Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17497 del 28/06/2019

Cassazione civile sez. trib., 28/06/2019, (ud. 19/09/2018, dep. 28/06/2019), n.17497

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angel – M. –

Dott. NONNO G.Mari – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. MENGONI Enrico – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27547/2012 R.G. proposto da:

CAD La Spezia s.r.l. in liquidazione, in persona del liquidatore pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, viale Giulio Cesare n.

14, presso lo studio dell’avv. Maria Teresa Barbantini Fedeli, che

la rappresenta e difende unitamente agli avv.ti Ernesto Marinelli,

Gianni Marongiu e Maurizio Gambardella giusta procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle dogane, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Liguria, n. 81/08/12, depositata il 12 luglio 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19 settembre

2018 dal Consigliere Giacomo Maria Nonno.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 81/08/12 del 12/07/2012, la CTR della Liguria accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle dogane avverso la sentenza n. 87/04/10 della CTP di La Spezia, che aveva a sua volta accolto il ricorso proposto dalla CAD La Spezia s.r.l. (d’ora in poi solo CAD) avverso dieci avvisi di rettifica con i quali venivano richiesti, in solido con l’importatore Duralamp s.p.a., la corresponsione dei dazi cd. antidumping in relazione all’importazione di lampade fluorescenti.

1.1. Come si evince dalla sentenza della CTR e dalle difese delle parti: a) gli avvisi di rettifica derivavano dal report inviato dall’Ufficio Antifrode della UE (OLAF) di (OMISSIS), il quale aveva rilevato l’origine cinese e non filippina delle lampade importate; b) per i medesimi fatti pendeva procedimento penale per l’ipotesi di reato di contrabbando aggravato; c) la CTP accoglieva il ricorso della società contribuente; d) la sentenza della CTP era appellata dall’Agenzia delle dogane.

1.2. Su queste premesse, la CTR motivava l’accoglimento dell’appello osservando, per quanto ancora interessa in questa sede, che: a) con riferimento all’eccepita decorrenza del termine di prescrizione triennale (dalla data della bolletta doganale) per la rettifica, la comunicazione al debitore poteva avvenire “anche dopo i tre anni qualora la mancata contabilizzazione sia dovuta da un atto penalmente perseguibile, che la notitia criminis abbia alla sua base un’ipotesi di reato e che sia intervenuta entro il termine di tre anni dall’operazione doganale”, sicchè, pendendo procedimento penale davanti al Tribunale di Firenze, doveva essere ritenuto valido il recupero a posteriori dei dazi; b) appariva pienamente rispettato “il termine di 60 gg. previsti dallo Statuto del Contribuente prima della notifica degli avvisi di accertamento”; c) non sussisteva la paventata violazione del Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913 del 1992, art. 220, p. 2, lett. b), (Codice doganale comunitario – CDC) in quanto non era stata dimostrata nè la buona fede dell’esportatore, “nè l’errore dell’autorità doganale che non poteva essere scoperto dal debitore”, mentre “la buona fede dell’importatore non lo esime dalla sua responsabilità per l’adempimento dell’obbligazione doganale”; d) doveva ritenersi corretta, in relazione all’accertata origine cinese (e non filippina) della merce, l’applicazione di un dazio antidumping da parte dell’Agenzia delle dogane; e) con riferimento, infine, alla responsabilità solidale della società contribuente, “occorre tenere presente che la procedura di domiciliazione adottata dal CAD, ex art. 76 CDC, par. 1, lett. c, permette di effettuar operazioni doganali senza più l’obbligo di presentare le merci in Dogana, riducendo così i tempi di attesa e i costi di gestione. A tal fine l’unica rappresentanza che consenta di presentare dichiarazione doganale al titolare di procedura di domiciliazione può essere solo quella indiretta in cui il dichiarante si identifica nel beneficiario di tale disposizione, nella quale il rappresentante stipula per conto ma non in nome del rappresentato. La natura giuridica di tale responsabilità configura un caso di responsabilità per fatto proprio e la stessa Cassazione (v. sentenza n. 7261/2009) ha statuito che il rappresentante è responsabile solidalmente per il pagamento dei dazi insieme al rappresentato”.

