzate in puntuale violazione di singoli doveri e collegata, invece, ad un apprezzamento globale dell’attività del dirigente” (Cass. 8.4.2010 n. 8329; negli stessi termini Cass. 7.12.2015 n. 24801 e Cass. 8.6.2015 n. 11790), sicchè la prevalenza della responsabilità dirigenziale su quella disciplinare, quanto alle forme del procedimento, può essere affermata solo nei “casi di indissolubile intreccio fra tale tipo di responsabilità e quella, tipicamente disciplinare, per mancanze” (Cass. n. 8329/2010 cit.).

Il Collegio intende dare continuità a detto orientamento perchè, mentre la responsabilità disciplinare presuppone il colpevole inadempimento di obblighi che gravano sul prestatore, rilevante in sè a prescindere dalla incidenza sui risultati della attività amministrativa e della gestione, la responsabilità dirigenziale è sempre strettamente correlata al raggiungimento degli obiettivi e persegue la finalità di consentire la rimozione tempestiva del dirigente rivelatosi inidoneo alla funzione, in modo da garantire l’attuazione del principio di efficienza e di buon andamento degli uffici pubblici.

Anche nel caso di “inosservanza delle direttive imputabili al dirigente”, ossia di comportamento che potrebbe essere astrattamente ricondotto all’una o all’altra forma di responsabilità, il discrimine va ravvisato nel collegamento con la verifica complessiva dei risultati, sicchè l’addebito assumerà valenza solo disciplinare nella ipotesi in cui l’amministrazione ritenga che la violazione in sè dell’ordine e della direttiva, in quanto inadempimento contrattuale, debba essere sanzionata; dovrà, invece, essere ricondotta alla responsabilità dirigenziale qualora la violazione medesima abbia inciso negativamente sulle prestazioni richieste al dirigente ed alla struttura dallo stesso diretta.

Ciò perchè la responsabilità di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 4 e 21 va ricollegata ai risultati complessivi raggiunti dall’ufficio al quale il dirigente è preposto, con la conseguenza che la valutazione negativa si risolve più che nella affermazione di un inadempimento colpevole in un giudizio di inidoneità del dirigente rispetto alla funzione.

2.1 – Nel caso di specie la Corte territoriale ha proceduto all’esame della contestazione ed ha evidenziato che il recesso era stato intimato “per buona parte su comportamenti di rilevanza disciplinare, per la cui contestazione non era necessario rispettare l’iter previsto in tema di responsabilità dirigenziale”, trattandosi di “violazione di doveri inerenti all’adempimento delle mansioni assegnate al C., a prescindere dal fatto che possano avere avuto implicazioni ai fini dell’ottenimento dei risultati attesi dall’amministrazione”.

La valutazione espressa è quindi conforme al principio di diritto sopra enunciato. Nè vale invocare quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 3929 del 2007 in merito alla necessità del previo parere del Comitato dei garanti in tutte le ipotesi in cui le due forme di responsabilità finiscano per coincidere, posto che quel principio è stato precisato da Cass. n. 8329/2010, che, oltre a delineare in termini più puntuali il confine fra l’una e l’altra forma di responsabilità, ha anche evidenziato che la prevalenza opera nei soli casi in cui si ravvisi un “indissolubile intreccio”, nella specie escluso dal giudice di appello.

Il motivo, nella parte in cui pretende di ricondurre tutte le condotte addebitate alla inosservanza delle direttive imputabili al dirigente, oltre a sollecitare una valutazione di merito non consentita in sede di legittimità, non considera quanto sopra si è evidenziato sul necessario collegamento che deve sussistere fra inadempimento e verifica dei risultati, perchè il primo possa rilevare sul piano della responsabilità dirigenziale anzichè disciplinare.

3 – E’ infondata anche la seconda censura.

La Corte territoriale, esaminato lo statuto approvato con deliberazione del 28 giugno 2006, ha ritenuto che attraverso la attribuzione alla Commissione Amministratrice del potere di irrogare le sanzioni disciplinari, l’ente avesse adempiuto l’obbligo di individuare l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, imposto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 nel testo applicabile ratione temporis.

