Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17520 del 02/09/2016


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Cassazione civile sez. II, 02/09/2016, (ud. 13/07/2016, dep. 02/09/2016), n.17520

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18430/2012 proposto da:

G.K.J., S.A., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato

LUIGI MANZI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

REINHART VOLGGER giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

Z.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASSIODORO, 19,

presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO CALO’, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato CHRISTOPH SENONER in virtù di

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 14/2012 della CORTE D’APPELLO SEZ.DIST. DI di

BOLZANO, depositata il 28/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/07/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Luigi Manzi per i ricorrenti e l’Avvocato Maurizio

Calò per la controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In data 24/7/1992 decedeva ab intestato P.J., ed allo stesso succedeva, tra gli altri, anche Z.P., che nel corso degli anni si rendeva acquirente della maggior parte delle quote ereditarie, divenendo quindi titolare di una quota pari a 50/58 dell’asse comprendente l’intera P.T. 51/11 CC S. Valburga, e cioè un fondo agricolo con diverse particelle edificate e fondiarie, oltre inventario ed accessori.

Nel 1998 la Z. intraprendeva un giudizio di scioglimento della comunione convenendo in giudizio, oltre al coerede A.A., i coniugi G.K.J. e S.A., che avevano acquisito una quota ereditaria giusta atto di compravendita intervenuto con tre coeredi in data 22 luglio 1996.

Il Tribunale di Bolzano all’esito del giudizio di primo grado provvedeva allo scioglimento della comunione, reputando il bene non comodamente divisibile ed assegnandolo per intero ex art. 720 c.c., all’attrice, ma all’esito del giudizio di appello, la Corte di Appello di Trento – sezione Distaccata di Bolzano, riteneva i beni divisibili, assegnando una quota in natura ad ognuno dei condividenti. Tale sentenza è stata oggetto di ricorso in cassazione il quale è stato dichiarato improcedibile con la sentenza di questa Corte n. 13422/2013.

Nelle more del giudizio di appello, con altro atto di citazione notificato in data 11/10/2005, Z.P. conveniva in giudizio sempre dinanzi al Tribunale Bolzano i coniugi G. – S., dichiarando che intendeva esercitare il retratto successorio relativamente all’atto di vendita del 19 gennaio 1996, assumendo altresì che tale atto era relativamente simulato quanto all’indicazione del corrispettivo pattuito.

Il Tribunale adito con la sentenza n. 1184 del 28/10/2009 rigettava la domanda, e traendo spunto da quanto sostenuto dalla Corte d’Appello nell’ambito del giudizio di divisione, laddove aveva disatteso la richiesta dell’attrice di disporre la sospensione del giudizio in attesa della definizione della domanda relativa al retratto successorio, concludeva per l’inammissibilità della domanda in quanto in contraddizione irresolubile con la previa proposizione della domanda di divisione, che ben poteva essere interpretata alla stregua di una tacita rinuncia al diritto al retratto.

La Corte d’Appello di Trento – Sezione distaccata di Bolzano, adita su iniziativa della Z., con la sentenza n. 14 del 28 gennaio 2012, in riforma della decisione impugnata, riconosceva il diritto dell’attrice ad esercitare il diritto di cui all’art. 732 c.c., ma, avendo ravvisato la sussistenza del litisconsorzio necessario con i venditori, quanto all’accertamento della simulazione del prezzo della compravendita, rimetteva la causa al Tribunale limitatamente a tale accertamento.

Rilevava la Corte distrettuale che non era condivisibile la conclusione del Tribunale secondo cui sarebbe intervenuta una tacita rinunzia al diritto di retratto, in conseguenza della proposizione della domanda di divisione, in quanto sebbene la rinuncia de qua possa essere tacita, è necessario che il comportamento dal quale si pretende di ricavarla sia connotato da univocità.

Nella vicenda in esame, la sola richiesta di procedere giudizialmente alla divisione non permetteva di inferire una volontà tacita di rinuncia.