2. La CAD impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a sei motivi.

3. L’Agenzia delle dogane resisteva con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il secondo motivo di ricorso (rubricato come primo) la CAD deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 84, (Testo unico sulla legge doganale – TULD) modificato dalla L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 29, comma 1, nonchè dell’art. 221 CDC, p. 3, per intervenuta prescrizione dell’azione di recupero dei dazi non riscossi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, evidenziando che il termine triennale dalla data dell’insorgenza dell’obbligazione doganale era abbondantemente decorso e l’Ufficio non aveva fornito la prova che la notitia criminis fosse stata inoltrata all’autorità giudiziaria penale entro il previsto termine triennale, il che avrebbe giustificato l’interruzione del menzionato termine.

2. Il motivo, il cui esame riveste carattere logicamente pregiudiziale, è infondato;

2.1. La CTR, sebbene con pronunciamento ellittico, ha evidenziato, da un lato, che l’azione di recupero può essere iniziata anche in epoca successiva al triennio, purchè la notitia criminis sia pervenuta entro il triennio dall’effettuazione dell’operazione doganale e, dall’altro, che tale ipotesi si è in concreto verificata, in ragione del radicamento, presso il Tribunale di Firenze di un procedimento penale anche nei confronti dei vertici della Duralamp s.p.a., riferito, dunque, al triennio in questione.

2.2. Ne consegue che il disposto normativo è stato correttamente applicato dal giudice di appello, secondo la ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, per la quale “in tema di tributi doganali, ove il loro mancato pagamento derivi da un reato, sia il termine di prescrizione dell’azione di recupero dei dazi all’importazione, che quello di decadenza per la revisione dell’accertamento del D.Lgs. n. 374 del 1990, ex art. 11, sono prorogati sino ai tre anni successivi alla data d’irrevocabilità della decisione penale, a condizione che, nel triennio decorrente dall’insorgenza dell’obbligazione doganale, l’Amministrazione emetta un atto nel quale venga formulata una “notitia criminis” tale da individuare un fatto illecito, penalmente rilevante, ed idoneo ad incidere sul presupposto d’imposta” (Cass. n. 26045 del 16/12/2016; conf. Cass. n. 615 del 12/01/2018; Cass. n. 24674 del 03/12/2015; Cass. n. 20468 del 06/09/2013; Cass. n. 14016 del 03/08/2012).

2.3. La dedotta insussistenza della prova che la notitia criminis sia pervenuta entro il primo triennio si scontra con l’accertamento di fatto contenuto nella sentenza della CTR, accertamento che non è stato debitamente censurato dalla società ricorrente, il cui motivo fa riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3. Con il terzo motivo di ricorso (rubricato come secondo) si deduce l’insufficiente motivazione in ordine all’eccepita violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, per mancata concessione del termine di sessanta giorni tra la notifica del processo verbale di constatazione e l’atto di accertamento, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sottolineando, altresì, la violazione del contraddittorio in materia doganale.

3.1. Si deduce, inoltre, la violazione del diritto di difesa, previsto dalla normativa e giurisprudenza comunitaria, evidenziando che sul punto la sentenza della CTR non si è pronunciata.

4. Il complesso motivo, che implicando la violazione di norme di diritto, è correttamente sussumibile nell’ambito della violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è infondato.

4.1. Per semplicità si riporta integralmente, sul punto, la motivazione di Cass. n. 23669 del 01/10/2018 che questo Collegio condivide: “questa Corte è ferma nel ritenere che, in tema di avvisi di rettifica emanati in esito a revisioni di accertamenti doganali, è inapplicabile la L. 20 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, perchè in tale ambito opera il ius speciale regolato dal D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, art. 11, preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento comunque anticipato rispetto alla impugnazione in giudizio del suddetto avviso.

