Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17519 del 28/06/2019

Cassazione civile sez. trib., 28/06/2019, (ud. 14/05/2019, dep. 28/06/2019), n.17519

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 22895/2013 R.G. proposto da:

IANUA S.r.l., rappresentata e difesa dall’avv. Ottavio Masucci del

Foro di Avellino, elettivamente domiciliati a (OMISSIS), presso lo

studio del Dott. A.R.;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato,

domiciliata ope legis a Roma, in Via dei Portoghesi, n. 12;

– resistente –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale del Lazio

n. 189/21/12 pronunciata il 19/06/2012 e depositata il 17/07/2012;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 14.5.2019 dal

Consigliere Dott. Giuseppe Saieva;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale, Dott.ssa Kate Tassone, che ha concluso per

l’inammissibilità del ricorso;

Udito il difensore dell’Agenzia resistente, in persona dell’avvocato

dello Stato Caselli Giancarlo, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La IANUA s.r.l. impugnava due avvisi di accertamento notificati il 31.12.2008 con cui l’Agenzia delle Entrate di Roma rettificava i ricavi ai fini IRES, IRAP e IVA di ulteriori Euro 405.165,00 per il 2003, e di ulteriori Euro 325.150,00 per il 2002, richiedendo, inoltre, IVA per Euro 5.891,00 a seguito del p.v.c. del 14.12.2008 con cui venivano rilevate operazioni inesistenti con due fornitori che avevano cessato l’attività nel 2002.

2. La Commissione Tributaria Provinciale di Roma rigettava il ricorso rilevando che la ricorrente aveva ammesso che la merce viaggiava tramite corriere, per cui una documentazione rilasciata da quest’ultimo, doveva pur rimanere agli atti; rilevava altresì che negli anni in contestazione i pagamenti erano avvenuti tutti in contanti e la mancanza di documentazione a sostegno dell’opposizione della ricorrente.

3. La Commissione Tributaria Regionale con sentenza n. 189/21/12 pronunciata il 19.06.2012 e depositata il 17.07.2012 rigettava l’appello interposto dalla ricorrente la quale, a questo punto, proponeva ricorso per cassazione affidandolo a due motivi.

4. L’agenzia delle entrate si è costituita ai soli fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ex art. 370 c.p.p..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la società ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. art. 2697 c.c. e dell’art. 115c.p.c.”, lamentando che la C.T.R. aveva desunto l’inesistenza delle detrazioni effettuate dalla società dai pagamenti in contanti delle forniture e dalla indicazione da parte di due fornitori nelle rispettive fatture di partite IVA chiuse.

1.1. La censura è infondata.

1.2. In tema di accertamento tributario il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, (ma analogamente anche il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, sull’IVA), dispone che l’inesistenza di passività o le false indicazioni possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, senza necessità che l’Ufficio fornisca prove certe. Pertanto, il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma solo per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi dell’art. 2727 c.c. e ss., e art. 2697 c.c., comma 2, (Sez. 5, Sentenza n. 9784 del 23/04/2010).

1.3. Nel caso di specie, a fronte di pagamenti effettuati tutti in contanti, di costi privi della relativa documentazione, di operazioni con due fornitori che avevano già cessato l’attività e di operazioni risultate inesistenti a seguito di controllo incrociato, i giudici di merito legittimamente hanno ritenuto di ricorrere alle presunzioni di cui al precitato art. 39.

1.4. Il pagamento in contanti, infatti, è elemento indiziario sicuramente rilevante sia in sede tributaria (Cass. n. 15583/11), sia in sede penale (Cass. n. 43181/18); laddove vi sia assenza, come nella specie, di evidenze contabili e manchino completamente “atti, documenti, libri e registri”, riguardo a pretesi rapporti con soggetti commerciali privi di dotazioni personali e strumentali (Cass. n. 6229/13); in questi casi, come quello in esame, il deficit probatorio e documentale, attesa addirittura la chiusura della partita IVA del cedente, non attiene neppure ai meri requisiti formali dell’operazione imponibile (CGUE, C-69/17), ma ai requisiti sostanziali (CGUE, C459/17 e C-460-17), laddove la mancanza di documentazione di riscontro impedisce le verifiche necessarie (CGUE, C-664/16).

1.5. In tale contesto, era onere della società contribuente, ai sensi dell’art. 2727 c.c. e ss., e art. 2697 c.c., comma 2, superare il quadro presuntivo offerto, deducendo e dimostrando i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa tributaria; ma in mancanza di qualsiasi elemento idoneo a contrastare l’assunto dell’Ufficio impositore, la censura va disattesa.

2. Con il secondo motivo la società deduce “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla determinazione della pretesa tributaria, in violazione del D.P.R. n. 633 del 1972 e della L. n. 241 del 1990”, assumendo che la C.T.R. non avrebbe fornito alcun chiarimento sul criterio logico giuridico posto a fondamento della legittimità degli avvisi contestati, omettendo di motivare i criteri e le ragioni che avrebbero consentito di giustificare la pretesa tributaria.

2.1. Tale censura si appalesa intrinsecamente inammissibile laddove prospetta genericamente i vizi di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Non è, infatti, concepibile che una motivazione, quanto al medesimo punto, sia contemporaneamente mancante, carente ed illogica, atteso che detti vizi, essendo alternativi, non possono concorrere tra di loro ed è onere della parte ricorrente precisare quale sia, in concreto, il vero vizio della sentenza d’appello non potendo tale scelta rimettersi alla Corte (Cass. n. 4786 dell’11.3.2016).

2.2. Invero, detta doglianza, priva della necessaria specificità, si esaurisce in una generica prospettazione di vizi motivazionali. Il ricorso per cassazione deve invece contenere, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c.), l’indicazione dei motivi per i quali si richiede la cassazione; motivi, che per costante giurisprudenza devono avere i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, essendo viceversa inammissibile il ricorso per cassazione che, deducendo vizi motivazionali, non indichi in quali passaggi la motivazione sia omessa, contraddittoria o insufficiente; e ciò in relazione a ciascun fatto controverso e decisivo per il giudizio, anch’esso da indicare.

2.3. Nel caso di specie la censura non è riferita ad un “fatto controverso e decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o ad una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che pertanto risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità della censura motivazionale irritualmente formulata, in quanto l’indicazione cumulativa di tutti i passaggi rilevanti della sentenza e dei fatti ritenuti decisivi in un unico contesto impediscono il sindacato della Corte (Cass. Sez. 5, n. 21152 dell’8.10.2014).

3. Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Sussistono i presupposti per il versamento da parte della società ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore dell’Agenzia delle Entrate che liquida in 7.300,00 Euro, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 14 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2019

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