Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17503 del 28/06/2019

Cassazione civile sez. trib., 28/06/2019, (ud. 06/02/2019, dep. 28/06/2019), n.17503

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14365/2013 R.G. proposto da:

LILLO SPA, (C.F. (OMISSIS)), rappresentato e difeso dall’Avv.

FRANCESCO MANZON, con domicilio eletto presso il proprio studio in

Napoli, Corso Umberto I, 174;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, (C.F. (OMISSIS)), in persona del

Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via

dei Portoghesi, 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Campania n. 95/29/12, depositata il 27 aprile 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 6 febbraio

2019 dal Consigliere Filippo D’Aquino.

Fatto

RILEVATO

CHE:

Lillo s.p.a. ha impugnato l’avviso di rettifica, ed il correlato atto di contestazione della sanzione, emessi nei suoi confronti dall’Agenzia delle Dogane nel febbraio e nel maggio 2008 a seguito della revisione a posteriori di una dichiarazione di importazione di lampade fluorescenti compatte elettroniche (CFL-i), accompagnate da certificati FORM A di origine malese, rivelatesi di origine cinese.

Come risulta dagli atti del giudizio, la revisione origina da un rapporto OLAF, sulla base del quale l’Ufficio doganale ha liquidato i dazi antidumping dovuti su importazioni di merce di origine cinese ed ha applicato la sanzione di cui al TULD, art. 303;

La CTP di Napoli ha rigettato il ricorso.

La CTR della Campania, con sentenza depositata il 27 aprile 2012, ha respinto l’appello della contribuente contro la sentenza di prime cure, ritenendo adeguatamente motivato l’avviso, nonchè fondata la pretesa dell’Ufficio di ripresa dei dazi sulla base del rapporto OLAF, e rilevando come il rilascio di un certificato di origine inesatto non costituisca errore scriminante laddove le inesattezze siano conseguenti a una inesatta situazione riferita dall’esportatore;

Avverso la sentenza Lillo SPA propone ricorso per cassazione per cinque motivi, illustrato da memoria, cui resiste l’Ufficio con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

Con il primo motivo la ricorrente deduce omessa pronuncia e violazione di legge in relazione al diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., e al “diritto comunitario come interpretato dalla Corte di Giustizia”, nonchè violazione dell’art. 2697 c.c., per non essere l’avviso di accertamento stato preceduto dalla notificazione di alcuna preventiva comunicazione, richiamando giurisprudenza Eurounitaria (sentenza Corte Giustizia, 18 dicembre 2008, Sopropè, C-349/07, nonchè le sentenze successive indicate nella memoria ex art. 378 c.p.c.), della quale invoca l’efficacia retroattiva; assume al riguardo che la necessità del contraddittorio preventivo non sarebbe surrogabile dalla possibilità di instaurare una controversia doganale (TULD, art. 65 e ss.), la quale in ogni caso dovrebbe essere proposta avverso un atto definitivo e non avverso un atto interlocutorio quale il processo verbale di revisione; rileva inoltre che la stessa abrogazione del D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, art. 11, comma 7, e l’introduzione del D.Lgs. ult. cit., art. 11, comma 4-bis, dimostrerebbero la necessità di un contraddittorio anticipato.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione di legge in relazione al Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913, art. 220, paragrafo 2, in tema di affidamento dell’operatore di buona fede, sostenendo che nella specie non vi sarebbe prova che l’errore sia stato indotto dalle inesatte informazioni rilasciate dall’esportatore alle autorità doganali malesi, le quali, in ogni caso, sapevano a avrebbero ragionevolmente dovuto sapere, che le lampade provenivano dalla Cina (sia perchè, secondo il rapporto Olaf, il traffico aveva riguardato numerosissime spedizioni, sia perchè le merci erano solo transitate per Malesia, dove erano state collocate in un deposito nella zona (OMISSIS), sicchè, all’atto della loro esportazione verso la CE dovevano necessariamente essere accompagnate da un documento che ne attestava la provenienza da un altro Stato) e, ciò nonostante, avevano rilasciato il certificato di origine; aggiunge che la sua buona fede sarebbe provata anche dall’esito del processo penale intentato nei confronti del suo legale rappresentante, che con sentenza del 24.10.08 è stato assolto dall’imputazione di contrabbando ascrittagli “perchè il fatto non costituisce reato”.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge in relazione al D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, art. 11,comma 5-bis, e L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1, nonchè vizio di motivazione, deducendo che l’avviso notificatole era nullo per difetto di motivazione, in quanto faceva riferimento unicamente al rapporto Olaf, dal quale non emergeva la prova che tutte le importazioni provenienti dalla Malesia contenessero lampade di origine cinese.

Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione di legge per erronea applicazione del TULD, art. 3, comma 3, sostenendo che tale disposizione non possa applicarsi in caso di difformità riscontrata nell’origine delle merci.

Con il quinto motivo deduce violazione di legge in relazione al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 5, comma 2, nonchè vizio di motivazione, rilevando che il giudice di appello ha ritenuto legittima la sanzione senza valutare l’eccezione di nullità dell’atto di contestazione per insussistenza dell’elemento della colpevolezza;

1 – Il primo motivo, sul quale la ricorrente insiste anche nella memoria ex art. 378 c.p.c., è infondato.

1.1 – In linea di massima è corretto affermare che il diritto dell’Unione Europea riconosce in materia doganale la necessità di un contraddittorio anticipato anche nella fase amministrativa, benchè il Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913 del 1992, non lo richieda espressamente, trattandosi di principio generale, peraltro, affermato dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, art. 41, comma 2, primo alinea, (in vigore dal 1.12.2009).

Va tuttavia osservato che la Corte di Giustizia ha ritenuto che il principio di audizione preventiva risulta rispettato “se la normativa nazionale che consente all’interessato di contestare l’atto nell’ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiedere la sospensione dell’esecuzione di tale atto fino alla sua eventuale riforma rinviando all’art. 244 del codice doganale, senza che la proposizione di un ricorso amministrativo sospenda automaticamente l’esecuzione dell’atto impugnato” (Corte di Giustizia, 20 dicembre 2017, Preqù, C-276/16).

E’, inoltre, consentito, secondo la giurisprudenza Eurounitaria, omettere l’audizione preventiva del contribuente in materia di intimazioni di pagamento doganali, audizione non espressamente prevista dal Reg. (CEE) n. 2913 del 1992, ove la presentazione di un ricorso avverso l’atto impositivo abbia “l’effetto di sospendere l’esecuzione dell’intimazione stessa soltanto quando vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale, o si debba temere un danno irreparabile per l’interessato” (Corte di Giustizia, 3 luglio 2014, Kamino, cause riunite C-129/13, 130/13).

La Corte di Giustizia ha, poi, esplicitamente affermato il principio della cd. prova di resistenza, secondo cui “una violazione dei diritti della difesa, in particolare del diritto di essere sentiti, determina l’annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso” (Corte di Giustizia, 3 luglio 2014, cit.; Corte di Giustizia, 14 febbraio 1990, Rep. Francese, CE301/87, punto 31; Corte di Giustizia, 5 ottobre 2000, Rep. Fed. di Germania, CE288/96, punto 101; Corte di Giustizia, 2 ottobre 2003, Thyssen, C-194/99, punto 31; Corte di Giustizia, 1 ottobre 2009, Foshan, C1141/08, punto 94); da quanto premesso, consegue che “una violazione del principio del rispetto dei diritti della difesa comporta l’annullamento della decisione di cui trattasi soltanto quando, senza tale violazione, il procedimento avrebbe potuto condurre ad un risultato differente” (sentenza Kamino, cit.).

1.2 – Queste conclusioni sono fatte proprie dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte, la quale ha statuito che il principio dell’obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale preventivo va affermato ratione temporis (anteriormente all’entrata in vigore del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1), nel caso in cui chi se ne dolga non si limiti alla relativa formalistica eccezione, ma “assolva l’onere di prospettare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato” (Cass., Sez. U., 9 dicembre 2015, n. 24823; Cass., Sez. V, 15 marzo 2013, n. 6621; Cass., Sez. VI, 23 maggio 2018, n. 12832).