E ciò in quanto:

a) il D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, commi 50, 7 e 8, nel testo vigente ratione temporis, che è anteriore rispetto alla novella che l’ha integrato nel 2012, prevedevano che, quando dalla revisione, eseguita sia d’ufficio, sia su istanza di parte, fossero emerse inesattezze, omissioni, o errori relativi agli elementi presi a base dell’accertamento, “l’ufficio procede alla relativa rettifica e ne dà comunicazione all’operatore interessato, notificando apposito avviso” di rettifica motivato;

b) entro trenta giorni dalla data della notifica dell’avviso, l’operatore può contestare la rettifica e in tal caso è redatto apposito verbale dall’Ufficio doganale “ai fini della eventuale instaurazione dei procedimenti amministrativi per la risoluzione delle controversie previsti dal TU, art. 66 ss., delle disposizioni legislative in materia doganale approvato con il D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43”;

c) il procedimento amministrativo in questione era preordinato a garantire un contraddittorio pieno, in un momento anticipato rispetto all’impugnazione in sede giurisdizionale dell’atto, nel corso del quale il contribuente era posto in grado di esporre tutte le ragioni difensive ed allegare nuovi fatti, indicando le opportune prove, al fine di sollecitare l’attivazione dei poteri di autotutela dell’Amministrazione doganale e quindi l’annullamento o la revoca dell’avviso di rettifica.

La specialità della disciplina in materia doganale trova conferma nella normativa sopravvenuta (D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con L. 24 marzo 2012, n. 27), la quale, nel disporre che gli accertamenti in materia doganale sono disciplinati in via esclusiva dal cit. D.Lgs. n. 374, art. 11, ha introdotto un meccanismo di contraddittorio vicino a quello previsto dallo statuto dei diritti del contribuente (tra varie, Cass. 2 luglio 2014, n. 15032 e 5 aprile 2013, n. 8399).

La Corte di giustizia, con sentenza 20 dicembre 2017, causa C276/16, Preqù Italia, ha promosso la normativa italiana, nella versione, antecedente alla novella del 2012, che è quella applicabile anche nel caso in questione nell’odierno giudizio e che, si è visto, non scandiva direttamente la fase procedimentale, lasciando all’iniziativa del contribuente la contestazione della rettifica idonea a instaurare l’interlocuzione con l’Amministrazione.

La Corte ha difatti stabilito che “Il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi deve essere interpretato nel senso che i diritti della difesa del destinatario di un avviso di rettifica dell’accertamento, adottato dall’autorità doganale in mancanza di una previa audizione dell’interessato, non sono violati se la normativa nazionale che consente all’interessato di contestare tale atto nell’ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiedere la sospensione dell’esecuzione di tale atto fino alla sua eventuale riforma rinviando al Reg. (CEE) del Consiglio, 12 ottobre 1992, n. 2913 del 1992, art. 244, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal Reg. del Parlamento Europeo e del Consiglio, 16 novembre 2000, (CE) n. 2700 del 2000, senza che la proposizione di un ricorso amministrativo sospenda automaticamente l’esecuzione dell’atto impugnato, dal momento che l’applicazione di detto Reg., art. 244, comma 2, da parte dell’autorità doganale non limita la concessione della sospensione dell’esecuzione qualora vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata con la normativa doganale o vi sia da temere un danno irreparabile per l’interessato”.

Giustappunto con riguardo a un avviso di rettifica adottato dall’autorità doganale, la Corte Europea ha sottolineato che il principio generale del diritto dell’Unione del rispetto dei diritti della difesa non si configura come una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, purchè esse rispondano a obiettivi di interesse generale e siano rispetto a questi proporzionate.

E, nel caso in esame, la Corte ha ravvisato l’interesse generale prevalente in quello dell’Unione a recuperare tempestivamente le proprie entrate, che richiede rapidità ed efficacia dell’attività di controllo.