Inoltre, essendo controversa la reale entità del prezzo versato per l’acquisto delle quote da parte dei convenuti, ad avviso della sentenza d’appello, l’incertezza sul punto rendeva nulla anche la rinuncia, ove se ne fosse ravvisata l’esistenza, per l’indeterminatezza dell’oggetto, in quanto anche la validità della rinuncia è subordinata alla effettiva e completa conoscenza di tutte le condizioni della vendita.

Quanto alla possibilità di invocare il divieto di protestatio contra factum proprium, osservava la Corte bolzanina che tale istituto trova riscontro solo in specifiche previsioni di diritto positivo, come ad esempio nell’ipotesi di cui all’art. 329 c.p.c..

Passando al merito della pretesa esercitata, rilevava che gli immobili di cui si faceva menzione nell’atto di cessione delle quote esaurivano quasi completamente il valore dell’eredità del P., dovendosi ritenere che il bestiame ed i macchinari agricoli ed un credito esigibile di Lire 12.000.000 fossero stati trasferiti unitamente agli immobili, trattandosi in sostanza di accessori del maso.

Per quanto atteneva agli altri immobili caduti in successione, si evidenziava che erano di esiguo valore, rapportati agli immobili oggetto della cessione, e che in ogni caso erano stati già promessi in vendita dal de cuius allorchè era ancora in vita, con un corrispettivo già in buona parte versato dal promittente acquirente, così che doveva concludersi nel senso che l’eredità in realtà si componeva dei soli immobili oggetto dell’atto per cui era causa.

A favore di tale conclusione deponevano poi:

– la clausola “x” del contratto di compravendita nella quale si prevedeva il diritto dei compratori alla restituzione del prezzo entro 10 giorni dalla decisione giudiziaria di accoglimento della domanda di prelazione avanzata da altro comproprietario;

– il mandato irrevocabile con il quale due dei venditori avevano delegato il loro fratello ad occuparsi delle diverse questioni concernenti l’eredità del P., nel cui testo vi era una sostanziale equivalenza tra l’eredità e la proprietà del maso di cui all’atto di cessione di quote;

– la dichiarazione supplementare al preliminare intercorso tra Z.J. e Z.M. e Mo., danti causa dei convenuti, la quale faceva riferimento in maniera indifferenziata all’eredità del P..

Quindi richiamando i precedenti giurisprudenziali di legittimità che hanno dettato i criteri per distinguere la cessione di quota ereditaria dalla cessione di singoli beni ereditari, concludeva nel senso che la cessione aveva avuto ad oggetto le quote ereditarie, sicchè l’attrice era legittimata ad avvalersi della previsione di cui all’art. 732 c.c., occorrendo tuttavia rimettere la causa in primo grado per procedere all’accertamento, in contraddittorio anche con i venditori, dell’effettiva misura del prezzo di cessione.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso G.K.J. e S.A. sulla base di sei motivi.

Z.P. ha resistito con controricorso.

Le parti hanno altresì depositato memorie nell’imminenza dell’udienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 324 c.p.c., in combinazione con gli artt. 329, 333 e 334 c.p.c..

Si sostiene che la sentenza impugnata, avendo affermato che la precedente proposizione della domanda di divisione da parte dell’attrice non poteva essere qualificata come rinuncia tacita al retratto successorio, trascurava il fatto che si era venuto a formare un giudicato implicito sulla situazione di comproprietà, come venutasi a determinare a seguito dell’atto di compravendita in favore dei ricorrenti.

Infatti, nel giudizio di scioglimento della comunione, la sentenza di primo grado aveva attribuito l’intera proprietà alla Z. sul presupposto della non comoda divisibilità del bene, e la sentenza de qua era stata appellata solo dai ricorrenti, di guisa che la mancata contestazione da parte dell’appellata circa l’esistenza di una situazione di comproprietà aveva portato alla formazione di un giudicato implicito su tale punto, giudicato che non poteva essere più posto in contestazione mediante la successiva proposizione della domanda oggetto del presente giudizio.

Con il secondo motivo di ricorso si lamenta ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio rappresentato dalla rinuncia tacita al retratto successorio ovvero al diritto di prelazione, nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e segg., in relazione al disposto di cui all’art. 1324 c.c..

