Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17523 del 23/08/2011

Cassazione civile sez. III, 23/08/2011, (ud. 11/07/2011, dep. 23/08/2011), n.17523

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28498/2006 proposto da:

BCC SAN MICHELE DI CALTANISSETTA & PIETRAPERZIA SCPA, (OMISSIS),

in persona del Presidente del C. di A., legale rappresentante pro

tempore, Dott. M.N., elettivamente domiciliato in

ROMA, PIAZZALE DON MINZONI 9, presso lo studio dell’avvocato

MARTUCCELLI CARLO, rappresentato e difeso dall’avvocato MANGIAPANE

Mario giusto mandato in atti;

– ricorrente –

contro

F.R.A.M., B.M., F.L.

M.;

– intimati –

sul ricorso 32994/2006 proposto da:

F.L.M., (OMISSIS), B.M.,

(OMISSIS), F.R.A.M.,

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA POMPEO MAGNO

94, presso lo studio dell’avvocato DE MARIA SALVATORE, rappresentati

e difesi dall’avvocato GIOIA GIUSEPPE, giusto mandato in atti;

– ricorrenti –

e contro

BCC SAN MICHELE DI CALTANISSETTA & PIETRAPERZIA SCPA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 246/2005 della CORTE D’APPELLO di

CALTANISSETTA, depositata il 06/10/2005; R.G.N. 153/2000.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/07/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato GIOIA GIUSEPPE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio, che ha concluso per rigetto dei ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- B.M., F.R.A.M. e F. L.M., la prima anche in proprio e tutti quali eredi di F.G., interposero appello avverso la sentenza del Tribunale di Enna, con la quale era stata parzialmente accolta l’opposizione all’esecuzione proposta dai coniugi B. – F., debitori esecutati in due procedure esecutive immobiliari intraprese nei loro confronti dalla Banca di Credito Cooperativo S. Michele di Caltanissetta e Pietraperzia s.r.l. (già Cassa Rurale e Artigiana e già Banca di Credito Cooperativo La Concordia). In particolare, la sentenza di primo grado, ritenuta la validità della convenzione di rincaro degli interessi al 22%, perchè non dissimile dai tassi debitori all’epoca vigenti, e considerati i risultati delle C.T.U. contabili espletate, aveva condannato la Banca alla restituzione, in favore degli opponenti, della somma di L. 2.286.457, nonchè, in favore del solo F.G., della somma di L. 6.756.653, oltre rivalutazione e interessi legali, rispettivamente dal 13 aprile 1984 e dal 31 ottobre 1985; aveva condannato gli opponenti al pagamento delle spese processuali delle due procedure, che aveva liquidato in complessive L. 7.940.465; aveva dichiarato estinta la procedura esecutiva iscritta al n. 6/82 ed aveva compensato interamente tra le parti le spese del giudizio di opposizione.

La Banca appellata propose, a sua volta, appello incidentale.

2.- La Corte d’Appello di Caltanissetta, con sentenza pubblicata il 6 ottobre 2005, ha rigettato l’appello incidentale; ha accolto parzialmente l’appello principale e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato gli appellanti al pagamento delle spese di una soltanto delle procedure esecutive, avente il n. 6/82, liquidate complessivamente in Euro 1.621,97, oltre accessori; ha condannato la Banca appellata al pagamento di due terzi delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio, compensando tra le parti il terzo restante e ponendo interamente a carico della Banca le spese delle consulenze tecniche d’ufficio.

3.- Avverso la sentenza della Corte d’Appello propone ricorso per cassazione la B.C.C. San Michele di Caltanissetta e Pietraperzia Soc. Coop. per Azioni, a mezzo di tre motivi. Resistono gli intimati con controricorso e propongono ricorso incidentale, a mezzo di sette motivi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente i ricorsi, principale ed incidentale, vanno riuniti.

1.- Col primo motivo del ricorso principale la Banca ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1194 cod. civ., per avere il consulente tecnico, prima, e quindi, il Tribunale, che ne ha recepito le conclusioni, commesso un errore di calcolo riportando per due volte la somma di L. 2.286.457 a detrazione, una volta, in favore dei coniugi F. – B. ed, una seconda volta, in favore di F.G.; inoltre, per avere la Corte d’Appello ritenuto erroneamente che il credito per interessi non fosse liquido ed esigibile ed avere perciò confermato la sentenza di primo grado che, disapplicando l’art. 1194 cod. civ., e seguendo l’errore commesso dal consulente tecnico d’ufficio, non aveva imputato i pagamenti parziali prima alle spese ed agli interessi e poi al capitale, imputandoli invece tutti a deconto del capitale.

