Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17524 del 14/07/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 14/07/2017, (ud. 22/03/2017, dep.14/07/2017),  n. 17524

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16764-2011 proposto da:

B.R. C.F. (OMISSIS), CONSIGLIERA DI PARITA’ DELLA

PROVINCIA DI VERONA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA FABIO MASSIMO 107,

presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO TORINO, che le rappresenta

e difende unitamente agli avvocati LAURA BRANCO, CLARA RENSI, ZENO

GARRIBBA, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

COLLEGIO MISSIONI AFRICANE C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

F. CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MANZI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANFRANCO

MAGALINI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 639/2010 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 24/03/2011 R.G.N. 971/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/03/2017 dal Consigliere Dott. MANNA ANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA MARCELLO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato CLARA RENSI;

udito l’Avvocato GIANLUCA CALDERARA per delega verbale Avvocato

ANDREA MANZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza pubblicata il 24.3.11 la Corte d’appello di Venezia rigettava il gravame di B.R. e della Consigliera di Parità della Provincia di Verona, P.L., contro la sentenza n. 281/07 del Tribunale di Verona che aveva rigettato la domanda, proposta dalla B. contro il Collegio Missioni Africane (ente ecclesiastico) e l’INPS, intesa ad ottenere il pagamento del trattamento economico di maternità e il risarcimento del danno per violazione, da parte del datore di lavoro (cioè del Collegio Missioni Africane), degli obblighi di correttezza e buona fede.

2. La Corte territoriale statuiva l’insussistenza del diritto al trattamento economico di maternità in quanto lo stato di gravidanza a rischio della lavoratrice era sorto durante un periodo in cui ella era in congedo per la formazione, congedo che la L. n. 53 del 2000, ex art. 5, comma 3, non era suscettibile di interruzione se non in caso di sopravvenuta grave e documentata infermità individuata in base a criteri stabiliti da decreto emesso ai sensi dello stesso D.Lgs. art. 4, comma 4; inoltre, erano decorsi ben più di sessanta giorni fra l’inizio della sospensione del rapporto per congedo formativo e l’insorgere della gravidanza a rischio, il che D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 24, era ostativo – aggiungevano i giudici d’appello – al trattamento richiesto.

3. Per la cassazione della sentenza ricorrono con unico atto B.R. e la Consigliera di Parità affidandosi a quattro motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

4. Il Collegio Missioni Africane resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 Il primo motivo denuncia insufficiente motivazione e falsa applicazione di norme di diritto, per non avere la sentenza impugnata equiparato lo stato di gravidanza a rischio a quello di malattia al fine dell’interruzione, ai sensi del L. n. 53 del 2000, art. 5, comma 3, del periodo di congedo per la formazione precedentemente chiesto dalla ricorrente.

1.2. Il secondo motivo deduce erronea motivazione e falsa applicazione di norme di diritto nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante l’invocata equiparazione ostandovi il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 24, comma 2, in forza del quale “Le lavoratrici gestanti che si trovino, all’inizio del periodo di congedo di maternità, sospese, assenti dal lavoro senza retribuzione, ovvero, disoccupate, sono ammesse al godimento dell’indennità giornaliera di maternità purchè tra l’inizio della sospensione, dell’assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni”: si obietta in ricorso che nel caso in esame, chiuso il congedo per la formazione come richiesto dalla lavoratrice ed essendo quindi ripreso il rapporto, era subentrato lo stato di gravidanza (a rischio), con la conseguente consueta possibilità di chiedere e ottenere il normale trattamento di maternità.

1.3. Con il terzo motivo ci si duole di insufficiente ed erronea motivazione e di violazione di norme di diritto, per non avere la Corte territoriale accolto la richiesta di sollevare questione di legittimità costituzionale in ordine al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 24, per violazione dell’art. 31 Cost., comma 2, e art. 37 Cost., comma 1.

1.4. Con il quarto motivo si lamenta che la sentenza impugnata non ha considerato la costante giurisprudenza che riconosce il trattamento economico di maternità anche in assenza d’un collegamento genetico e funzionale tra rapporto di lavoro e rapporto previdenziale, nonchè la sentenza n. 106/80 della Corte Cost..

2.1. I quattro motivi di ricorso – da esaminarsi congiuntamente perchè connessi – sono infondati.

Si muova proprio dalla sentenza della Corte cost. n. 106/80 ricordata in ricorso, che ha dichiarato infondata in riferimento all’art. 3 Cost., art. 31 Cost. e art. 37 Cost., comma 1, (vale a dire proprio in riferimento ai parametri costituzionali invocati dalle odierne ricorrenti) la questione di legittimità costituzionale della L. n. 1204 del 1971, art. 17, comma 2, (vale a dire della norma poi sostanzialmente riprodotta nel D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 24), nella parte in cui non esclude dal computo dei sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, ai fini del godimento dell’indennità giornaliera di maternità, i casi di assenza dal lavoro a titolo di aspettativa, congedo, o permesso senza retribuzione, ove siano giustificati da motivi di famiglia o da altra ragione personale.

Afferma a riguardo la citata sentenza che la L. n. 1204 del 1971, contiene, all’art. 17, una precisa ed articolata regolamentazione delle diverse ipotesi di interruzione dell’attività di lavoro anteriormente all’inizio del periodo di astensione obbligatoria e, in relazione alle loro cause, disciplina variamente il diritto delle lavoratrici gestanti al godimento dell’indennità giornaliera di maternità con scelte rimesse alla discrezionalità del legislatore.

Aggiunge, quindi, la Corte cost. che nelle ipotesi di assenza volontaria dal lavoro, protratta oltre due mesi, l’esclusione dal godimento dell’indennità di maternità non può considerarsi ingiustificata nè discriminatoria rispetto al regime relativo alle astensioni involontarie, vale a dire per disoccupazione, sospensione o risoluzione del rapporto di lavoro per causa non imputabile al lavoratore.

Non ravvisandosi nuovi argomenti tali da poter supportare una seconda rimessione della questione di legittimità costituzionale in base agli stessi parametri già esaurientemente esaminati dalla citata sentenza n. 106/80, a questo punto è vano discutere dell’equiparabilità o non della gravidanza a rischio alla grave infermità al fine dell’interruzione, ai sensi della L. n. 53 del 2000, art. 5, comma 3, del periodo di congedo per la formazione: come correttamente notato dalla sentenza impugnata, resta il rilievo che nel caso di specie erano decorsi ben più di sessanta giorni fra l’inizio della sospensione del rapporto per congedo formativo e l’insorgere della gravidanza a rischio (erano decorsi, anzi, più di quattro mesi).

Nè – infine – valga l’assunto propugnato in ricorso, che implicitamente suppone una sorta di finzione grazie alla quale il sopravvenire della gravidanza a rischio avrebbe comportato una ripresa retroattiva del rapporto di lavoro come se la sua sospensione per congedo formativo non fosse mai avvenuta: a riguardo è appena il caso di notare che una fictio iuris del genere non si rinviene nè nella L. n. 53 del 2000, art. 5, comma 3, nè nel D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 24.

Si tratta di rilievi dirimenti che, unitamente alla legittimità costituzionale della L. n. 1204 del 1971, art. 17, (sostanzialmente omologo al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 24, come s’è detto), prevalgono su ogni ulteriore argomentazione spesa in ricorso, importandone il rigetto.

3.1. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

 

rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti a pagare in favore di parte controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 22 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2017

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