Rileva parte ricorrente che la sentenza impugnata avrebbe fatto leva essenzialmente su quanto affermato da Cass. n. 1537/73, che impone una rigorosa valutazione del comportamento della parte dal quale inferire la volontà di rinuncia. Partendo da tale assunto aveva poi osservato che, se nemmeno la riserva di esercitare il retratto successorio in ipotesi di un determinato esito del procedimento di divisione, non implica rinuncia all’esercizio del retratto, anche nell’ipotesi contraria, ed a maggior ragione, non è possibile interpretare come rinuncia tacita, l’introduzione del giudizio di divisione senza alcuna ulteriore specificazione.

Si lamenta che la Corte distrettuale non avrebbe adeguatamente valutato il comportamento dell’attrice successivo all’emanazione della sentenza del Tribunale sulla domanda di divisione, ed in particolare l’acquiescenza dalla stessa prestata all’accertamento della situazione di comproprietà.

Inoltre non si sarebbe tenuto conto del fatto che la domanda di retratto era stata proposta a distanza di anni da quella di divisione.

Con il terzo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1346 c.c., in relazione alle previsioni di cui agli artt. 1418, 1324 c.c. e art. 1415 c.c., comma 2, nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa il fatto decisivo e controverso rappresentato dalla valida rinuncia al diritto di prelazione ovvero al retratto.

La Corte di Appello ha infatti ritenuto che la rinuncia sarebbe in ogni caso invalida per indeterminatezza dell’oggetto, in quanto, richiamando a tal fine quanto affermato da Cass. n. 624/94 – che ha sostenuto che la rinuncia preventiva al diritto di prelazione è valida anche prima della ricezione della denuntiatio, purchè il rinunciante sia comunque a conoscenza delle precise condizioni dell’alienazione – essendo stato posto in contestazione, mediante la richiesta di accertamento della simulazione del prezzo, l’effettivo ammontare di quest’ultimo, e cioè di una delle condizioni essenziali per l’esercizio del retratto, la rinuncia era da ritenersi in ogni caso affetta da nullità.

Assumono i ricorrenti che tale tesi non è sostenibile, posto che il precedente di legittimità richiamato fa riferimento ad una rinuncia ad una futura alienazione, laddove nel caso in esame, la rinuncia aveva ad oggetto una vendita già avvenuta. Inoltre non si presentava alcun profilo di indeterminatezza, occorrendo richiamare quanto già esposto in ordine all’accertamento incontestabile della situazione di comproprietà in conseguenza della proposizione della domanda di divisione.

Inoltre il profilo relativo alla simulazione del prezzo era del tutto irrilevante, in quanto sebbene i terzi possano fare valere la detta simulazione, ciò non è possibile allorchè abbiano già rinunciato al diritto in funzione del quale viene richiesto l’accertamento de quo.

Con il quarto motivo di ricorso si lamenta l’insufficiente e contraddittoria motivazione in merito ad un fatto decisivo e controverso, nonchè la violazione dell’art. 329 c.p.c., in relazione agli artt. 333 e 334 c.p.c..

nfatti, la Corte di appello avrebbe escluso la possibilità di invocare il brocardo protestatio contra factum proprium non valet, che invece sarebbe limitato ai soli casi espressamente previsti da parte del legislatore.

In realtà, nel caso in esame si sarebbe venuta a configurare proprio l’acquiescenza dell’attrice alla statuizione concernente l’esistenza di una comproprietà sui beni oggetto di causa.

Con il quinto motivo si lamenta la violazione del principio generale del divieto di abuso del diritto.

Dopo avere richiamato i principi espressi dalle sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 20106/2009, si sostiene che la proposizione della domanda di retratto, solo allorchè nell’ambito del preesistente giudizio di divisione, si intravedeva la possibilità di un esito non favorevole alle proprie attese, equivale ad abuso del diritto, occorrendo altresì evidenziare che in tal modo l’attrice aveva provveduto ad un frazionamento di processi del tutto inammissibile, essendosi in ogni caso in presenza di diritti autodeterminati.