1.1.- Il motivo è inammissibile sotto entrambi i profili, per le diverse ragioni di cui appresso. Quanto alla prima censura mossa alla sentenza di primo grado (in correlazione alle risultanze della CTU, che si assumono viziate da errore di calcolo), essa non risulta essere stata sollevata con l’atto di appello, nè la sentenza fa ad essa cenno alcuno, riportando alla pagina 12 della motivazione soltanto il secondo dei detti profili di censura.

Data la situazione processuale di cui sopra, era onere della Banca ricorrente, non solo allegare di avere sollevato in grado d’appello la specifica questione dell’errore di calcolo del CTU per avere accreditato due volte in favore dei mutuatari la medesima somma, ma anche riportare in ricorso i motivi dell’appello incidentale, al fine di consentire a questa Corte di controllare la veridicità dell’assunto, prima di esaminare nel merito la questione stessa (cfr.

Cass. 28 luglio 2008 n. 20518 ed altre); in mancanza, la questione in parola è da reputarsi non proposta in grado d’appello e quindi inammissibile (cfr. Cass. 22 luglio 2005 n. 15422).

1.2.- Quanto al secondo profilo, il motivo è inammissibile per mancanza di autosufficienza del ricorso.

Il ricorso non riporta, nemmeno per estratto o riassunto, la parte di consulenza tecnica d’ufficio dalla quale si dovrebbero desumere i criteri di calcolo seguiti dal consulente tecnico d’ufficio, nè contiene l’indicazione della sede processuale in cui reperire la relazione di consulenza tecnica criticata, come pure avrebbe dovuto (cfr. Cass. n. 69379/10).

Nel caso di specie, non solo è escluso l’esercizio, da parte di questa Corte, del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, in quanto non è denunciato un error in procedendo, ma l’ammissibilità del motivo di censura presuppone che il ricorrente assolva all’onere di specificare la critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente la parte della relazione tecnica che, essendo stata recepita dal giudice di merito, avrebbe dato luogo alla violazione di legge denunciata, e tale specificazione deve risultare dallo stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso.

Vanno qui ribaditi i principi più volte espressi da questa Corte in merito al contenuto richiesto ai fini dell’autosufficienza del ricorso, per i quali la parte che addebita alla consulenza tecnica d’ufficio lacune di accertamento o errori di valutazione oppure si duole di erronei apprezzamenti contenuti in essa (o nella sentenza che l’ha recepita) ha l’onere di riportare, o almeno sintetizzare, nel ricorso per cassazione i passaggi salienti e non condivisi e, poi, il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di evidenziare gli errori commessi dal giudice del merito nel limitarsi a recepirla e nel trascurare completamente le critiche formulate in ordine agli accertamenti ed alle conclusioni del consulente d’ufficio, in modo che le critiche mosse alla consulenza ed alla sentenza posseggano un grado di specificità tale da consentire alla Corte di legittimità di apprezzarne la decisività direttamente in base al ricorso (cfr. Cass. 13 giugno 2007, n. 13845;

ed anche Cass. 3 agosto 1999, n. 8383; 5 maggio 2003, n. 6753; 6 settembre 2007, n. 18688).

Applicando i principi anzidetti al motivo di ricorso in esame, non può che concludersi nel senso dell’inammissibilità del primo motivo, anche sotto il profilo fin qui esaminato.

2.- Col secondo motivo, la ricorrente principale denuncia un vizio di motivazione con riferimento alla riforma della sentenza di primo grado che aveva compensato le spese di giudizio ed alla consequenziale statuizione di compensazione limitata ad un terzo, con condanna della Banca al pagamento dei due terzi restanti.

Il motivo non è meritevole di accoglimento, avendo il giudice d’appello correttamente motivato con riferimento all’esito complessivo della controversia.