Nè può sostenersi che la normativa interna vigente all’epoca dei fatti (2008) prevedesse un obbligo indiscriminato del contraddittorio, essendo stato chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte che, relativamente agli avvisi di rettifica in materia doganale precedenti l’entrata in vigore del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 27, che ha introdotto il D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 4-bis, non trova applicazione retroattiva la L. 20 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, (Cass., Sez. VI, 23 maggio 2018, n. 12832). Si è ritenuto in proposito che la disciplina doganale resti regolata ratione temporis dalla disposizione di diritto speciale costituita dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, commi 1, 5 – 7, secondo cui, quando dalla revisione eseguita di ufficio dell’accertamento divenuto definitivo emergano inesattezze, omissioni, o errori relativi agli elementi presi a base dell’accertamento, l’ufficio procede alla relativa rettifica e ne dà comunicazione all’operatore interessato notificando apposito avviso. Successivamente, l’interessato può, entro trenta giorni dalla data della notifica dell’avviso, contestare la rettifica e in tal caso si procede alla redazione di apposito verbale dall’Ufficio doganale, ai fini della eventuale instaurazione dei procedimenti amministrativi per la risoluzione delle controversie previsti dal TULD, art. 66 e ss., (D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43).

Pertanto, contrariamente a quanto osservato dalla ricorrente, è proprio il procedimento amministrativo, cui rinvia la norma, che consente la instaurazione, in via preventiva rispetto alla sede giurisdizionale (benchè successiva rispetto alla adozione dell’atto impositivo), del pieno contraddittorio con il contribuente, essendo detto procedimento amministrativo preordinato a garantire un contraddittorio pieno in un momento anticipato rispetto all’impugnazione in sede giurisdizionale (Cass., Sez. V, 25 gennaio 2019, n. 2177).

2 – Il secondo motivo è infondato laddove deduce la violazione di legge e inammissibile laddove denuncia il vizio di motivazione.

E’ principio consolidato quello secondo cui, ove venga accertata in sede di controllo la falsità o anche solo la non corrispondenza al vero dei certificati di origine della merce (fatto che abilita l’autorità doganale a procedere alla contabilizzazione a posteriori dei maggiori dazi dovuti), l’esimente della buona fede che consente all’importatore di andare esente da tale maggiore imposizione a termini del Reg. (CEE) n. 2913 del 1992, art. 220, par. 2, lett. b), prescinde del tutto dal suo stato soggettivo, ossia dalla sua effettiva consapevolezza della falsità delle informazioni fornite dall’esportatore alle autorità del proprio Stato.

Diversamente, costituisce onere del debitore doganale dimostrare che, per tutta la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito secondo uno standard oggettivo di diligenza qualificata – richiesta dall’art. 1176 c.c., comma 2, in ragione dell’attività professionale di importatore svolta – per verificare la ricorrenza delle condizioni per il trattamento preferenziale, mediante un controllo sull’esattezza delle informazioni rese dall’esportatore (Cass., Sez. V, 23 maggio 2018, n. 12719), controllo che si estende al controllo dell’esattezza delle informazioni fornite dall’esportatore allo Stato di esportazione (Cass., Sez. V, 15 marzo 2013, n. 6621).

In sostanza, ai fini della sussistenza dell’esimente della buona fede quale fatto impeditivo all’applicazione dei maggiori dazi derivanti da un controllo a posteriori sulla origine non preferenziale della merce importata (e della verifica circa la sussistenza di questo standard oggettivo), occorre che – oltre all’osservanza di tutte le prescrizioni in vigore – ricorrano congiuntamente le circostanze del rilascio irregolare dei certificati di origine a causa di un errore delle autorità competenti (ancorchè del paese di esportazione) e della non riconoscibilità dell’errore da parte dell’importatore/dichiarante (ex multis Corte di Giustizia, 14 maggio 1996, Faroe Seafood, C153/94 e 204/94, punto 83; Corte di Giustizia, 3 marzo 2005, Biegi Nahrungsmittel C-499/03 P, punto 46, Corte di Giustizia, 18 ottobre 2007, Agrover, C-173/06, punto 30; Cass., Sez. V, 16 ottobre 2006, n. 22141).

Solo nel caso in cui il rilascio del certificato di origine sia dovuto ad errore (cd. attivo) delle autorità doganali occorre accertare che tale errore non fosse ragionevolmente riconoscibile secondo la diligenza professionale richiesta all’importatore al fine di ritenere che sussista il suo legittimo affidamento. Ed è onere di quest’ultimo provare, quale fatto impeditivo, oltre al rispetto delle prescrizioni normative, sia l’esistenza di questo errore da parte dell’autorità competente, sia la non riconoscibilità dello stesso secondo standard obiettivi di diligenza. (Cass., Sez. V, 14 marzo 2012, n. 4022).