Con il sesto motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 732 c.c. e degli artt. 1362, 1363 e 1364 c.c., nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione su di una questione controversa e decisiva relativa alla esatta portata del contratto di compravendita del 22 luglio 1996.

Si assume che la sentenza gravata ha ritenuto che il contratto avesse in realtà ad oggetto l’alienazione della quota ereditaria e non delle quote su singoli beni ereditari violando le regole di ermeneutica contrattuale, attingendo essenzialmente non già al contenuto del contratto, quanto ad atti ad esso estranei, quali una missiva intercorsa tra le parti venditrici ovvero la dichiarazione aggiuntiva al contratto preliminare sempre concluso tra tali parti.

Inoltre anche la lettura del testo contrattuale trascurava che degli altri beni immobili non era dato disporre, essendo già intervenuta sentenza di primo grado ex art. 2932 c.c., in favore del prominente acquirente.

Infine nemmeno rilevante appariva la clausola “x” del contratto, essendo stata inserita nel timore di azioni ex art. 732 c.c., ma senza che possa effettivamente esprimere la convinzione delle parti circa il fatto che la vendita rientrasse nell’ambito di applicazione di tale norma.

Infine la motivazione sarebbe contraddittoria, nella parte in cui non ha considerato l’esistenza di un credito ereditario pari a Lire 12.000.000, escluso dalla vendita, nonchè il credito derivante dal trasferimento dei beni in esecuzione del contratto preliminare concluso in vita dal de cuius.

2. Il primo motivo di ricorso è infondato e deve essere disatteso.

Il ragionamento dei ricorrenti appare inficiato dall’erronea considerazione secondo cui la proposizione della domanda ex art. 732 c.c., implicherebbe la negazione dell’esistenza di un diritto di comproprietà in capo ai destinatari dell’azione, e quindi implicherebbe la negazione di una situazione di comunione, sulla quale si sarebbe venuto a formare il giudicato implicito, stante la mancata impugnazione da parte della controricorrente della sentenza emessa in primo grado dal Tribunale sulla domanda di divisione dalla medesima proposta.

La tesi non convince.

Ed, infatti, oltre ad apparire come una diversa prospettazione dell’opinione secondo cui la proposizione della domanda di divisione, prima di quella di retratto equivarrebbe ad una rinuncia quantomeno implicita alla seconda, tesi che è riproposta nei successivi motivi di ricorso, la stessa non tiene conto della evidente considerazione che entrambe le domande de quibus presuppongono la piena validità ed efficacia dell’atto di alienazione delle quota in favore dei ricorrenti, ancorchè mirino ad un risultato, solo in via empirica, suscettibile di poter essere ritenuto identico, essendo ben diversi gli effetti ed i presupposti delle stesse.

E’ indubbio che richiedere lo scioglimento della comunione presuppone che l’atto con il quale gli altri comunisti siano entrati a far parte della comunione, sia ritenuto valido, ma altrettanto deve dirsi per la domanda di riscatto esercitata ex art. 732 c.c..

A tal fine deve ricordarsi che secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l’esercizio del retratto successorio comporta la sostituzione all’acquirente del coerede retrattante (Cass. n. 5374/1993) dando vita ad un fenomeno di surrogazione soggettiva legale con efficacia ex tunc, sicchè la produzione di tale effetto legale presuppone a monte la validità del contratto nel quale viene ad essere surrogato il coerede.

E’ quindi evidente che in tanto può invocarsi il diritto di cui all’art. 732 c.c., in quanto l’atto di alienazione sia valido, sicchè, laddove non venga esercitato tale diritto, che ha contenuto ed effetti diversi da quello che consente di ottenere lo scioglimento della comunione, l’acquirente della quota ereditaria deve ritenersi a tutti gli effetti subentrato nella comunione.

In tal senso si veda, oltre alla dottrina quasi unanime, nella giurisprudenza meno recente della Corte, Cass. n. 1066/1959, secondo la quale il negozio con il quale il coerede che abbia alienato la quota ed il terzo acquirente dichiarino la nullità e l’originaria inefficacia del negozio traslativo tra di loro intervenuto, può essere idoneo a reintegrare ex tunc e con effetti reali, il coerede nella comunione ereditaria, e quindi a determinare il sopravvenuto difetto delle condizioni dell’azione esperita ex art. 732 c.c., da parte di altro coerede, solo quando il contratto abbia portata ricognitiva di una causa di nullità o di originaria inefficacia del contratto, tassativamente stabilita dalla legge (operando in caso contrario solo tra le parti, e non essendo quindi opponibile al retrattante).