Infatti, il criterio di individuazione della soccombenza, sulla base del quale va effettuata la statuizione delle spese, deve essere unitario e globale anche qualora il giudice ritenga di giungere alla compensazione parziale delle spese di lite, condannando poi per il residuo una delle due parti; in tal caso, l’unitarietà e la globalità del suddetto criterio comporta che, in relazione all’esito finale della lite, il giudice deve individuare quale sia la parte parzialmente soccombente e quella, per converso, parzialmente vincitrice, in favore della quale il giudice del gravame è tenuto a provvedere sulle spese secondo il principio della soccombenza applicato all’esito globale del giudizio, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato (cfr., tra le altre, Cass. 17 gennaio 2007, n. 974; 11 giugno 2008, n. 15483; 22 dicembre 2009, n. 26985).

3.- Col terzo motivo di ricorso è denunciato un vizio di motivazione relativamente al rigetto dell’eccezione di compensazione sollevata dalla Banca, in ragione del fatto che la Corte d’Appello avrebbe dovuto compensare il credito di restituzione degli opponenti – appellanti con il credito vantato dall’istituto di credito per le spese delle procedure esecutive, in quanto maturate in epoca anteriore all’ultimo versamento eseguito dai debitori in favore della Banca (pari a L. 25 milioni alla data del 31 ottobre 1985).

Pur facendo riferimento al vizio di motivazione, la censura si traduce sostanzialmente nella denuncia di violazione di legge, specificamente degli artt. 1241, 1243 cod. civ., relativi alla compensazione legale.

Il motivo è comunque infondato e va rigettato. Il giudice d’appello ha motivato in merito all’insussistenza dei presupposti per la compensazione, per essere uno dei due crediti -vale a dire quello vantato dai mutuatari- non determinabile nel suo esatto ammontare;

giova aggiungere che anche il credito opposto in compensazione dalla banca -vale a dire quello per il rimborso delle spese delle procedure esecutive- era privo di certezza e di liquidità, alla data (31 ottobre 1985) in cui, secondo la ricorrente, avrebbe dovuto operare la compensazione legale (tanto è vero che è tuttora sub iudice).

La sentenza impugnata che ha escluso l’operatività della compensazione legale è corretta, mancando i requisiti della certezza e della liquidità di entrambi i crediti alla data (31 ottobre 1985), nella quale la Banca assume che si sarebbe verificata la loro coesistenza (cfr. quanto al requisito della certezza, Cass. n. 4423/87, n. 325/92 e, da ultimo, n. 7864/11, nonchè, quanto al difetto di liquidità che consegue alla contestazione del credito, già Cass. S.O. n. 2234/75, nonchè Cass. n.4161/82, n. 4073/98, n. 14818/02 e, da ultimo, n. 13208/10).

4.- Il primo ed il secondo motivo del ricorso incidentale, evidentemente connessi, anche in ragione dell’illustrazione congiunta fattane dai ricorrenti, sotto la lettera A, vanno trattati insieme.

Oggetto delle due censure, l’una mossa per violazione e falsa applicazione di norme di legge (artt. 1418 e/o 1427, 1435, 1438 e/o 1439 cod. civ.) e l’altra per omessa, erronea ed illogica motivazione, è la riconosciuta validità della pattuizione dell’aumento degli interessi dall’8-9% al 22% stipulata tra i mutuatari e l’istituto di credito mutuante alla data del 13 febbraio 1984, quando erano già pendenti le procedure esecutive, rispettivamente nei confronti dei coniugi B. – F. (n. 7/82) e del solo F. (n. 6/82).

Sostengono i ricorrenti incidentali la nullità della convenzione perchè gli esecutati sarebbero stati “costretti o comunque fraudolent emente indotti” a sottoscrivere la dichiarazione del 13 febbraio 1984 “solo perchè spinti dalla necessità (fatta ritenere tale dalla Banca) di evitare la vendita all’asta dei beni pignorati”;