Ne consegue che possono verificarsi sia casi di importatori tenuti al pagamento dei maggiori dazi, a seguito di controllo a posteriori, per errori attivi delle autorità doganali competenti al rilascio dei certificati di origine riconoscibili secondo la diligenza professionale richiesta dall’art. 1176 c.c., comma 2, sia casi di debitori doganali in capo ai quali non è necessario accertare alcun rispetto degli standard oggettivi di diligenza, in quanto non sussiste, all’atto del rilascio della dichiarazione di origine preferenziale, alcun errore attivo da parte dell’autorità doganale competente, che si è limitata a recepire le inesatte dichiarazioni rese dell’esportatore.

2.2 – La CTR ha accertato che il caso ricadeva, per l’appunto, in tale fattispecie, laddove ha rilevato che esso era disciplinato dal Reg. CE n. 2700 del 2000, comma 3, lett. b), par. 2, (recte: del Reg. (CEE) n. 2913 del 1992, art. 220), secondo cui “il rilascio di un certificato inesatto non costituisce un errore in tal senso (ovvero, ai sensi della medesima Disp., comma 1, un errore dell’autorità doganale che non poteva essere ragionevolmente essere scoperto dal debitore) se il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore, salvo se è evidente che le autorità che hanno rilasciato il certificato erano informate o avrebbero dovuto essere informate che le merci non avevano diritto al regime preferenziale”.

Nel qual caso, come si è detto, non occorre interrogarsi sul rispetto dello standard di diligenza dell’importatore, perchè non costituisce errore rilevante ai fini della esimente in oggetto quello ingenerato dalle inesatte dichiarazioni rilasciate dall’esportatore, circostanza la quale rientra nel normale rischio commerciale dell’importatore, costretto a sopportare eventuali irregolarità o falsità di un documento commerciale rivelatosi tale in occasione di un successivo controllo (Cass., Sez. V, 16 ottobre 2016, n. 22141; Cass., Sez. V, 6 luglio 2016, n. 13770).

2.3 – Nè potrebbe, diversamente da quanto intende parte ricorrente, concorrere all’errore attivo il “silenzio” serbato dalle autorità doganali competenti, ancorchè ripetuto, in ordine alle dichiarazioni rese dall’esportatore, posto che l’attività rimessa alle autorità competenti al rilascio del certificato di origine non può ritenersi precostituita a garanzia della pubblica fede (Cass., Sez. V, 6 marzo 2013, n. 5531).

Il certificato di origine viene rilasciato, a termini dal Reg. (CEE) 2 luglio 1993, n. 2454, art. 81, comma 7, in base ad una mera richiesta scritta dell’esportatore o del suo rappresentante autorizzato sulla base di un formulario, spettando all’autorità doganale del Paese esportatore accordista, beneficiario del trattamento preferenziale, di verificare solo “che il formulario del certificato e la domanda siano debitamente compilati” (Reg. cit., art. 81, comma 7). La dichiarazione di origine viene, quindi, resa dall’ufficio doganale di esportazione sulla base sostanzialmente di una autocertificazione dell’esportatore, con la quale questi si assume la responsabilità che la merce rispetti i requisiti di origine preferenziale previsti dagli accordi di libero scambio.

Non essendovi alcuna presunzione di legittimità nel rilascio del certificato da parte dell’autorità doganale competente, non può costituire errore attivo il mero silenzio, ovvero il comportamento “passivo” anche per un lungo periodo di tempo, serbato dalla autorità doganale competente circa la dedotta origine preferenziale.

Il che è conforme al principio secondo cui il rischio della inesattezza della dichiarazione di origine non può ricadere sull’Unione Europea – la quale non è tenuta a subire le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini – bensì sull’importatore o, comunque, sul dichiarante in dogana il quale, salve le ipotesi di cui al cit. art. 220, par. 2, è il soggetto che sopporta il rischio dell’accertamento ex post della inesattezza o della falsificazione dei certificati avvenute a propria insaputa (Cass., Sez. V, 19 settembre 2012, n. 15758) e che ben può premunirsi da tali eventi nell’ambito dei propri rapporti negoziali (Cass., Sez. V, 1 marzo 2013, n. 5199).