Ed è sempre tale interesse generale, ha soggiunto, a giustificare la mancanza di automatismo della sospensione dell’esecuzione dell’avviso qualora esso sia impugnato.

D’altronde, l’art. 245 del codice doganale comunitario (Reg. n. 2913 del 1992, applicabile ratione temporis) rinvia per questi aspetti al diritto nazionale, là dove stabilisce “le norme di attuazione della procedura di ricorso sono adottate dagli Stati membri”, nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività (in termini, da ultimo, Cass., ord. 23 maggio 2018, n. 12832, in adesione alla giurisprudenza unionale sul punto).

A ogni modo, con riguardo alla versione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, anteriore alla novella, che “…non impone all’amministrazione che procede ai controlli doganali l’obbligo di ascoltare i destinatari degli avvisi di rettifica dell’accertamento prima di procedere alla revisione degli accertamenti ed alla loro eventuale rettifica” (punto 48), a chiusura la Corte ha ribadito che, in virtù del principio di strumentalità delle forme, la violazione del diritto di essere ascoltati determina l’annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso”.

4.2. Applicando i sopra menzionati principi di diritto al caso di specie, non può che ritenersi la correttezza della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui: a) esclude l’applicabilità della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7; b) ritiene che il rispetto del principio del contraddittorio sia legittimamente affidato alla previsione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, anche nella versione applicabile ratione temporis.

4.3. Infine, con riferimento alla terza questione posta con il motivo in esame (violazione del diritto di difesa previsto dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria), basterà evidenziare che valgono gli stessi principi e la stessa giurisprudenza richiamata in materia di contraddittorio.

5. Con il primo motivo di ricorso si deduce la falsa applicazione dell’art. 221 CDC, (rectius 201), p. 1, n. 3, per improponibilità della responsabilità oggettiva dello spedizioniere doganale nel pagamento dei tributi in via solidale con il proprietario delle merci importate, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

5.1. Sotto un primo profilo, la CTR non avrebbe collegato l’art. 201 CDC al successivo art. 202, talchè lo spedizioniere/rappresentante indiretto risponde del maggior dazio accertato solo ove sia dimostrato che conosceva o avrebbe dovuto conoscere, usando l’ordinaria diligenza, l’erroneità o la falsità della dichiarazione doganale.

5.2. Sotto un secondo profilo, la CTR non avrebbe esaminato la circostanza, evidenziata dalla difesa della CAD, inerente alla struttura sociale di tale figura.

6. Il motivo è infondato.

6.1. Ai sensi dell’art. 5 CDC, p. 2, (applicabile ratione temporis, in quanto il codice doganale comunitario è stato abrogato dal Reg. (UE) 9 ottobre 2013, n. 952 del 2013, che istituisce il codice doganale dell’Unione) e del TULD, art. 40, comma 1, la dichiarazione doganale può essere fatta personalmente dall’importatore ovvero a mezzo di un rappresentante diretto o indiretto. La rappresentanza è diretta quando il rappresentante agisce a nome e per conto di terzi, indiretta, quando il rappresentante agisce a nome proprio ma per conto di terzi. Mentre la rappresentanza indiretta è libera, la rappresentanza diretta implica l’iscrizione in un apposito albo professionale istituito con la L. 22 dicembre 1960, n. 1612, ed il rispetto della disciplina prevista dalla legge medesima e dalla successiva L. n. 213 del 2000.

6.2. Dal combinato disposto dell’art. 201 CDC, p. 3, e 4, punto 18, si evince, poi, che l’obbligazione doganale sorge in capo a chi fa la dichiarazione a nome proprio ovvero alla persona in nome della quale la dichiarazione è fatta. Conseguentemente, in caso di rappresentanza diretta, la responsabilità grava, in via di principio, sul solo importatore, mentre in caso di rappresentanza indiretta è specificamente prevista la responsabilità sia dello spedizioniere che dell’importatore (cfr. Cass. n. 9773 del 23/04/2010; Cass. n. 7720 del 27/03/2013; Cass. n. 9270 del 17/04/2013).