secondo i ricorrenti, la Banca avrebbe “artificiosamente” tenuto in vita le procedure esecutive, pur avendo i debitori interamente adempiuto alle proprie obbligazioni con versamento di acconti per una somma complessiva pari a L. 106.300.000; in presenza di tale condotta dell’istituto mutuante, che troverebbe riscontro nei documenti prodotti, elencati alle pagine 18-19 del ricorso (copia della convenzione; copia dell’ordinanza con cui veniva fissata la vendita degli immobili pignorati; copia dell’esposto di F.G. alla Banca d’Italia ed alla Procura della Repubblica; copia del verbale dell’udienza del 12 febbraio 1988 del processo esecutivo, che conteneva la dichiarazione del procuratore della banca procedente relativa alla richiesta degli esecutati di una dilazione del pagamento e quindi ad un differimento della vendita “imminente”), vi sarebbero, secondo i ricorrenti, gli estremi per ritenere sussistente il delitto di estorsione, in quanto la minaccia da parte dell’istituto di credito di azionare il proprio diritto sarebbe stata volta non ad assicurare l’esercizio e la tutela del diritto stesso, ma a raggiungere uno scopo diverso da quello tipico previsto dall’ordinamento, sicchè l’ingiustizia del profitto, prevalendo sull’apparente liceità del mezzo coattivo adoperato, avrebbe reso ingiusta la minaccia del danno rivolto alla vittima. Ancora, secondo i ricorrenti, anche se non si ritenesse configurabile l’estorsione, si dovrebbe comunque ritenere sussistente il reato di truffa, per avere la banca posto in essere artifici e raggiri ai loro danni, consistiti nella produzione (prima, durante e dopo l’esecuzione) di “una serie innumerevole di schede contabili note e conti tali da farli ritenere sempre in debito, nonostante le grosse somme versate ad estinzione del debito stesso”. In conclusione, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per non avere ritenuto la nullità ex art. 1418 cod. civ., per contrarietà a norme imperative o per illiceità della causa, ovvero l’annullabilità per violazione dell’art. 1435 cod. civ. od, in subordine, dell’art. 1439 cod. civ., della convenzione del 13 febbraio 1984.

4.1.- La Corte d’Appello di Caltanissetta ha rigettato l’appello, fondato sulle censure riproposte dinanzi a questa Corte e sopra riportate, osservando che “gli appellanti, che ne avevano l’onere, non hanno provato, nè chiesto di dimostrare, l’iter che ha preceduto la formazione della scrittura (che, ovviamente, è stata oggetto di trattative con la Banca creditrice), non potendo la prospettata coartazione della volontà degli esecutati evincersi dal fatto in sè dell’assunzione dell’obbligazione di rincaro degli interessi …omissis…nè dalla mera prospettazione che tale obbligazione sarebbe stata assunta allo scopo di evitare la vendita degli immobili pignorati (che costituisce la finalità tipica dell’esecuzione forzata)”; ha inoltre sottolineato l’irrilevanza della presentazione dell’esposto in sede penale, non essendo noto neanche l’esito degli accertamenti eventualmente disposti in tale sede.

4.2.- Premesso che risulta priva di giuridico fondamento la deduzione della nullità del contratto per illiceità della causa o contrarietà a norme imperative, dato che il c.d. reato-contratto potrebbe tutt’al più comportare l’annullabilità, non la nullità del contratto (cfr. Cass. n. 7322/86, n. 26172/07, n. 13566/08, n. 7468/11), in merito alla dedotta annullabilità per violenza od, in subordine, per dolo, si osserva quanto segue.

Con riguardo alla norma dell’art. 1438 cod. civ., va ribadito che la minaccia di far valere un diritto assume i caratteri delle violenza morale, invalidante il consenso prestato per la stipulazione di un contratto, ai sensi dell’art. 1438 cod. civ., soltanto se è diretta a conseguire un vantaggio ingiusto; il che si verifica quando il fine ultimo perseguito consista nella realizzazione di un risultato che, oltre ad essere abnorme e diverso da quello conseguibile attraverso l’esercizio del diritto medesimo, sia anche esorbitante ed iniquo rispetto all’oggetto di quest’ultimo, e non quando il vantaggio perseguito sia solo quello del soddisfacimento del diritto nei modi previsti dall’ordinamento (cfr. Cass. 24 luglio 1993, n. 8290; 16 luglio 1996, n. 6426; 20 dicembre 2005, n. 28260).

Nel caso di specie, l’asserita minaccia sarebbe consistita nel prospettare l’eventualità che, in mancanza di accordi sulla dilazione di pagamento, la banca avrebbe insistito nell’azione esecutiva in essere, non richiedendo un rinvio della vendita già fissata; gli esecutati, pertanto, si sarebbero indotti a stipulare la convenzione per evitare la vendita “imminente”.

La valutazione in termini di ingiustizia non può essere riferita all’esercizio dell’azione esecutiva in sè considerata, malgrado i ricorrenti abbiano sostenuto che le procedure esecutive sarebbero state “artificiosamente tenute in vita” dalla Banca, pur avendo questa ottenuto il ripianamento integrale dell’esposizione debitoria da parte di entrambi i mutuatari.