2.4 – La ricorrente sostiene poi, sotto il profilo di fatto, che le autorità malesi erano a perfetta conoscenza – o avrebbero dovuto ragionevolmente essere a conoscenza – del mero transito in Malesia della merce in oggetto, siccome depositata nella zona (OMISSIS), e che, inoltre, non vi sarebbe prova che l’operazione oggetto di contestazione riguardasse merce di origine cinese, in quanto il rapporto Olaf aveva accertato la provenienza dalla Cina solo di parte delle spedizioni di lampade importate dalla predetta zona franca.

Ora (al di là del rilievo che con i predetti assunti Lillo, anzichè contestare passi specifici della sentenza d’appello, sembra richiedere in via diretta a questa Corte un riesame del merito della vertenza) va osservato che su tali punti il motivo difetta totalmente del requisito della specificità, richiesto a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., nn. 4 e 6, in quanto non chiarisce se e in qual modo le circostanze di fatto in questa sede dedotte abbiano formato oggetto della cognizione devoluta al giudice d’appello nè precisa se, e in quale esatta sede processuale, sia stato prodotto il documento (rapporto OLAF, non allegato al ricorso e riprodotto solo in minima parte nel motivo) in base al quale le stesse dovrebbero ritenersi accertate.

3 – Il terzo motivo è inammissibile.

Il mezzo risulta infatti indirizzato verso l’originario avviso di accertamento, laddove invece avrebbe dovuto censurare il capo della sentenza che ha ritenuto l’avviso pienamente motivato sulla base dei risultati di una indagine svolta da ben due autorità (MITI e OLAF), le quali hanno accertato la falsità dell’origine delle lampade fluorescenti CFL-i.

4 – Il quarto motivo è infondato.

Lo stesso ricorrente menziona la consolidata giurisprudenza di questa Corte, da cui non v’è motivo di discostarsi, secondo cui la sanzione amministrativa in oggetto, a termini del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303, attiene alle ipotesi contemplate dalla norma, comma 1, ovvero alle “dichiarazioni relative alla qualità, alla quantità ed al valore delle merci” che non corrispondano all’accertamento degli Uffici finanziari, tra cui ricadono anche le dichiarazioni sull’origine della merce, quali ipotesi specifiche di “qualità” di una merce (Cass., sez. V, 25 gennaio 2019, n. 2169; Cass., sez. V, 20 dicembre 2018 n. 32956; Cass., sez. V, 27 settembre 2016, n. 15872; Cass., sez. V, 14 febbraio 2014, n. 3467). L’irrogazione della sanzione è legata alla mera “non corrispondenza” della merce alla dichiarazione di origine preferenziale, la quale a sua volta viene meno per effetto degli esiti del controllo a posteriori che, ove non consenta di confermare l’origine delle merci, comporta che dette merci risultino di origine ignota, il che rende indebita la concessione della tariffa preferenziale (Corte di Giustizia, 7 dicembre 1993, Huygen, C 012/92, Corte di Giustizia 14 maggio 1996, Faroe Seafood, CE153/94 e Cl204/94, cit., Corte di Giustizia, 15 dicembre 2011, Hauptzollamt HamburpHafen, C-409/10).

5 – Il quinto motivo è inammissibile.

La ricorrente, più che denunciare una violazione di legge o un vizio di motivazione, ha dedotto l’omesso esame da parte del giudice di appello dell’eccezione di nullità dell’atto di contestazione della sanzione per insussistenza dell’elemento della (sua) colpevolezza. La censura avrebbe dovuto dunque essere prospettata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione del principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato; peraltro, pur a ritenerla esaminabile sotto questo profilo, difetterebbe totalmente del requisito della specificità, non avendo la ricorrente (che sul punto si è limitata a riportare le motivazioni della sentenza resa nel procedimento penale instaurato a carico del suo legale rappresentante) precisato se, ed in quali esatti termini, la questione sia stata tempestivamente dedotta in giudizio e devoluta all’esame del giudice d’appello.

Il ricorso va pertanto rigettato, con regolazione delle spese del giudizio di legittimità secondo il principio della soccombenza.

Ricorrono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che si applica ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, dovendosi aver riguardo al momento in cui la notifica del ricorso per cassazione si è perfezionata, con la ricezione dell’atto (Cass., Sez. U., 18 febbraio 2014, n. 3774), atteso che nella specie la notificazione è stata ricevuta dall’Agenzia delle dogane in data 30.05.2013.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso; condanna LILLO SPA al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’AGENZIA DELLE DOGANE, che liquida in complessivi Euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 6 febbraio 2019

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2019

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