6.2.1. L’obbligazione doganale sorge, altresì, in caso di introduzione irregolare di merce ai sensi dell’art. 202 CDC, p. 1, lett. a); e l’introduzione della merce è considerata irregolare quando non è stata oggetto di una presentazione in dogana, conformemente alle Disp. degli artt. da 38 a 41 CDC, e, quindi, quando non c’è stata la presentazione della merce in dogana con la relativa dichiarazione (cfr. CGUE 25 gennaio 2017, causa C-679/15, UltraBrag AG, punto 20). In tale caso sono debitori, ai sensi dell’art. 202 CDC, p. 3: la persona che ha proceduto a tale introduzione irregolare (cioè, quella che normalmente avrebbe dovuto svolgere le operazioni di sdoganamento e adempiere gli obblighi del dichiarante in dogana), nonchè le persone che hanno partecipato a questa introduzione sapendo o dovendo, secondo ragione, sapere che essa era irregolare e le persone che hanno acquisito o detenuto la merce considerata e sapevano o avrebbero dovuto, secondo ragione, sapere allorquando l’hanno acquisita o ricevuta che si trattava di merce introdotta irregolarmente (cioè le persone che, sebbene non siano tenute a procedere alle operazioni di sdoganamento in forza delle disposizioni del CDC, sono state nondimeno coinvolte nell’introduzione irregolare sia prima, sia immediatamente dopo la stessa: cfr. CGUE 25 gennaio 2017, u/t. cit., punti 21 e 22; Cass. n. 9433 del 12/04/2017; Cass. n. 5159 del 01/03/2013).

6.2.2. Per completezza deve evidenziarsi che l’obbligazione doganale sorge anche a seguito della sottrazione della merce presentata in dogana ai sensi dell’art. 203 CDC. In tale ipotesi, “costituisce sottrazione di una merce al controllo doganale (..) qualsiasi ritiro, non autorizzato dall’autorità doganale competente, di una merce sottoposta alla vigilanza doganale dal luogo di custodia autorizzato, a prescindere dall’intenzionalità dello stesso” (così Cass. n. 29535 del 16/11/2018, che richiama CGUE 18 maggio 2017, causa C-154/16, Latvij as Dzelzcelp. VAS, punto 42, e CGUE 11 luglio 2013, causa C-273/12, Harry Winston, punti 30 e 33).

6.3. Nel caso di specie, è pacifico tra le parti che la CAD sia rappresentante indiretto dell’importatore, sicchè lo spedizioniere risponde in solido con quest’ultimo dell’obbligazione doganale per il

semplice fatto di avere presentato la dichiarazione in dogana anche per (Ndr: Testo originale non comprensibile) dichiarazione impegnativa con riferimento all’esattezza delle indicazioni figuranti nella dichiarazione, all’autenticità dei documenti presentati e all’osservanza di tutti gli obblighi inerenti al vincolo delle merci importate al regime considerato (cfr. Reg. (CEE) n. 2454 del 1993, art. 199).

6.5. Ne consegue che le conclusioni cui è giunta la CTR, sia pure sinteticamente espresse (si veda supra, Fatti di causa, p. 1.2., lett. e), sono del tutto corrette, non potendo nemmeno ritenersi che la responsabilità dello spedizioniere rappresentante indiretto integri una forma di responsabilità oggettiva, ben potendo quest’ultimo provare la propria buona fede alle condizioni previste dall’art. 220 CDC, p. 2, lett. b, (sulla questione si veda anche Cass. n. 7720 del 27/03/2013).

7. Con il quarto motivo di ricorso (rubricato come terzo) la CAD assume la violazione e falsa applicazione dell’esimente prevista dall’art. 220 CDC, p. 2, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, evidenziando la sussistenza, in ipotesi, di tutti i requisiti previsti dalla legge per il suo riconoscimento.

