Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17512 del 26/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 26/07/2010, (ud. 27/05/2010, dep. 26/07/2010), n.17512

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

TRIONFALE 5637, presso lo studio dell’avvocato D’AMARIO FERDINANDO,

che la rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

L’EDITRICE ROMANA S.R.L., (già L’Editrice Romana S.P.A.), in persona

del legale rappresentante pro tempore, già elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA BOCCA DI LEONE 78, presso lo studio dell’avvocato

BERRUTI PAOLO, che la rappresenta e difende, giusta mandato a margine

del controricorso e da ultimo domiciliata d’ufficio presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 264/2005 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 28/04/2005, R.G.N. 1030/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/05/2010 dal Consigliere Dott. VINCENZO DI NUBILA;

udito l’Avvocato D’AMARIO FERDINANDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso depositato in data 17.11.2003, D.P.A. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale dell’Aquila la quale aveva respinto il suo ricorso, inteso ad ottenere, nei confronti della Editrice Romana srl, già spa., la declaratoria di esistenza di un rapporto di lavoro subordinato di natura giornalistica, con le conseguenti pronunce in tema di retribuzione ovvero a titolo di ingiustificato arricchimento. Previa costituzione ed opposizione della convenuta, la Corte di Appello confermava la sentenza di primo grado. Questa in sintesi la motivazione della sentenza di appello:

– non sussiste il requisito della subordinazione: la D.P. non aveva l’obbligo di eseguire le prestazioni, non utilizzava strumenti o apparecchiature appartenenti alla società, aveva rapporti soltanto con il marito, dipendente questi della convenuta, non partecipava alla vita della redazione, produceva gli articoli che via via le venivano richiesti;

– trattasi di collaborazione autonoma, senza inserimento dell’organizzazione aziendale, libera l’attrice di rifiutare gli impegni che le venivano richiesti;

– il compenso pattuito nella misura di L. 30.000 per articolo è quello liberamente accettato e praticato anche nei confronti degli altri collaboratori, mentre la superiore tariffa di L. 80.000 ad articolo è eccessiva;

– non risultano i presupposti dell’ingiustificato arricchimento.

2. Ha proposto ricorso per Cassazione D.P.A., deducendo tre motivi. Resiste con controricorso L’Editrice Romana srl.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Con il primo motivo del ricorso, la ricorrente deduce, a sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4, e 5, illogicità della motivazione, violazione dell’art. 112 c.p.c., omessa valutazione della prova, violazione degli artt. 2094, 2103 c.c., L. n. 153 del 1961, art. 2, L. n. 69 del 1963, art. 1: erroneamente la Corte di Appello non ha ravvisato gli estremi di un rapporto di lavoro subordinato, omettendo di valutare la specializzazione dell’attrice e la frequenza degli articoli. E’ stata trascurata la dipendenza della D.P. dal caposervizio V., il quale “le diceva cosa doveva fare”. In sostanza, non è stato rilevato il contributo subordinato e continuativo che l’attrice forniva alla redazione.

4. Il motivo è infondato. Esso si risolve in una diversa lettura delle risultanze istruttorie, operazione questa preclusa in Cassazione. La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvi i casi tassativamente previsti dalla legge); ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione. Al fine della congruità della motivazione è sufficiente che da questa risulti che i vari elementi probatori acquisiti siano valutati nel loro complesso, anche senza una esplicita confutazione di altri elementi non menzionati, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito a quelli utilizzati. La giurisprudenza in tal senso è costante e tralatizia. Nella specie, l’impianto motivazionale della sentenza di merito risulta coerente ed adeguato, immune quindi dalle censure rivolte.

5. Con il secondo motivo del ricorso, la ricorrente deduce erronea applicazione dell’art. 2033 c.c., violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ed ulteriore vizio di motivazione, per avere la Corte di Appello dedotto l’esistenza di un accordo sulla misura del compenso da quanto praticato tra le parti, senza porsi il problema della ricerca del compenso equo e proporzionato.

6. Il motivo è infondato. Anche esso attinge largamente al fatto e propone un diverso apprezzamento circa la congruità del compenso rispetto a quello fatto proprio dal giudice di merito. La Corte di Appello si è attenuta al comportamento delle parti per inferirne l’esistenza di un accordo in tal senso, operazione questa che non presenta spunti di illegittimità, posto che nell’interpretazione di un contratto di durata il giudice può valutare il comportamento delle parti anche successivo alla stipulazione. Per il resto valgono le considerazioni svolte a proposito del primo motivo di ricorso.

7. Con il terzo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2033 e 2041 c.c. e del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, per non avere la Corte di Appello rilevato lo squilibrio economico delle prestazioni.

8. Il motivo è infondato. Una volta accertato che il comportamento della presunta datrice di lavoro era legittimo, non vi è spazio per un ingiustificato arricchimento.

9. Il ricorso deve, per i suesposti motivi, essere rigettato. Le spese del grado seguono la soccombenza e vengono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso e condanna D.P.A. a rifondere alla Editrice Romana srl. le spese del grado, che liquida in Euro 21,00 oltre Euro duemila/00 per onorari, più spese generali, Iva e Cpa nelle misure di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 27 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2010

 

 

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