E’ palese quindi che l’affermazione con sentenza passata in cosa giudicata dell’esistenza di una comunione tra i coeredi e gli eventuali acquirenti di una quota ereditaria non è logicamente incompatibile con la richiesta di esercitare lo jus retractionis, e non può quindi reputarsi preclusiva della disamina di tale ultima domanda.

Analogamente deve escludersi che il passaggio in giudicato della sentenza che abbia disposto la divisione (il cui giudizio era tuttavia ancora pendente alla data di proposizione della domanda di retratto) risulti preclusivo rispetto alla disamina della domanda avanzata ex art. 732 c.c., posto che l’accoglimento di quest’ultima, determinerebbe non già la sopravvenuta perdita di efficacia della pronuncia sulla divisione, quanto piuttosto il verificarsi di un fenomeno, in ragione del subentro della retrattante nella posizione dei ricorrenti nella loro diversa qualità di condividenti, assimilabile quoad effectum, ad una sorta di confusione, in quanto i beni da dividere in realtà si appartenevano, in conseguenza dell’accoglimento della domanda di retratto, ad un unico soggetto.

3. Anche il secondo motivo di ricorso deve essere disatteso.

Le suesposte considerazioni in merito alla inidoneità del giudicato formatosi sull’esistenza della comunione, a precludere l’esercizio del retratto, rendono in primo luogo evidente l’inconsistenza delle doglianze con le quali si intende censurare la sentenza impugnata nella parte in cui non avrebbe tenuto conto ai fini della valutazione del comportamento dell’attrice, della mancata impugnazione della sentenza del Tribunale che si era pronunziata in primo grado sulla domanda di scioglimento della comunione.

Del pari rendono contezza dell’impossibilità di poter affermare un’aprioristica incompatibilità tra la previa richiesta di scioglimento della comunione e la successiva richiesta di avvalersi della previsione di cui all’art. 732 c.c., le puntuali considerazioni del giudice di appello.

Ed, infatti, come ribadito anche di recente da questa Corte (Cass. n. 2159/2014) ancorchè le facoltà che l’art. 732 c.c., attribuisce al coerede siano disponibili (cfr. altresì Cass. 11.3.1975, n. 900, secondo cui il diritto di retratto previsto dall’art. 732 c.c., comma 1, configura un diritto pienamente disponibile attribuito al coerede non alienante il quale può validamente rinunciarvi espressamente o tacitamente, senza l’osservanza di forme solenni, giacchè, trattandosi di mera dismissione abdicativa di un diritto concesso dalla legge al coerede, non ricorre alcuna delle ipotesi per cui l’art. 1350 c.c., richiede la forma scritta; in termini Cass. 26.7.1974, n. 2272), è tuttavia necessario che, ove si invochi una rinuncia per fatta concludentia, l’indagine riservata al giudice del merito, circa la concludenza del comportamento, deponga in maniera inequivoca per la sussistenza di una volontà abdicativa.

In tale prospettiva, la Corte distrettuale si è posta in linea con quanto affermato da Cass. n. 1537/73, che, riprendendo la regola della superfluità di una rinuncia espressa, ha ribadito l’esigenza di una rigorosa valutazione, del comportamento dal quale si vuole inferire la volontà di rinunziare, ed aveva concluso nel senso che, qualora alcuni coeredi in un giudizio di divisione si siano riservati l’esercizio del retratto successorio, già esercitato in altra sede da altro coerede, nel solo caso in cui l’immobile, oggetto della compravendita sottoposto a riscatto, fosse risultato indivisibile, correttamente il giudice dell’azione di riscatto nega che tale riserva costituisca rinunzia all’azione medesima (nella specie, la Corte di Cassazione ha compiuto l’indagine sul contenuto della riserva al fine di accertare se al giudice di merito fosse ascrivibile un difetto di attività ex art. 360 c.p.c., n. 5, per non aver sospeso il processo in attesa dell’accertamento sulla divisibilità dell’immobile nel giudizio di divisione).