3.1. – La pronuncia, implicante un accertamento di fatto condotto con motivazione adeguata, quanto ai profili di diritto è conforme alla giurisprudenza di questa Corte la quale, in recente decisione (Cass. 4.11.2016 n. 22487), ha precisato che il legislatore, nel richiedere la previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti disciplinari, non ha imposto modifiche strutturali finalizzate alla “istituzione” dell’ufficio stesso, nè ha richiesto che la individuazione debba avvenire con apposito provvedimento e mediante formule sacramentali.

Il principio deve essere qui ribadito, perchè rispettoso della ratio e della lettera della legge, che persegue unicamente l’obiettivo di garantire, per le sanzioni più gravi, che tutte le fasi del procedimento vengano condotte da un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed al capo struttura.

Il legislatore non ha ritenuto di dovere imporre ulteriori vincoli alle amministrazioni ed anzi, attraverso il richiamo all’ordinamento proprio di ciascuna, ha inteso sottolineare la necessità di procedere alla individuazione, coniugando il rispetto della finalità sopra indicata con le esigenze organizzative di ciascun ente. Non a caso non sono state dettate prescrizioni in merito alla composizione collegiale o personale dell’ufficio nè sono stati imposti requisiti per i soggetti chiamati a comporre l’ufficio medesimo.

Da ciò questa Corte ha desunto che la individuazione dell’ufficio per i procedimenti non possa prescindere dalla maggiore o minore complessità della struttura dell’ente, sicchè, in una fattispecie non dissimile a quella oggetto di causa (nella quale si discuteva della individuazione dell’ufficio nell’ambito di un consorzio con un unico dirigente), ha ritenuto legittima e congrua “la disposizione di attribuire il potere disciplinare al direttore nei confronti dei dipendenti ed al presidente nei confronti del direttore, previa delibera del consiglio di amministrazione” (Cass. 12.6.2015 n. 12245).

3.2 – Nè appare corretto invocare quanto affermato da Cass. 4.12.2015 n. 24731 che, in relazione alla organizzazione delle Camere di Commercio, ha escluso che l’ufficio fosse stato individuato attraverso la attribuzione alla Giunta Camerale del potere di adottare i “provvedimenti riguardanti la assunzione e la carriera del personale” ed ha sottolineato la necessità di tener conto, ai fini dell’esercizio del potere disciplinare, della necessaria distinzione fra organi di gestione ed organi di indirizzo politico.

La fattispecie non è in alcun modo assimilabile a quella oggetto di causa, sia perchè lo statuto del Consorzio attribuisce espressamente alla Commissione Amministratrice il potere di irrogare le sanzioni disciplinari; sia perchè la Corte territoriale ha qualificato la Commissione organo di gestione del Consorzio.

3.3 – La decisione è sul punto condivisibile perchè i poteri attribuiti dallo statuto alla Commissione esulano dalla attività di indirizzo politico, quale descritta dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 4 e della L.R. Emilia Romagna 26 novembre 2001, n. 43, art. 33 e attengono alla concreta gestione dell’ente, essendo riservate alla Commissione, oltre che l’approvazione del bilancio, le delibere sulle spese di ordinaria e straordinaria amministrazione, sulla pianta organica e sugli inquadramenti del personale, sulle missioni dei dipendenti, sul conferimento degli incarichi di responsabilità.

E’ utile evidenziare al riguardo che la L.R. 22 maggio 1996, n. 16 definisce il Consorzio Fitosanitario Provinciale ente dipendente dalla Regione (art. 1) e, dopo avere indicato gli organi dello stesso e la loro composizione, attribuisce alla Commissione il potere di “amministrare” l’ente e, attraverso il richiamo alla L.R. 27 maggio 1994, n. 24, riserva alla Regione Emilia Romagna funzioni di indirizzo, vigilanza, controllo nonchè l’esercizio della attività ispettiva.