Orbene, è da escludere che l’assunto difensivo appena riportato -sul quale i ricorrenti insistono anche al fine di censurare la motivazione che, a loro dire, avrebbe trascurato di considerare la circostanza, avente carattere decisivo- sia coerente con le risultanze processuali. Risulta infatti dall’intero impianto della sentenza impugnata, ma anche dagli scritti di parte (compreso il controricorso: cfr. pag. 2), che alla data del 13 febbraio 1984, quando venne stipulata la convenzione della cui validità si tratta, pur avendo i mutuatari corrisposto dei pagamenti parziali, non avevano ancora interamente adempiuto i propri debiti, e fossero ancora debitori per una parte della sorte capitale, sulla quale si convenne di applicare il maggior tasso di interesse: infatti, risulta che l’importo di L. 106.300.000 venne complessivamente corrisposto soltanto a seguito di ulteriori pagamenti, tutti successivi alla stipula della convenzione (precisamente L. 25 milioni in data 13 aprile 1984, L. 11.300.000 in data 10 maggio 1985 e L. 25 milioni in data 31 ottobre 1985); risulta altresì che soltanto a far data dal 13 aprile 1984 insorse in capo ai coniugi B. – F. il credito di restituzione di L. 2.286.457 (a fronte di un pagamento di L. 25 milioni in pari data) e soltanto a far data dal 31 ottobre 1985 insorse in capo a F.G. il credito di restituzione di L. 6.756.653 (a fronte degli ulteriori pagamenti del 10 maggio 1985 e del 31 ottobre 1985); inoltre, alla data del 13 febbraio 1984 vi erano ancora da pagare le spese sostenute dall’istituto di credito per i due processi esecutivi.

Si deve perciò ritenere che alla data del 13 febbraio 1984 (quando venne stipulata la convenzione) sussistessero ancora crediti dei mutuatari sia per capitale (dovendosi ragionevolmente escludere -ed in difetto di prova contraria, che sarebbe stato onere degli opponenti fornire-che tutto quanto successivamente versato dopo detta data fosse imputabile al maggior credito per interessi conseguente alla convenzione: si trattò infatti di un’ ulteriore somma complessiva di L. 61.300.000, di cui soltanto la somma complessiva di L. 9.043.110 – L. 2.286.457 + L. 6.756.653 – risultò essere stata versata indebitamente) che per interessi (al tasso originario dell’8- 9%) e per spese di entrambe le procedure esecutive.

Allorquando il credito portato dal titolo esecutivo posto a base del pignoramento ed il credito per le spese della procedura esecutiva non siano stati interamente soddisfatti, con pagamenti effettuati nel corso del processo esecutivo, è legittima la prosecuzione dell’azione esecutiva, anche qualora sussista una sproporzione tra il valore dei beni pignorati ed il credito residuo -fatto salvo il ricorso al rimedio tipico della riduzione del pignoramento in presenza dei presupposti dell’art. 496 cod. proc. civ..

Pertanto si deve ritenere che la Banca, nel proseguire l’azione esecutiva, abbia esercitato un diritto effettivamente spettante.

4.3.- Resta da verificare, se di tale diritto la Banca si sia avvalsa al fine di perseguire vantaggi ingiusti ex art. 1438 cod. civ..

Questi vantaggi indebiti sarebbero conseguiti, secondo i ricorrenti, alle condizioni che si assumono essere state “imposte” ai debitori per ottenere la dilazione di pagamento del residuo credito già scaduto. Orbene, la concessione della dilazione di pagamento, nel contesto di trattative volte a consentire al debitore esecutato di ripianare i propri debiti evitando l’esito fisiologico della procedura esecutiva, non può in sè reputarsi iniqua, soltanto perchè ottenuta a fronte del riconoscimento di un rincaro del tasso di interessi da calcolare sulle somme ancora dovute: si tratta infatti di una concessione da parte dei debitori esecutati che va posta in rapporto di reciprocità con la concessione della dilazione di pagamento da parte dell’istituto di credito, dovendosi riconoscere natura transattiva al relativo accordo tra le parti.

E’ perciò da escludere che, in astratto, il risultato conseguibile con tale accordo sia abnorme rispetto a quello conseguibile attraverso l’esercizio dell’azione esecutiva, o comunque esorbitante ed iniquo rispetto al compimento di questa, che avrebbe potuto portare alla vendita dei beni dei debitori; e, come detto, tale vendita sarebbe stata conforme a quanto previsto dall’ordinamento riguardo ai presupposti ed alle condizioni dell’azione esecutiva.