8. Il motivo è “infondato.

8.1. Occorre partire dal fondamentale arresto della S.C., secondo il quale “in tema di tributi doganali, l’applicazione del regime di esenzione o riduzione daziaria presuppone la regolarità formale e sostanziale della documentazione relativa all’origine e/o alla provenienza della merce, intendendosi per “origine” il luogo dove la merce è stata realizzata e per “provenienza” il luogo dal quale essa giunge o dove è stata oggetto di lavorazione o trasformazione (a tal fine non essendo sufficienti le operazioni di spolveratura, lavaggio, verniciatura, selezione, riduzione a pezzi, ecc.); pertanto, considerato che un certificato di origine “ignota” va considerato come “inesatto”, le Autorità doganali, qualora constatino la falsità dei certificati di origine e provenienza, devono procedere alla contabilizzazione “a posteriori” dei dazi doganali, salve le deroghe nei seguenti casi tipizzati che devono concorrere cumulativamente: riscossione dovuta ad errore delle autorità competenti (sia di quella alla quale spetta procedere al recupero sia di quella di rilascio del certificato preferenziale di esportazione); errore tale da non poter essere ragionevolmente riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza professionale e diligenza, provocato da un comportamento “attivo” delle autorità che rilasciarono il certificato, non rientrandovi l’errore indotto da dichiarazioni inesatte rese dall’esportatore, salvo che le autorità di quel paese fossero informate o dovessero sapere dell’inoperatività dell’esenzione; osservanza di tutte le disposizioni previste dalla normativa vigente per la dichiarazione in dogana” (Cass. n. 4997 del 02/03/2009).

8.2. La deroga al recupero a posteriori è appunto quella prevista dall’art. 220 CDC, p. 2, lett. b), ammessa al cospetto delle tre condizioni che la norma contemporaneamente richiede, ossia che il rilascio irregolare dei certificati di origine sia dovuto ad un errore delle autorità competenti, che l’errore commesso dalle autorità sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato dal debitore di buona fede e, infine, che quest’ultimo abbia osservato tutte le prescrizioni della normativa in vigore (vedi CGUE 14 maggio 1996, cause C-153/94 e C204/94, Faroe Seafood e altri; CGUE 3 marzo 2005, causa C-499/03 P, Biegi Nahrungsmittel e Commonfood; CGUE 18 ottobre 2007, causa C173/06, Agrover; CGUE 15 dicembre 2011, C-409/10, Afasia Knits; CGUE 16 marzo 2017, causa C-47/16, Veloserviss).

8.2.1. In particolare, non può dirsi sussistente la buona fede dell’importatore “qualora, sebbene abbia evidenti ragioni per dubitare dell’esattezza di un certificato di origine “modulo A”, un importatore si sia astenuto dall’informarsi, nella massima misura possibile, delle circostanze del rilascio di tale certificato per verificare se tali dubbi fossero giustificati” (così CGUE 16 marzo 2017, cit., punto 43).

8.3. Nel caso di specie l’Ufficio doganale di La Spezia ha correttamente proceduto alla contabilizzazione a posteriori dei dazi in ragione del fatto che l’origine della merce, indicata dall’esportatore come filippina, è stata in un secondo momento accertata come cinese; e poichè la falsa certificazione di origine della merce non è oggetto di contestazione, con ciò l’Ufficio ha assolto all’onere probatorio sullo stesso gravante (cfr. CGUE 16 marzo 2017, cit., punto 47), restando a carico di importatore e, in ragione della sua ritenuta responsabilità, della CAD la prova della ricorrenza delle ulteriori condizioni per l’applicazione della esenzione prevista dall’art. 220 CDC, par. 2, lett. b), (cfr. Cass. n. 7674 del 16/05/2012, in motivazione).