La attribuzione alla Commissione di poteri di gestione e non di indirizzo politico si giustifica, quindi, considerando il rapporto che intercorre fra la Regione e l’ente strumentale, il quale “anche se dotato di personalità giuridica pubblica (ente, consorzi, aziende) appare, sotto il profilo organizzativo, sottoposto alla volontà direttiva dell’ente locale, che ne potrebbe riassorbire le strutture e l’attività” (Cass.18.10.2006 n. 22346). In altri termini il rapporto di strumentalità attribuisce all’ente sovraordinato “un più penetrante potere di ingerenza che lo ponga in condizione di dirigere il consorzio, assicurandosi che esso agisca in conformità alle specifiche prescrizioni impartite in via generale o per ogni singolo atto, in guisa tale che l’ente dipendente si configuri come mero strumento della volontà direttiva della regione, titolare della funzione amministrativa curata, in via delegata, dalla struttura subordinata, avente un vero e proprio obbligo di adempiere i compiti fissatile” (Cass. 22346/2006 cit.).

La legge regionale n. 43 del 2001, invocata dalla difesa del ricorrente, va, quindi, interpretata tenendo conto della particolare natura dell’ente strumentale, per cui non è corretto richiamare l’art. 33, che riserva al Consiglio, alla Giunta ed al Presidente le sole funzioni di indirizzo politico, posto che l’art. 58 della stessa legge, nel disciplinare le attribuzioni degli organi degli enti dipendenti dalla Regione, fa salve “le competenze previste dai rispettivi ordinamenti”, il che esclude la asserita equiparazione fra Commissione Amministratrice del Consorzio e Giunta Regionale.

4 – Parimenti infondato è il terzo motivo, con il quale il ricorrente pretende di fare discendere la illegittimità del provvedimento dalla asserita carenza del potere in capo al Presidente del Consorzio di segnalare alla Commissione Amministratrice gli illeciti disciplinari commessi dal direttore tecnico e amministrativo.

La censura si fonda su una lettura non corretta del D.Lgs n. 165 del 2001, art. 55 giacchè la norma, nella parte in cui prescrive che l’ufficio per i procedimenti disciplinari procede alla contestazione dell’addebito “su segnalazione del capo della struttura in cui il dipendente lavora”, non individua in detta segnalazione un requisito di validità del procedimento, nè fa divieto all’ufficio competente di avviare l’iniziativa disciplinare allorquando la notizia sia stata acquisita in altro modo.

In realtà il legislatore ha solo voluto rimarcare un compito istituzionale che fa capo al dirigente il quale, in ragione della posizione organizzativa e funzionale ricoperta, è di norma il soggetto che può acquisire la conoscenza dei fatti di potenziale rilievo disciplinare (in tal senso Cass. 21.9.2016 n. 18517), fermo restando che l’ufficio per i procedimenti può e deve attivare il procedimento, obbligatorio nel pubblico impiego contrattualizzato, qualora altri procedano alla segnalazione.

Ne discende la irrilevanza degli argomenti con i quali il ricorrente ha sostenuto che, essendo egli al vertice della struttura tecnica e organizzativa del Consorzio, doveva essere negato al Presidente dell’ente il potere di segnalazione.

4.1 – E’ poi da escludere che la sanzione disciplinare possa essere ritenuta illegittima perchè inflitta dalla Commissione Amministratrice, della quale faceva parte anche il soggetto che aveva provveduto a denunciare i comportamenti tenuti dal C. in violazione dei doveri di ufficio.

Il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente, sicchè lo stesso non va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare.

Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto che, in quanto tale, non può certo essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle due tesi che si pongono a confronto. Ne discende che qualora, come nella fattispecie, l’ufficio dei procedimenti disciplinari abbia composizione collegiale e sia distinto dalla struttura nella quale opera il dipendente sottoposto a procedimento, non fa venire meno la terzietà dell’organo, nei termini sopra specificati, la sola circostanza che lo stesso sia composto anche dal soggetto che ha effettuato la segnalazione.

5 – La sentenza impugnata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte anche nella parte in cui esclude la applicabilità alla fattispecie del termine di quindici giorni previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 5.

