Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17515 del 21/08/2020

Cassazione civile sez. VI, 21/08/2020, (ud. 17/06/2020, dep. 21/08/2020), n.17515

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

N.N., rappr. e dif. dall’avv. Marco Lanzilao,

marcolanzilao.ordineavvocatiroma.org, elett. dom. presso lo studio

di questi in viale Angelico, n. 38, come da procura in calce

all’atto

– ricorrente –

Contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., rappr. e dif.

ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici in

Roma, via dei Portoghesi n. 12 è domiciliata

-controricorrente-

per la cassazione della sentenza App. Torino 19.4.2019, n. 699/2019,

in R.G. 1324/2018;

udita la relazione della causa svolta dal Consigliere relatore Dott.

Massimo Ferro alla camera di consiglio del 17 giugno 2020;

il Collegio autorizza la redazione del provvedimento in forma

semplificata, giusta decreto 14 settembre 2016, n. 136/2016 del

Primo Presidente.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Rilevato che:

1. N.N., cittadino senegalese, impugna la sentenza App. Torino 19.4.2019, n. 699/2019, in R.G. 1324/2018, che ha rigettato il suo appello avverso l’ordinanza Trib. Torino 31.5.2018, denegativa dell’impugnazione della decisione con cui la Commissione territoriale di Novara per il riconoscimento della protezione internazionale aveva respinto la domanda quanto a status di rifugiato, protezione sussidiaria e permesso umanitario;

2. la corte ha premesso la non verosimiglianza della allegata conversione al cristianesimo dall’Islam a supporto dell’allontanamento e del pericolo di persecuzione in caso di rientro, quale fornita dal richiedente; ha così ritenuto: a) l’assenza comunque di condotte persecutorie connesse alla professione di fede evocata, per come riconducibili al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7; b) il difetto di una situazione generalizzata di conflitto in Senegal e la mancanza di esposizione a rischio grave, specie per un nativo; c) la mancanza di prova di una personale vulnerabilità, anche alla luce della insufficiente pertinenza delle attività svolte nel periodo di accoglienza in Italia, elemento di per sè insufficiente;

3. il ricorso è su un motivo e ad esso resiste con controricorso il Ministero.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Considerato che:

1. con il complesso motivo si censura la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, anche in relazione alle previsioni sul reato di tortura e al divieto di persecuzione nel Paese d’origine, avendo la corte erroneamente negato i requisiti della protezione umanitaria;

2. il ricorso è inammissibile, non avendo in primo luogo il ricorrente circostanziato la vicenda su fatti essenziali e determinanti l’espatrio, non creduti dalla corte e così omesso di censurare la valutazione di non attendibilità espressa in sentenza come autonoma (e anche preliminare) ratio decidendi a sostegno del rigetto del ricorso (Cass. 18641/2017); in tema, va aggiunto che “in materia di protezione internazionale, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, obbliga il giudice a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, verifica sottratta al controllo di legittimità al di fuori dei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (Cass.21142/2019), limiti in concreto non idoneamente criticati con l’attuale impugnazione (Cass.20580/2019);

3. la corte ha infatti escluso sia la credibilità delle ragioni persecuzione per motivi religiosi – addotte dal ricorrente a sostegno del suo allontanamento dal Senegal, sia la sussistenza di motivi di persecuzione pubblica ed apprezzabilmente afflittiva sul piano giuridico in caso di rientro, sia una situazione di conflittualità rilevante per tutte le zone del Senegal, attualizzandone il riscontro con l’indicazione delle fonti, altresì evidenziando che anche la residua domanda di protezione umanitaria, invero, non si reggeva su autonome ed ulteriori ‘ragioni di inclusionè, condizionanti un giudizio positivo di vulnerabilità; sul punto nessuna di tali statuizioni è stata specificamente censurata, essendosi il ricorso limitato ad impugnare il diniego statuitivo della protezione umanitaria, senza però affrontarne anche la citata premessa argomentativa, salvo un mero richiamo assertivo e alternativo;

4. in tema, Cass. 3340/2019 ha statuito che “la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma. 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito”;

5. relativamente alla situazione del Senegal, la corte – rendicontando le fonti di conoscenza e fornendo adeguati indici di attualità delle stesse – ha comunque assolto al principio per cui la stessa “nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia” (Cass. 13858/2018, 18306/2019); si tratta di elementi che non sono stati nemmeno affrontati dal ricorrente;

6. la censura sul diniego di protezione umanitaria è inammissibile, avendo la corte motivatamente escluso una apprezzabile vulnerabilità all’esito di eventuale rimpatrio, poichè le attività svolte nel periodo d’accoglienza in Italia sono state giudicate prive di relazione con una particolare condizione fisica, di età, di legami familiari ed affettivi e di effettivo inserimento nel sistema lavorativo, ciò precludendo, con i motivi d’inclusione, i termini di una comparazione; sul punto il ricorso esprime una censura del tutto generica; e dunque dovendosi ripetere, con Cass. 23778/2019 (pur sulla scia di Cass. 4455/2018), che “occorre il riscontro di “seri motivi” (non tipizzati) diretti a tutelare situazioni di vulnerabilità individuale, mediante una valutazione comparata della vita privata e familiare del richiedente in Italia e nel Paese di origine, che faccia emergere un’effettiva ed incolmabile sproporzione nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, da correlare però alla specifica vicenda personale del richiedente… altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 cit., art. 5, comma 6″; si tratta di principio ribadito da Cass. s.u. 29460/2019, facendo qui difetto, pertanto, oltre ai termini oggettivi di un’effettiva comparabilità, al fine di censire la vulnerabilità del ricorrente, la coerenza con la necessità specificativa del motivo, posto che l’odierna censura è inammissibile anche per genericità, in quanto si risolve in un autentico vizio di motivazione, oltre il limite del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

7. il ricorso è pertanto inammissibile, conseguendone, oltre alla condanna alle spese, anche il riscontro dei presupposti per il cd. raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, liquidate in Euro 2.100, oltre alle eventuali spese prenotate a debito; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, come modificato dalla L. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 17 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 agosto 2020

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