8.4. In proposito, va prima di tutto evidenziato che “il debitore non può nutrire un legittimo affidamento quanto alla validità dei certificati EUR 1 per il fatto che essi siano stati ritenuti inizialmente veritieri dalla autorità doganale di uno Stato membro dato che le operazioni effettuate da detti uffici nell’ambito dell’accettazione iniziale delle dichiarazioni non ostano affatto all’esercizio di controlli successivi” (CGUE 9 marzo 2006, causa C-293/04, Beemsterboer Coldstore Services BV, richiamata da Corte di giustizia, 8 novembre 2012, causa C-438/11, Lagura, in riferimento ai certificati FORM A, documenti giustificativi utili a fruire delle preferenze generalizzate unilateralmente concesse dalla UE), e ciò in quanto le prescrizioni del CDC, alla luce del suo sesto considerando (“considerando che, tenuto conto della grande importanza che il commercio esterno ha per la Comunità, occorre sopprimere o per lo meno limitare, per quanto possibile, le formalità e i controlli doganali”), vanno interpretate nel senso che “(…) al momento dell’accettazione della dichiarazione in dogana, l’autorità suddetta non si pronuncia sull’esattezza delle informazioni fornite dal dichiarante, di cui quest’ultimo si assume la responsabilità” (CGUE 15 settembre 2011, causa C-138/10, DP Group EOOD). Ne consegue, ha ribadito la Corte, che “(…) qualora un controllo a posteriori non consenta di confermare l’origine della merce indicata nel certificato EUR 1, si deve ritenere che essa sia di origine ignota e che, per conseguenza, il certificato EUR 1 e la tariffa preferenziale siano stati concessi indebitamente” (Corte giustizia, 9 marzo 2006, cit.).

8.5. Secondariamente, a fronte dell’accertata falsità dei certificati di origine della merce, l’Unione Europea non può essere tenuta a sopportare le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini rientranti nel rischio dell’attività commerciale, e contro i quali gli operatori economici ben possono premunirsi nell’ambito dei loro rapporti negoziali (CGUE 17 luglio 1997, causa C-97/95, Pascoal & Filhos; Cass. n. 19195 del 06/09/2006; Cass. n. 14509 del 30/05/2008; Cass. n. 1583 del 03/02/2012; Cass. n. 15758 del 19/09/2012).

8.6. Nel caso di specie, è irrilevante lo stato soggettivo di consapevolezza della irregolarità della introduzione della merce in capo alla CAD, in considerazione dell’obbligo che grava su quest’ultima di vigilare “sull’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione dall’esportatore, al fine di evitare abusi” (Cass. n. 24675 del 23/11/2011).

8.6.1. L’affermazione dell’obbligo in questione si rispecchia nel punto 57 della sentenza della Corte di giustizia 17 luglio 1997, causa C-97/95, Pascoal & Filhos, richiamata da Cass. n. 24675 del 2011, cit., la quale espressamente paventa che, se la buona fede dell’importatore fosse capace di esentarlo comunque da responsabilità, “(…) l’importatore sarebbe indotto a non verificare più l’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione da parte dell’esportatore, nè la buonafede di quest’ultimo, il che darebbe luogo ad abusi”.

8.6.2. Si noti che, sebbene la sentenza della Corte di giustizia si riferisca al Reg. CEE Consiglio, 24 luglio 1979, n. 1697 del 1979, l’attualità del pericolo paventato dalla Corte di giustizia e dell’obbligo affermato da questa Corte trovano riscontro nell’art. 220 CDC, par. 2, lett. b), secondo cui “la buona fede del debitore può essere invocata qualora questi possa dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale”.

8.6.3. Si tratta, in questo caso, di una diligenza qualificata, da ragguagliare, giusta l’art. 1176 c.c., comma 2, alla “natura dell’attività esercitata”; in particolare, l’esercizio professionale dell’attività di rappresentante indiretto dell’importatore da parte della società contribuente comporta ineludibilmente che lo sforzo diligente ad essa richiesto si estenda al controllo esigibile dell’esattezza delle informazioni fornite dall’esportatore allo Stato di esportazione (Cass. n. 5199 del 01/03/2013; Cass. n. 6621 del 15/03/2013).