Il Collegio ribadisce che “intanto il decorso del termine di quindici giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente può considerarsi come trascorso “inutilmente” in quanto il dipendente non abbia svolto le sue difese. Se il dipendente non si giustifica nel termine suddetto, allora l’Amministrazione datrice di lavoro deve procedere rapidamente nei quindici giorni successivi per l’irrogazione della sanzione. Ma se il dipendente comunica le sue giustificazioni, allora il termine di quindici giorni dalla convocazione non può considerarsi come decorso “inutilmente” e quindi non trova applicazione l’ulteriore termine di quindici giorni per l’irrogazione della sanzione” (Cass. 13.6.2016 n. 12109 e negli stessi termini in motivazione Cass. 4.5.2011 n. 9767).

Il quarto motivo è, pertanto, infondato.

6 – La quinta censura presenta profili di inammissibilità, perchè la sentenza impugnata non affronta la questione, sulla quale il motivo è incentrato, della mancata previsione degli illeciti disciplinari da parte della contrattazione collettiva.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (fra le più recenti in tal senso Cass. 22.4.2016 n. 8206).

Detto onere nella specie non è stato assolto, perchè il ricorrente non ha riportato nel ricorso le parti rilevanti dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado e dell’appello, necessarie per dimostrare che il vizio del procedimento era stato denunciato al Tribunale, negli stessi termini qui prospettati, ed era stato riproposto al giudice di appello per impedire l’operare della decadenza prevista dall’art. 346 c.p.c..

6.1 – Il motivo è, poi, infondato nella parte in cui contesta che nella fattispecie possa utilmente operare il principio, affermato da questa Corte e richiamato dalla Corte territoriale, secondo cui “in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perchè contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta” (Cass. 27.1.2011 n. 1926 e negli stessi termini, tra le più recenti, in relazione all’impiego pubblico contrattualizzato Cass. 28.9.2016 n.19183 ed al lavoro privato Cass. 7.4.2016 n.6763).

La necessità della previa conoscenza degli illeciti disciplinari, come tipizzati dalla contrattazione collettiva, trova la sua ratio nella esigenza di impedire che il lavoratore possa essere perseguito in relazione a condotte dallo stesso ritenute lecite, esigenza che certo non ricorre qualora il fatto addebitato sia di rilievo penale o contrasti in modo evidente con i doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro e sia tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario (cfr. Cass. 18.9.2009 n. 20270 e Cass. 3.10.2013 n. 22626).

La Corte territoriale, pertanto, correttamente ha ritenuto che quantomeno gli addebiti di cui alle lettere a) e b) non richiedessero alcuna previa pubblicizzazione e detta conclusione, non censurabile negli aspetti implicanti un accertamento di fatto, è corretta in diritto, essendo evidente il disvalore delle condotte lesive della dignità della persona nonchè di quelle tenute in violazione dei principi di lealtà e collaborazione nei confronti del datore di lavoro.

7 – Il sesto, il settimo e l’ottavo motivo presentano profili comuni di inammissibilità, nella parte in cui sollecitano il controllo di questa Corte sulla motivazione della sentenza impugnata.

Per le sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, la motivazione è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi di ” omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”. Detto vizio, inoltre, non è denunciabile, per i giudizi di appello instaurati successivamente alla data sopra indicata (richiamato D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2), qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter c.p.c., u.c.).

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 22.9.2014 n. 19881 e Cass. S.U. 7.4.2014 n. 8053) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”.

Nessuna di dette ipotesi ricorre nella fattispecie poichè la Corte territoriale, sia pure con motivazione sintetica, ha escluso tutti i vizi del procedimento denunciati dalla difesa del C., rilevando che non erano stati violati: il principio della necessaria tempestività della contestazione, in quanto gli addebiti riguardavano l’arco temporale compreso fra i mesi di luglio e settembre 2007 e l’avvio del procedimento risaliva al 2 ottobre 2007; il divieto del ne bis in idem, perchè la nota del 10 agosto 2007 si riferiva ad un comportamento tenuto nei confronti della dipendente N. diverso ed antecedente rispetto a quello contestato; il principio della specificità della contestazione, in quanto gli addebiti erano stati formulati in termini tali da consentire l’esercizio del diritto di difesa.