Quanto alla valutazione in concreto della condotta tenuta dall’istituto di credito nel condurre le trattative di cui sopra, sia il giudice di primo grado che il giudice d’appello, compiendo una valutazione di fatto loro riservata (cfr. Cass. n. 999/03; n. 16179/04; n. 3388/07), hanno ritenuto che le condizioni imposte per la rinegoziazione del debito non fossero in sè illecite. In particolare, il giudice d’appello ha ritenuto che -a prescindere dagli elementi di cui si è già detto e tutti considerati nella motivazione della sentenza impugnata- non fossero stati forniti dagli opponenti ulteriori elementi atti a dimostrare che la volontà degli esecutati fosse stata coartata per il tramite di vere e proprie minacce, diverse da quella di fare valere i diritti di cui sopra.

Orbene, poichè dinanzi a questa Corte i ricorrenti si sono limitati a ribadire la sussistenza dei medesimi elementi già considerati dal giudice di merito e poichè la considerazione di questi elementi, in fatto riservata al giudice di merito, è risultata, in diritto, conforme all’interpretazione della norma dell’art. 1438 cod. civ., sopra riproposta, deve escludersi che sussistano i vizi di violazione di legge e di erroneità ed insufficienza della motivazione così come denunciati.

4.4. – Analogamente deve concludersi anche con riferimento alla dedotta annullabilità della convenzione ex art. 1439 cod. civ., poichè risulta da quanto detto sopra che i ricorrenti non furono indotti a credere con artifici e raggiri che fossero ancora debitori dell’istituto di credito, ma, alla data della stipulazione, risultavano essere ancora effettivamente in debito.

Nè i ricorrenti hanno indicato elementi trascurati dal giudice di merito atti a comprovare l’inesistenza di qualsivoglia loro credito alla data anzidetta, quindi idonei a determinare una decisione diversa da quella adottata, vale a dire elementi probatori contrastanti con le risultanze probatorie sulle quali invece la Corte d’Appello ha fondato il proprio convincimento (cfr., tra le altre, Cass. n. 14304/2005, n. 5473/2006, n. 21249/2006, n. 9245/2007).

Va perciò rigettata anche la censura subordinata concernente l’annullabilità della convenzione per essere stato il consenso dei mutuatari viziato dal dolo della controparte.

5.- Va detto a questo punto dei motivi sesto e settimo del ricorso incidentale, poichè la decisione sugli stessi è strettamente connessa a quanto detto sopra in tema di legittimità dell’accordo del 13 febbraio 1984 e della prosecuzione delle procedure esecutive.

Col sesto motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2913 e 2059 cod. civ. e art. 96 cod. proc. civ., comma 2, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, nonchè violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, per insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. I ricorrenti censurano la sentenza impugnata relativamente alla statuizione di rigetto della loro domanda di risarcimento danni, avanzata nei confronti dell’istituto di credito nel presupposto che questo abbia prodotto “danni patrimoniali, morali e non patrimoniali, conseguenti al blocco dei beni pignorati, senza titolo e senza ragione per almeno quindici anni”; aggiungono che la domanda di risarcimento dei danni morali troverebbe titolo nella condotta illecita della Banca pignorante in quanto integrante gli estremi dei reati di truffa aggravata e di estorsione.

5.1.- Con riferimento a tale secondo titolo di responsabilità, è corretta, e coerente con le risultanze di cui sopra, la motivazione della sentenza impugnata secondo cui non sono stati forniti in giudizio elementi utili a dimostrare la sussistenza dei reati denunciati, nè è stato reso noto l’esito dell’esposto presentato in sede penale.

5.2.- Con riferimento alla domanda di risarcimento degli altri danni che sarebbero conseguiti all’illegittima protrazione delle due procedure esecutive, va ribadita la giurisprudenza di questa Corte secondo cui nel sistema attuale non esiste concorso tra l’azione generale risarcitoria indicata dall’art. 2043 cod. civ. e quella speciale di risarcimento del danno per responsabilità processuale aggravata (cfr. Cass. n. 12641/92 e numerose altre) e quindi la pretesa dei ricorrenti deve essere interamente inquadrata nell’art. 96 cod. proc. civ., comma 2, che disciplina, tra l’altro, la responsabilità aggravata del creditore che ha iniziato o compiuto l’esecuzione forzata in relazione ad un diritto inesistente.