Orbene, come si ricava dalla lettura del precedente ora citato, la verifica circa l’univocità del comportamento del preteso rinunziante può essere compiuta dalla Corte di cassazione solo sotto il limitato profilo del vizio motivazionale, trattandosi all’evidenza di una valutazione in fatto riservata al giudice di merito.

Ne discende pertanto che le deduzioni di parte ricorrente non possono trovare spazio in questa sede, avendo la Corte distrettuale dato adeguata contezza delle ragioni per le quali non poteva ravvisarsi un’inequivoca volontà di rinuncia in capo all’attrice, essendosi giustamente evidenziato, alla luce anche della fattispecie esaminata nel precedente del 1973, che se la riserva all’esercizio del riscatto formulata in sede di divisione, per una peculiare ipotesi di definizione della divisione, non equivale a rinunzia, a maggior ragione alcuna rinunzia può individuarsi nel caso in cui la domanda di divisione sia proposta in maniera incondizionata.

4. Il rigetto del secondo motivo di ricorso determina poi l’assorbimento del terzo motivo che è finalizzato a contestare la correttezza delle argomentazioni svolte dalla Corte distrettuale, circa la nullità della rinuncia in quanto intervenuta a fronte di una indeterminatezza dell’oggetto, stante la mancata individuazione con precisione dell’entità del prezzo, di cui si assume la natura relativamente simulata.

Tuttavia, trattasi di argomentazioni chiaramente spese ad abundantiam dalla Corte di merito, e che intanto potrebbero costituire una valida ed autonoma ratio decidendi, in quanto sia stata superata a monte l’affermazione secondo cui non è dato ravvisare nella condotta dell’attrice una rinuncia, ancorchè implicita al diritto di cui all’art. 732 c.c..

La conferma della valutazione compiuta al riguardo dalla sentenza impugnata, rende quindi palese l’assorbimento del motivo in esame.

5. Le suesposte argomentazioni circa l’autonomia tra domanda di scioglimento della comunione e domanda ex art. 732 c.c. e la loro piena compatibilità, danno altresì contezza dell’infondatezza del quarto motivo di ricorso che, per aggirare le condivisibili considerazioni della sentenza impugnata, secondo cui non potrebbe attribuirsi valenza generale, al di fuori delle tassative ipotesi previste dal legislatore, al principio “protestati contra factum proprium non valer, sostiene che la vicenda andrebbe ricondotta nell’ambito di applicazione dell’art. 329 c.p.c..

Il ragionamento di parte ricorrente si fonda però sul fatto che l’accoglimento della domanda di divisione, o meglio il riconoscimento non più contestabile dell’esistenza di una comunione, implicherebbe la necessità di una specifica impugnazione onde impedire la preclusione alla successiva proposizione della domanda di retratto, assunto che però non può essere condiviso, essendo quindi escluso che l’invocato brocardo abbia trovato nella fattispecie il conforto di una norma di diritto positivo.

6. Anche il quinto motivo di ricorso non appare meritevole di accoglimento.

Lo stesso, che riproduce in maniera quasi integrale le motivazioni della decisione delle Sezioni unite di questa Corte n. 20106/2009, perviene alla conclusione che la stessa scelta dell’attrice di esercitare il retratto, allorchè aveva già richiesto lo scioglimento della comunione, e precisamente allorchè nel corso del giudizio di appello riguardante tale ultima domanda, iniziava a prospettarsi la possibilità di una divisione in natura, frustrando in tal modo l’obiettivo della Z. di ottenere l’intera proprietà del maso, costituirebbe abuso del diritto.

Sicuramente è da escludersi la fondatezza della deduzione secondo cui l’attrice avrebbe dato vita ad un inammissibile frazionamento del processo, posto che, come appare evidente e come più volte ribadito, la domanda di scioglimento della comunione e quella volta a far valere lo ius prelationis sono del tutto autonome, e che solo in via eventuale possono, ma esclusivamente dal punto di vista empirico, portare al medesimo risultato (nel caso di specie l’accentramento della proprietà dell’intero bene in capo alla controricorrente), restandone però ben distinti gli elementi costitutivi e gli effetti.