Una volta esclusa la violazione di legge per difetto assoluto di motivazione, la ammissibilità delle censure prospettate nel ricorso va valutata alla luce del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che non riguarda la motivazione della sentenza ma concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.

L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

Il motivo, quindi, è validamente formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 solo qualora il ricorrente indichi il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”.

Dette condizioni non ricorrono nella fattispecie, poichè il ricorso si risolve, in relazione a tutte le questioni prospettate, in una inammissibile critica del ragionamento decisorio seguito dalla Corte territoriale quanto agli accertamenti di fatto e ne sollecita la revisione, non consentita in sede di legittimità.

7.1 – Va qui ribadito che il principio della necessaria immediatezza della contestazione ha lo scopo di garantire la possibilità di un’utile difesa da parte del lavoratore e, quindi, l’effettività del contraddittorio, nonchè la certezza dei rapporti giuridici nel contesto dell’esecuzione del contratto secondo correttezza e buona fede (in tal senso fra le più recenti Cass. 9 luglio 2015 n. 14324).

La valutazione che il giudice di merito esprime è, quindi, censurabile in sede di legittimità con gli stessi limiti previsti per le clausole generali, poichè i concetti di tardività e tempestività richiedono di essere concretizzati dall’interprete mediante specificazioni che hanno natura giuridica, la cui disapplicazione si risolve in violazione di legge. Al contrario l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione, se privo di errori logici e giuridici.

Il ricorso, pur denunciando violazione di legge, quanto alla tempestività del procedimento disciplinare, insiste solo sulla asserita conoscenza acquisita dal Consorzio in epoca antecedente a quella ritenuta dalla Corte territoriale, sicchè la censura attiene alla ricostruzione cronologica del fatti e, quindi, al merito della valutazione espressa dal giudice di appello.

7.2 – Considerazioni analoghe vanno espresse quanto al motivo con il quale il C. ripropone la questione della assenza di specificità della contestazione.

In merito premette il Collegio che la censura muove da una lettura non corretta della sentenza impugnata, posto che la Corte territoriale non ha affermato che nei casi in cui il dipendente si sia di fatto difeso dalle accuse detto comportamento determina la sanatoria del vizio proprio della contestazione e rende superabile la genericità della stessa.

Il giudice di appello ha, invece, sostenuto che la contestazione è specifica ogniqualvolta “il dipendente sia posto nelle condizioni di potere esercitare compiutamente il proprio diritto di difesa” e detta affermazione è conforme al principio di diritto ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui “in tema di sanzioni disciplinari, l’esigenza della specificità della contestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell’accusa nel processo penale, nè si ispira ad uno schema precostituito e ad una regola assoluta e astratta, ma si modella in relazione ai principi di correttezza che informano un rapporto interpersonale che già esiste tra le parti, ed è funzionalmente e teleologicamente finalizzata alla esclusiva soddisfazione dell’interesse dell’incolpato ad esercitare pienamente il diritto di difesa” (Cass. 30.12.2009 n. 27842 e negli stessi termini con riferimento all’impiego pubblico contrattualizzato Cass. nn. 18419 e 11985 del 2016).

Il giudizio sulla ricorrenza in concreto della specificità nei termini sopra indicati è riservato al giudice del merito e non può essere sindacato in sede di legittimità, valendo i principi richiamati al punto 7 quanto al controllo sulla motivazione.

7.3 – La Corte territoriale ha ritenuto che tutti gli addebiti contestati con la nota del 2 ottobre 2007 (a – tenere con i collaboratori una condotta non improntata a principi di correttezza e di rispetto della dignità delle persone; b – tenere rapporti con gli organi dell’ente non improntati ai principi di lealtà e collaborazione; c essersi reso responsabile di gravi inadempimenti ed irregolarità nelle gestione tecnico amministrativa) fossero stati provati attraverso il deposito della documentazione e le dichiarazioni dei testi escussi. Ha aggiunto che la gravità di dette condotte, valutata in relazione al particolare rapporto di fiducia che caratterizza il rapporto dirigenziale, era sicuramente tale da giustificare il recesso dal rapporto, integrando un giustificato motivo soggettivo, in considerazione del comportamento del Consorzio che aveva consentito la prestazione sino al 31 dicembre 2007, erogando la indennità sostitutiva del preavviso.