In questa ipotesi, diversamente da quanto stabilito dall’art. 96, comma 1, ritiene sufficiente il difetto della normale prudenza del creditore. Pertanto, il giudice civile, investito della domanda di risarcimento del danno che si assume derivante dal mantenimento in vita di un’azione esecutiva immobiliare deve compiere un duplice accertamento: che il titolo esecutivo sia venuto meno; che il creditore abbia agito nel corso dell’intero processo esecutivo senza rispettare la regola della normale prudenza, che si identifica anche con la colpa lieve (così, in motivazione, Cass. n. 342/96).

5.3.- Tenuto conto dei principi appena espressi, e dell’illustrazione dei motivi di ricorso, la motivazione della sentenza impugnata va parzialmente corretta, ma non cassata, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., u.c., secondo quanto appresso.

L’affermazione dei ricorrenti dell’illegittima prosecuzione dell’azione esecutiva è smentita nella stessa sentenza impugnata con riferimento alla procedura esecutiva n. 7/82, per la quale è dato atto che già in data 7 aprile 198 6 venne ordinata la cancellazione della trascrizione del pignoramento.

Pertanto, rimase pendente soltanto la procedura esecutiva n. 6/82, che era relativa all’esposizione debitoria del solo F. G., sicchè, al più, soltanto quest’ultimo potrebbe aver sofferto danni risarcibili ex art. 96 cod. proc. civ., comma 2.

Sostengono i ricorrenti che la procedura esecutiva n. 6/82 avrebbe dovuto essere dichiarata estinta, con conseguente ordine di cancellazione del pignoramento, già nel 1985 (ed è da ritenere, dopo il 13 ottobre 1985, data dell’ultimo versamento considerato nella CTU richiamata dai ricorrenti). Pertanto, ascrivono a responsabilità dell’istituto di credito mutuante la pendenza del processo esecutivo fino alla sentenza di primo grado, che il 27-30 settembre 1999 ne dichiarò l’estinzione. I danni, secondo i ricorrenti, sarebbero consistiti nell’indisponibilità dei beni pignorati e nell’intervento in sede esecutiva di un altro creditore, sig. R.C., in data 9 febbraio 1987, che non avrebbe potuto.essere soddisfatto proprio a causa dell’immobilizzazione dei loro cespiti.

Orbene, pur non essendo condivisibile l’argomento della motivazione – che perciò va corretta- secondo cui il pignoramento non comporterebbe l’indisponibilità dei beni pignorati, essendo invece propria questa la funzione tipica del vincolo ex art. 2913 cod. civ., va evidenziato che non è questo il solo argomento utilizzato dalla Corte di merito per rigettare la domanda risarcitoria degli opponenti.

Infatti, il primo argomento di cui questa si è avvalsa è costituito dalla “genericità dei fatti posti a fondamento della domanda”, tale da non consentire di “individuare un avvenimento specifico utile di valutazione”. Occorre rilevare che il periodo da prendere in considerazione non è quello dei quindici anni intercorsi tra il pagamento risultato essere stato a saldo (in data 13 ottobre 1985) e la pronuncia della sentenza di primo grado che dichiarò l’estinzione della procedura esecutiva, ma quello intercorso tra la prima data e la data di intervento nella procedura esecutiva n. 6/82 di altro creditore del F., munito di titolo esecutivo.

Al riguardo, è corretta in diritto ed adeguatamente motivata la sentenza di merito che ha rilevato l’insussistenza del nesso di causalità tra la pendenza della procedura esecutiva ed il danno che sarebbe conseguito al mancato soddisfacimento del creditore in essa intervenuto, poichè, risultando essere un creditore munito di titolo esecutivo -come pure rilevato nella sentenza impugnata- egli avrebbe comunque potuto far valere altrimenti la propria pretesa creditoria nei confronti del F., ed occorre aggiungere che ben poteva proseguire l’azione esecutiva iniziata col pignoramento da parte della Banca procedente.