Valga a tal fine rilevare che l’attribuzione dell’intera proprietà alla condividente all’esito del giudizio di divisione presuppone che il bene non sia comodamente divisibile, ed impone a colui che sia interessato all’attribuzione dell’intero, il versamento dell’eccedenza calcolata secondo il valore del bene all’epoca della divisione, laddove l’analogo risultato (ma solo dal punto di vista effettuale) conseguibile con l’azione ex art. 732 c.c., oltre a prescindere dalla natura divisibile o meno del bene, presuppone la sostituzione del retrattante nell’originario contratto di vendita, con il conseguente obbligo di corrispondere, non già il controvalore della quota alienata, secondo la stima alla data della divisione, ma nell’esatto ammontare corrispondente al prezzo concordato per la cessione della quota.

Inoltre, e proprio prendendo le mosse dalle condizioni in base alle quali, secondo l’autorevole precedente invocato da parte ricorrente, è dato ravvisare un’ipotesi di abuso del diritto, posto che è incontestato che l’attrice fosse titolare dello ius prelationis e che non esistevano modalità alternative per l’esercizio dello stesso, non è dato ravvisare abuso del diritto nel solo fatto che, perseguendo un risultato in sè consentito, attraverso strumenti giuridici adeguati e legittimi, una parte non tuteli gli interessi dell’altra in sede di esecuzione del contratto, ovvero, come nel caso di specie, mediante l’esercizio di un’azione giudiziale, occorrendo invece che il diritto soggettivo sia esercitato con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti (ex multis, Cass., n. 20106/2009, citata dai ricorrenti in memoria, cui adde Cass., nn. 13208/2010, 22819/2010, 19879/2011; 8567/2012; 10567/2013).

Nel caso di specie deve pertanto escludersi che la successiva proposizione della domanda ex art. 732 c.c., sia avvenuta in vista del conseguimento di risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli previsti dal legislatore, e ciò ancorchè il suo accoglimento possa vanificare gli esiti del giudizio divisionale, essendo tale conclusione connaturata alla diversa natura ed efficacia delle distinte iniziative giudiziarie intraprese dall’attrice.

7. Del pari privo di fondamento risulta, infine il sesto motivo di ricorso, con il quale si denunzia sotto vari profili l’erroneità della valutazione del giudice di appello circa la riconducibilità dell’atto impugnato ad una cessione di quote ereditarie, anzichè ad una cessione di diritti su singoli beni caduti in successione.

Ed, infatti, costituisce orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello per il quale (cfr. ex multis Cass. n. 1852/2006) i diritti di prelazione e di riscatto previsti dall’art. 732 c.c., in favore del coerede postulano un’adeguata valutazione degli elementi concreti della fattispecie, quali la volontà delle parti, lo scopo perseguito, la consistenza del patrimonio ereditario ed il raffronto tra esso e l’entità delle cose vendute, il dato oggettivo assumendo peraltro preponderante rilievo in caso alienazione di quota indivisa dell’unico cespite ereditario (tale rimasto anche a seguito di divisione parziale dei beni ereditari), poichè in tal caso insorge una presunzione di alienazione della quota, intesa come porzione ideale dell'”universum ius defuncti”, sicchè il coerede può esercitare il retratto successorio (conf. Cass. n. 9744/2010). Peraltro (cfr. Cassazione civile sez. 2^, 07 agosto 2002 n. 11881) l’indicazione di beni determinati nel contratto di alienazione non costituisce elemento decisivo per escludere l’ipotesi di trasferimento della quota ereditaria o di parte di essa, quando gli altri elementi utili all’interpretazione della natura del contratto consentano in maniera univoca di ritenere che la “res certa”, oggetto della disposizione patrimoniale, sia stata considerata come misura della partecipazione dell’acquirente alla comunione ereditaria, e cioè come frazione dell'”universum ius” del defunto e non come “pars quota” con riferimento all’esito della divisione.

