Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17516 del 26/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 26/07/2010, (ud. 10/06/2010, dep. 26/07/2010), n.17516

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato GRANOZZI GAETANO, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

– F.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA

195, presso lo studio dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta

mandato a margine del controricorso;

– L.C.F., già elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

GIOVANNI PIERLUIGI DA PALESTRINA 47, presso lo studio dell’avvocato

D’AURIA JACOPO, rappresentato e difeso dall’avvocato GALIOTO

SALVATORE, giusta mandato in calce al controricorso e da ultimo

domiciliato d’ufficio presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE;

– S.E., P.M., D.M.G.,

C.R., S.R.M., P.N., D.

D.R., G.R., G.S., P.

A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALBERICO II 33, presso

lo studio dell’avvocato SERGIO GALLEANO, rappresentati e difesi

dall’avvocato SANSONE SALVATORE, giusta mandato a margine del

controricorso e da ultimo domiciliati d’ufficio presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– C.A., già elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato GALLEANO SERGIO, che la

rappresenta e difende, giusta mandato a margine del controricorso e

da ultimo domiciliata d’ufficio presso la CANCELLERIA DELLA CORTE

SUPREMA DI CASSAZIONE;

– controricorrenti –

e contro

G.A., N.I., B.V., Z.

M.G., S.P., CA.VI.,

ca.ri., S.M.G., V.S.,

R.O.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1316/2007 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 21/11/2007 R.G.N. 1941/05 + Altre dell’anno 2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/06/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI per delega GRANOZZI GAETANO;

udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO per delega GALLEANO SERGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino, che ha concluso per l’inammissibilità per il

conciliato, rigetto nel resto.

 

Fatto

IN FATTO E DIRITTO

La Corte rilevato che:

il giudice d’appello di Palermo, riformando la sentenza di prime cure, ha dichiarato l’illegittimità del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati fra i lavoratori indicati in epigrafe e Poste Italiane s.p.a. e la conseguente instaurazione fra le parti di rapporti di lavoro subordinato;

per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Poste Italiane s.p.a. affidato a undici motivi accompagnati, nel caso di violazione di legge, dalla formulazione dei quesiti di cui all’art. 366 bis c.p.c., così come introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006; i lavoratori N., B., S., V., G., Ca., ca., R., S. e Z. non hanno svolto attività difensiva;gli altri lavoratori hanno resistito con controricorso;

successivamente sono stati depositati verbali di conciliazione in sede sindacale, sottoscritti dai lavoratori:

N., B., S., V., G., Ca., ca., R., Z. e S. da una parte e la società Poste italiane, dall’altra;

dai verbali di conciliazione sopra indicati risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarando che – in caso di fasi giudiziali ancora aperte – le stesse saranno definite in coerenza con il presente verbale; ad avviso del Collegio i suddetti verbali di conciliazione si palesano idonei a dimostrare la cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo; alla cessazione della materia del contendere consegue pertanto la declaratoria di inammissibilità del ricorso in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione, in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutato l’interesse ad agire (Cass. S.U. 29 novembre 2006 n. 25278);

in definitiva il ricorso nei confronti di detti lavoratori, ivi compreso lo S., assunto con contratto a termine per il periodo 14/2/2002-30/4/2002, in ordine alla posizione del quale sono specifici motivi d’impugnazione, deve essere dichiarato inammissibile per cessazione della materia del contendere;

avuto riguardo alla materia del contendere stimasi compensare integralmente tra le suddette parti le spese del giudizio di Cassazione;

con riferimento ai lavoratori che non hanno conciliato assunti con contratto a termine stipulato, per un periodo ricadente nell’anno 2000, a norma dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994 ed in particolare in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, che prevede, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, la presenza di esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane la Corte territoriale, premesso che l’accordo de quo era disciplinato dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, attribuendo rilievo decisivo al fatto che le parti avevano fissato il limite del 30 aprile 1998 alla possibilità di procedere con assunzioni a termine ha ritenuto il contratto a termine in esame illegittimo in quanto stipulato in epoca posteriore;

la suddetta impostazione è stata ampiamente censurata dalla società ricorrente la quale contesta, in particolare, la ritenuta non consensuale risoluzione del rapporto, l’interpretazione data dalla Corte di merito al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997 ed agli accordi dalla stessa definiti come attuativi, nonchè l’affermato diritto alla retribuzione in assenza di prestazioni lavorative;

le censura sono infondate;

con riferimento alla questione della risoluzione del rapporto per mutuo consenso questa Corte ha avuto modo di precisare che nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva considerato la mera inerzia del lavoratore, per un periodo di oltre tre anni dopo la scadenza, insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso) (V. per tutte Cass. 10 novembre 2008 n. 26935);

analogamente nella presente fattispecie la Corte del merito ha ritenuto, con motivazione congrua, che la mera inerzia del lavoratore è di per sè insufficiente per configurare una risoluzione del rapporto per mutuo consenso; in relazione alla ritenuta illegittimità del termine va premesso che risulta infondato l’assunto della società secondo la quale avendo il giudice di primo grado affermato la illegittimità del termine per carenza di prova sul nesso causale intercorrente tra la previsione astratta dell’accordo sindacale e la singola stipulazione non poteva la Corte del merito valutare, in assenza di una impugnazione incidentale del lavoratore,il diverso profilo del limite temporale alla possibilità di procedere con assunzioni a termine; invero l’accoglimento di una domanda in base ad una delle causae petendi poste fungibilmente a base della domanda, non comporta per la parte vittoriosa l’onere di proporre appello incidentale per far valere la causae petendi non valutata dal giudice di primo grado, essendo sufficiente che la parte non vi rinunci (Cass. 24 maggio 2007 n. 1262), e tale rinuncia non risulta nemmeno allegata;

con riferimento al merito numerose sentenze questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha univocamente confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione), dopo il 30 aprile 1998;

premesso, in linea generale, che la L. 23 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modifiche nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, convertito con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normative – la sopra ricordata giurisprudenza di legittimità ha osservato in particolare che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453);

ha rilevato altresì che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866);

ha, infine, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato;

ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141);

il sopra citato orientamento di questa Corte deve essere pienamente confermato atteso che le tesi difensive che si sono confrontate nelle fasi di merito, quelle oggi proposte all’attenzione della Corte e, infine, le ragioni esposte nella sentenza impugnata non sono sorrette da argomenti che non siano già stati scrutinati nelle ricordate decisioni o che propongano aspetti di tale gravità da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti;

deve osservarsi in proposito, con riferimento alle decisioni di questa Corte Suprema prima citate nella parte in cui esse si riferiscono all’interpretazione di norme collettive di diritto comune, che le stesse hanno comunque valenza di precedenti, ancorchè non in senso tecnico atteso che, da un lato, lo stesso controllo di logicità del giudizio trova, in parte qua, le proprie coordinate nelle disposizioni di legge in tema di ermeneutica contrattuale le quali, suscettibili di lettura diretta da parte del giudice della nomofilachia, costituiscono obbligato punto di riferimento nella ricerca e nell’identificazione dei punti decisivi per la ricostruzione dell’effettiva volontà delle parti stipulanti;

dall’altro, le clausole delle fonti collettive, per la loro naturale riferibilità ad una serie indeterminata di destinatari e per il loro carattere sostanzialmente normativo, non sono assimilabili completamente a quelle di un normale contratto o accordo, sicchè, neanche rispetto ad esse è trascurabile il fine di assicurare ai potenziali interessati, per quanto possibile e per quanto non influenzato dalle insopprimibili peculiarità di ciascuna fattispecie, quella reale parità di trattamento che si fonda sulla stabilità degli orientamenti giurisprudenziali, specialmente sollecitata quando, come nella specie, assuma icastica evidenza l’identità dei percorsi logici seguiti nelle decisioni progressivamente portate all’esame del giudice di legittimità e dei contesti difensivi nei quali tali decisioni risultano calate (Cass. 29 luglio 2005 n. 15969);

il motivo,poi, proposto dalla società Poste in relazione alle conseguenze economiche derivanti dalla accertata invalidità dell’apposizione del termine è del tutto infondato atteso che la soluzione adottata dal giudice di merito è conforme all’insegnamento di questa Corte Suprema (cfr. Cass. S.U. 8 ottobre 2002 n. 14381 nonchè, da ultimo, Cass. 13 aprile 2007 n. 8903) che, con riferimento all’analoga ipotesi della trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione dei termini, o comunque dell’elusione delle disposizioni imperative della L. n. 230 del 1962, ha affermato che il dipendente che cessa l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla – in linea generale in misura corrispondente a quella della retribuzione – qualora provveda a costituire in mora lo stesso datore di lavoro ai sensi dell’art. 1217 cod. civ.;

la Corte territoriale ha sulla base di una valutazione di merito che non è stata adeguatamente censurata in questa sede, individuato il suddetto atto di messa in mora nella formale messa a disposizione da parte del lavoratore delle proprie energie lavorative;

nè in questa sede la società, nel contestare la reiezione dell’eccezione dell’aliud perceptum richiamando anche il principio di cui all’art. 1227 c.c., indica specifiche ragioni contrarie alla affermata genericità della eccezione ovvero alla ritenuta natura meramente esplorativa dei richiesti mezzi istruttori (Cass. 21 maggio 2008 n. 12985);

infondata è la richiesta riguardo ai lavoratori F.M., P.M. e D.D.R. di cessazione della materia sulla questione della riammissione in servizio per intervenute licenziamento o dimissioni, atteso che l’allegato evento attiene ad una fase non direttamente connessa alla disposta riammissione in servizio rispetto alla quale la società è soccombente;

le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nei confronti delle parti costituite;

nulla deve disporsi per le spese del giudizio di legittimità nei confronti delle parti rimaste intimate.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti dei lavoratori N., B., S., V., G., Ca., ca., R., Z. e S. e compensa tra le parti le relative spese del giudizio di legittimità;

rigetta il ricorso proposto nei confronti degli altri lavoratori.

Condanna la società Poste italiane al pagamento nei confronti dei lavoratori costituiti delle spese del giudizio di legittimità liquidate per F.M. in Euro 34,00 oltre Euro 200,00 per onorario ed oltre spese, IVA e CPA, per L.C.F. in Euro 19,00 oltre Euro 2000,00 per onorario ed oltre spese, IVA e CPA, per Assunta Calabrese Euro 17,00 oltre Euro 2000,00 per onorario ed oltre spese, IVA e CPA e per gli altri lavoratori costituiti in Euro 16,00 oltre Euro 2500,00 per onorario ed oltre spese,IVA e CPA. Nulla per le spese del giudizio di legittimità nei confronti delle parti rimaste intimate.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2010

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