Pertanto, il fatto addebitabile a titolo di responsabilità aggravata a quest’ultima si riduce alla mancata presentazione della rinuncia alla procedura esecutiva nel periodo compreso tra il 13 ottobre 1985 ed il 9 febbraio 1987 (quando vi intervenne l’altro creditore munito di titolo). Con riguardo a tale periodo, i ricorrenti avrebbero dovuto allegare, e quindi porre a fondamento della domanda, non genericamente, come hanno fatto (secondo quanto rilevato dalla Corte d’Appello), ma specificamente, che la banca avesse agito senza la normale prudenza, vale a dire che avesse mantenuto il vincolo sui beni pur essendo consapevole di essere stata interamente soddisfatta oppure malgrado avesse dovuto acquisire tale consapevolezza usando l’ordinaria diligenza. Non solo tale allegazione, e la relativa dimostrazione, sono mancate, ma le stesse vicende processuali, specificamente quelle relative al primo grado di giudizio, quanto meno fino al deposito della consulenza tecnica integrativa (in data 11 dicembre 1993), dimostrano come i rapporti di dare-avere tra le parti (in ragione della molteplicità delle rimesse in acconto effettuate dai debitori e delle contestazioni in punto di imputazione dei pagamenti, nonchè in ragione della rinegoziazione intervenuta nelle more; ed, ancora, in ragione della mancata liquidazione delle spese dei due processi esecutivi) fossero effettivamente incerti e come tali dovessero ritenersi nel periodo rilevante per la valutazione della responsabilità aggravata ex art. 96 cod. proc. civ..

La statuizione di rigetto della domanda risarcitoria contenuta nella sentenza di secondo grado è perciò conforme al diritto.

6.- Con i restanti tre motivi di ricorso illustrati tutti sotto la lettera B, i ricorrenti incidentali censurano le statuizioni della sentenza d’appello relative alla liquidazione delle spese della procedura esecutiva n. 6/82.

6.1.- I primi due motivi sono inammissibili per la novità delle questioni poste (violazione degli artt. 94, 510, 611, 614 in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, in punto di liquidazione delle spese del procedimento esecutivo da parte del giudice dell’opposizione; violazione dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 2 e 4, incompetenza del giudice dell’opposizione e nullità della relativa liquidazione).

Nell’illustrare i motivi di ricorso, i ricorrenti affermano che “con il terzo motivo di appello gli appellanti si dolevano del fatto che il primo giudice avesse provveduto a liquidare le spese del procedimento esecutivo 7/82 – già cancellata- e 6/82, tenuta in vita e dichiarata estinta solo con la sentenza di primo grado”: da questa riproduzione del motivo d’appello non si desume affatto quali fossero le ragioni di doglianza degli appellanti; in particolare, non si desume che queste avessero ad oggetto proprio la questione che oggetto dei motivi di ricorso per cassazione.

Inoltre, non risulta nemmeno dalla sentenza impugnata che con l’atto di appello fosse stato censurato il dictum del giudice di primo grado in punto di spese delle due procedure esecutive perchè pronunciato da giudice incompetente, per essere la liquidazione delle spese del processo esecutivo riservata al giudice dell’esecuzione: dalle conclusioni riportate alla pag. 2 della sentenza risulta che la doglianza relativa alla liquidazione delle spese della procedura esecutiva n. 6/82 era limitata al fatto che le spese liquidate fossero “ingiustificate ed esose”; a tali conclusioni corrisponde la motivazione della sentenza alle pagine 8-10.

Non essendo stata dedotta ed indicata in ricorso l’avvenuta proposizione del corrispondente motivo di appello, la questione oggetto dei motivi di ricorso in esame è da ritenersi già preclusa in secondo grado e quindi inammissibile in cassazione.

7.- Va detto infine del motivo di ricorso incidentale (che è indicato per terzo sotto la lettera B), con cui si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.M. 31 ottobre 1985 (tariffe forensi 1985), in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, in punto di liquidazione dell’onorario del processo esecutivo:

sostengono i ricorrenti che l’importo di Euro 461,45 liquidato dalla Corte d’Appello sarebbe eccessivo perchè, anche applicando la tariffa del 1985, l’importo massimo liquidabile sarebbe stato quello di Euro 367,72.

7.1.- Il motivo è inammissibile perchè fa riferimento alle tariffe per la voce “Procedimenti speciali, procedure esecutive e tavolari” e sottovoce “procedure esecutive immobiliari” davanti ai Tribunali relativamente allo scaglione compreso tra L. 10.000.000 e L. 50.000.000, senza specificare quale fosse il valore della procedura esecutiva del cui onorario si tratta. Pertanto, il motivo è in sè privo di autosufficienza.

8.- La reciproca soccombenza rende legittima la compensazione integrale delle spese di giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, principale ed incidentale, li rigetta.

Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2011

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