In tale ottica appare quindi necessario che il giudice di merito (cfr. Cass. n. 7749/1990; Cass. n. 5042/1987) compia un’adeguata valutazione degli elementi concreti della fattispecie (quali la volontà delle parti, lo scopo perseguito, la consistenza del patrimonio ereditario ed il raffronto tra esso e l’entità delle cose vendute), di tal che l’indagine in oggetto costituisce un apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 97/2011; Cass. n. 5321/1981; Cass. n. 1124/1979).

Una volta poste tali premesse, emerge in maniera palese l’inconsistenza delle critiche mosse da parte dei ricorrenti.

La sentenza impugnata ha puntualmente evidenziato come i beni oggetto della cessione di quote erano in sostanza rappresentativi dell’intera quota ereditaria, attesa la scarsa consistenza economica degli altri immobili caduti in successione, i quali peraltro erano stati oggetto di un contratto preliminare concluso in vita dal de cuius, il cui prezzo era stato già in parte versato, ed al quale aveva fatto seguito una sentenza di esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre, definita in primo grado in data anteriore alla stessa conclusione dell’atto oggetto di causa (gli stessi ricorrenti, sebbene ad altri fini, riconoscono che in sostanza non era più dato disporre per i coeredi di tali beni).

Si è altresì evidenziato che i beni mobili (credito di Lire 12.000.000, bestiame ed attrezzi agricoli) erano da reputarsi inclusi nel trasferimento delle quote relative al maso, trattandosi appunto di beni accessori a quest’ultimo, ed avendo la cessione di quote riguardato tutti gli accessori.

La Corte distrettuale ha poi tratto ulteriore convincimento circa il fatto che l’oggetto della cessione fosse la quota ereditaria, dalla previsione del contratto de quo, che espressamente contemplava il diritto dei compratori alla restituzione del prezzo entro 10 giorni dalla decisione giudiziaria che avesse accolto l’eventuale azione finalizzata all’esercizio della prelazione, nonchè dal tenore del mandato irrevocabile e della procura speciale, per effetto della quale Z.J., anche quale procuratore delle altre due venditrici, aveva potuto alienare le quote in favore dei ricorrenti, dal quale emergeva una sostanziale equivalenza tra la titolarità del bene, le cui quote erano alienate, e quella dell’eredità.

La conclusione alla quale è pervenuta la sentenza gravata, e che cioè, anche in ragione della fuoriuscita dalla comunione ereditaria degli altri immobili appartenenti al de cuius, peraltro di valore esiguo rispetto a quelli interessati dalla cessione de qua, per effetto dell’accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c., avanzata riguardo a questi ultimi (per la persistenza del diritto di cui all’art. 732 c.c., nel caso in cui la maggior parte delle varie componenti dell’asse ereditario sia ancora in uno stato di indivisione, cfr. Cass. n. 16642/2008), l’atto di acquisto dei ricorrenti aveva ad oggetto la quota ereditaria, appare supportata da una motivazione che si presenta priva di illogicità ed incongruenze, trovando adeguato conforto anche nello stesso tenore letterale del contratto (di cui la procura rilasciata in favore del rappresentante delle altre venditrici, costituiva parte integrante).

Del tutto generiche, e prive della specifica indicazione del criterio ermeneutico legale violato, appaiono le lamentele circa la pretesa violazione delle regole di interpretazione del contratto, mirando la richiesta dei ricorrenti a sollecitare una diversa interpretazione rispetto a quella offerta dal giudice del merito.

In tal senso deve osservarsi come costituisca principio di diritto del tutto consolidato presso questa Corte di legittimità quello secondo il quale, con riguardo all’interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l’invocato sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore agli artt. 1362 c.c. e segg. e sulla (in) coerenza e (il)logicità della motivazione addotta (cosi, tra le tante, Cass., Sez. 3, 10 febbraio 2015, n. 2465): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione (vizi entrambi impredicabili con riguardo alla sentenza oggi impugnata), con la conseguenza che non può trovare ingresso la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice a quo.

7. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso in favore della controparte delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 13 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2016

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