Il ricorrente, pur denunciando violazione di legge in relazione agli artt. 2106 e 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 3 non contesta nè il concetto di giustificato motivo soggettivo presupposto dalla Corte territoriale nè l’esercizio del potere di conversione (significativo in tal senso è quanto si legge a pag. 73 ove la violazione di legge viene fatta discendere dalla mancanza di prova dei fatti, dalla genericità degli stessi e dalla insufficiente motivazione), sicchè le censure esulano dal vizio denunciato.

E’ utile rammentare al riguardo che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 26.3.2010 n. 7394 e negli stessi termini Cass. 10.7.2015 n. 14468).

8 – E’, invece, ammissibile e fondata la nona censura perchè la Corte territoriale ha omesso di pronunciare sul motivo di appello, trascritto nel corpo del ricorso, con il quale era stata riproposta la domanda subordinata di riconoscimento del diritto del C. a vedersi corrispondere “la retribuzione globale lorda, oltre al rateo del tfr, per il periodo dal 13 al 31 dicembre 2007”.

E’ consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui in caso di nullità della sentenza per omessa pronuncia, esigenze di economia processuale impongono di evitare la cassazione con rinvio quando la pretesa, sulla quale si riscontri mancare la pronuncia, avrebbe potuto essere decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto (Cass. 8 ottobre 2014 n. 21257).

Nel caso di specie non è contestato che il Consorzio aveva differito al 31 dicembre 2007 la efficacia del licenziamento, impegnandosi a riconoscere “successivamente le garanzie massime indennitarie che il CCNL ci consente in corso di verifica in funzione della sua anzianità” e richiamando espressamente l’art. 31 del CCNL 10.4.1996 concernente la indennità di mancato preavviso.

Al C., quindi, doveva essere in ogni caso corrisposta, in aggiunta a detta indennità, la retribuzione sino al 31 dicembre 2007.

La domanda subordinata va pertanto accolta nei termini indicati in dispositivo, con pronunzia di condanna generica conforme alla richiesta iniziale ed alla censura portata nel motivo accolto.

9 – La cassazione, sia pure in minima parte, della sentenza impugnata con decisione nel merito della causa ex art. 384 c.p.c., comma 2, impone di provvedere sulle spese di entrambi i gradi del giudizio di merito, oltre che del giudizio di legittimità.

La soccombenza reciproca, valutata anche in relazione al valore delle domande, giustifica la compensazione nei limiti di un quinto, sicchè il C. deve essere condannato a rifondere al Consorzio la quota residua di quattro/quinti.

Deve, però, restare ferma la pronuncia di integrale compensazione delle spese del primo grado di giudizio, perchè opera il principio secondo cui il divieto di reformatio in peius impedisce al giudice dell’impugnazione di modificare in senso peggiorativo la pronunzia sulle spese della precedente fase di merito qualora egli abbia valutato la complessiva situazione sostanziale in termini più favorevoli per la parte.

La fondatezza del nono motivo di ricorso rende inapplicabile alla fattispecie il disposto del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte accoglie il nono motivo di ricorso e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito dichiara il Consorzio Fitosanitario Provinciale di Modena tenuto a corrispondere al C. la retribuzione globale lorda, oltre al rateo del TFR, per il periodo dal 13 al 31 dicembre 2007, maggiorati degli interessi legali.

Dispone integrale compensazione delle spese del giudizio di primo grado. Compensa fra le parti nella misura di un quinto le spese del giudizio di appello e del giudizio di legittimità e condanna il ricorrente a rifondere al Consorzio la quota residua, liquidata per il giudizio di appello in Euro 2.800,00 (per esborsi, competenze ed onorari) e per il presente giudizio in Euro 160,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 17 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2017

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