8.7. nella fattispecie, inoltre, non può nemmeno configurarsi l’errore determinato da un comportamento “attivo” delle autorità competenti: l’Ufficio doganale di La Spezia così come l’Autorità doganale filippina si sono limitate ad esaminare la regolarità formale dei documenti giustificativi del regime preferenziale, come loro specifico onere. Solo successivamente, a seguito della segnalazione dell’OLAF e una volta venuta a conoscenza della diversa origine della merce, l’Agenzia delle dogane ha proceduto al recupero a posteriori (comportamento ritenuto legittimo da CGUE 16 marzo 2017, cit.).

9. Con il quinto motivo di ricorso (rubricato come quarto) si deduce l’omessa pronuncia della CTR in ordine al lamentato difetto di prova dell’origine della merce (cinese anzichè filippina), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

10. La censura, che, sebbene plurima, integra chiaramente un vizio di omessa pronuncia, è infondata.

10.1. In realtà, la sentenza della CTR pone a fondamento della origine cinese e non filippina della merce importata i rapporti dell’OLAF e tale diversa origine rispetto a quella dichiarata pone a fondamento dell’intera sentenza, dando altresì atto dell’esistenza del processo penale.

10.2. Non può, pertanto, parlarsi di omessa pronuncia sul punto, ma al più di un implicito rigetto, fondandosi le ulteriori statuizioni della sentenza proprio su tale rigetto. Invero, “ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia” (Cass. n. 24155 del 13/10/2017; conf. Cass. n. 20311 del 04/10/2011; Cass. n. 29191 del 06/12/2017).

11. Con il sesto motivo di ricorso (rubricato come quinto) il CAD deduce l’omessa pronuncia sulla violazione del Reg. (CE) n. 384 del 1996, del Consiglio relativo alla difesa contro le importazioni oggetto di dumping da parte di Paesi non membri della UE, nonchè la violazione del Trattato istitutivo della CE, art. 253, e dell’Accordo antidumping stipulato in sede di Organizzazione mondiale del commercio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5.

11.1. In buona sostanza, piuttosto che articolare un vero e proprio motivo di ricorso, la CAD chiede che venga disposto il rinvio pregiudiziale alla CGUE: a) con riferimento alla validità del Reg. (CE) 16 luglio 2001, n. 1470 del 2001, che istituisce i dazi antidumping per cui è controversia; b) con riferimento al diritto al contraddittorio in sede doganale.

12. La questione posta sub a) sarebbe astrattamente rilevante in quanto, se il regolamento dovesse essere ritenuto illegittimo, il dazio antidumping non sarebbe applicabile.

12.1. La questione è stata tuttavia già affrontata e risolta dalla sentenza del Tribunale della UE, 11 luglio 2013, causa T-469/07, Philips Lighting, che ha ritenuto la legittimità del Reg. (CE) 16 luglio 2001, n. 1470 del 2001, ivi comprese le misure antidumping in esso previste. Poichè la menzionata sentenza è stata confermata, in sede di impugnazione, dalla sentenza della Corte di giustizia, 8 settembre 2015, causa C-511/13, Philips Lighting, la questione pregiudiziale posta va disattesa, essendosi gli organi di giustizia comunitari già pronunciati in materia.

12.2. La questione sub b), invece, è stata già affrontata in sede di esame del terzo motivo ed, essendo la giurisprudenza della Corte pienamente conforme agli indirizzi della Corte di giustizia, pienamente applicati anche nel caso di specie, va disattesa.

13. in conclusione, il ricorso va rigettato e la ricorrente va condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che si liquidano come in dispositivo, avuto conto di un valore di lite dichiarato compreso tra Euro 260.000 ed Euro 520.000.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 7.800,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 19 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2019

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