Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17493 del 20/08/2020

Cassazione civile sez. III, 20/08/2020, (ud. 03/03/2020, dep. 20/08/2020), n.17493

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 36523 del ruolo generale dell’anno

2018 proposto da:

C.D., (C.F.: (OMISSIS)), C. HOLZSERVICE S.r.l.

(C.F.: (OMISSIS)), in persona dell’amministratore unico, legale

rappresentante pro tempore, C.D., rappresentato e difeso,

giusta procura in calce al ricorso, dagli avvocati Simone Ciccotti,

(C.F.: CCCSMN64H06H501C), Renato Clarizia, (C.F.: CLRRNT50R10H703E)

e Giuseppe Spada (C.F.: SPDGPP68R161754O);

– ricorrenti –

nei confronti di:

M.R.A., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e difeso,

giusta procura in calce allegata al controricorso, dall’avvocato

Maria Isabella Torriani, (C.F.: TRRMSB37T69G479G);

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Ancona n.

1990/2018, pubblicata in data 28 settembre 2018 (e notificata in

data 12 ottobre 2018);

udita la relazione sulla causa svolta alla Camera di consiglio del 3

marzo 2020 dal Consigliere Dott. Augusto Tatangelo.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.D., in proprio e quale legale rappresentante della C. Holzservice S.r.l., ha agito in giudizio nei confronti di M.R.A. per ottenere la dichiarazione di nullità, e/o invalidità, e/o annullamento, e/o inefficacia, di una transazione stipulata tra la società ed il M.R. e di una dichiarazione di debito da lui sottoscritta, in proprio, in pari data, nonchè la restituzione delle prestazioni eseguite in adempimento di detti atti negoziali.

Le domande sono state rigettate dal Tribunale di Pesaro, che ha altresì condannato le parti attrici, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., al risarcimento di un importo di Euro 30.000,00 in favore del convenuto.

La Corte di Appello di Ancona ha confermato il merito della decisione di primo grado con riguardo alla validità degli atti negoziali impugnati, ma, in parziale riforma della stessa, ha rigettato la domanda risarcitoria proposta dal convenuto ai sensi dell’art. 96 c.p.c..

Ricorre il C., in proprio e quale legale rappresentante della C. Holzservice S.r.l., sulla base di sei motivi.

Resiste con controricorso il M.R..

Il ricorso è stato trattato in Camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375 e 380 bis.1 c.p.c..

Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla domanda di riforma della pronuncia impugnata in violazione del disposto degli artt. 112 e 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”.

Il ricorrente C.D. sostiene che la corte di appello avrebbe omesso la pronuncia sui motivi di gravame da lui avanzati in proprio, prendendo in considerazione solo la posizione della società.

Il motivo è infondato.

La corte territoriale ha espressamente preso in esame il gravame proposto dal C. in proprio, giudicandolo infondato.

Ha in primo luogo chiaramente esposto (in relazione al “primo motivo di gravame”) le ragioni per cui non poteva attribuirsi alcun rilievo all’incompleta trascrizione delle conclusioni delle parti nell’epigrafe della sentenza di primo grado, avendo comunque il tribunale esaminato e adeguatamente valutato tutte le domande proposte, sia dalla società che dal C. in proprio.

Ha altresì preso in considerazione, nel merito, le doglianze avanzate dal C. in proprio, in relazione alle domande tese ad ottenere la dichiarazione di invalidità della sua dichiarazione di debito, giudicando anche queste doglianze infondate, in particolare con riguardo alla dedotta violenza in suo danno ed alla questione della temerarietà e/o inesistenza delle pretese specificamente dirette nei suoi confronti.

In proposito ha espressamente chiarito che anche il C., in proprio, era stato parte della transazione stipulata e, benchè fosse pacifico che nei suoi confronti il M.R. non avesse mai vantato alcuna pretesa, vi aveva partecipato per “sostenere gli impegni della propria ditta nei confronti del M.” (implicitamente ma inequivocabilmente lasciando intendere che il C. – benchè non obbligato in proprio si era spontaneamente assunto, almeno in parte, l’onere delle obbligazioni della società, in particolare di quelle da essa assunte in via transattiva, per favorire la stessa transazione e al tempo stesso garantire il M.R. con il proprio patrimonio).

Orbene, le censure di cui al motivo di ricorso in esame, nella sostanza, sono dirette a contestare il merito della decisione sopra richiamata in ordine al gravame proposto dal C. in proprio, il che conferma che deve escludersi la dedotta omissione di pronuncia da parte della corte di appello.

2. Con il secondo motivo si denunzia “Nullità della sentenza perchè affetta da “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, basata su “motivazione perplessa e obbiettivamente incomprensibile” e connotata da “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” in violazione del disposto dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4″.

Viene sostanzialmente posta la medesima questione di cui al primo motivo.

In via subordinata, per il caso di rigetto del primo motivo, il ricorrente deduce infatti che, ove ritenuta sussistente, la motivazione espressa dalla corte di appello in relazione al rigetto della sua domanda sarebbe insanabilmente contraddittoria sul piano logico.

Anche questo motivo è infondato.

Lo stesso ricorrente riporta nel ricorso la parte della sentenza impugnata in cui si chiarisce (come già rilevato) che egli, in proprio, era certamente stato parte della transazione (tale circostanza non è in realtà neanche messa in discussione nel ricorso) e, benchè fosse pacifico che nei suoi confronti il M.R. non avesse mai vantato alcuna pretesa, vi aveva partecipato, anche con la sua dichiarazione di debito, per “sostenere gli impegni della propria ditta nei confronti del M.”.

Si tratta di una motivazione che, intesa nel suo senso effettivo, risulta del tutto coerente sul piano logico.

La corte di appello, implicitamente ma molto chiaramente, ha infatti inteso affermare che il C. – benchè in origine non obbligato in proprio, come era pacifico tra le stesse parti – si era spontaneamente assunto, almeno parzialmente, l’onere delle obbligazioni della società, per favorire la transazione e al tempo stesso per garantire il M.R. in ordine al relativo adempimento, con il proprio patrimonio.

Emerge del resto dagli atti la circostanza che l’impegno del C. in proprio è consistito nel girare al M.R. una serie di assegni bancari tratti dalla società in suo favore, assegni che avrebbero dovuto essergli restituiti al momento del pagamento: cioè, nella sostanza, il C. si è assunto obbligazioni il cui onere economico comunque gravava, in virtù dell’emissione dei titoli di credito, in capo alla società, essendogli consentito di agire in regresso nei confronti di quest’ultima, dopo il pagamento.

Dunque, il C. ha di fatto assunto un onere che, sul piano sostanziale e concreto, equivale ad una garanzia per le obbligazioni della società (ciò fermo restando che anche la spontanea assunzione, esclusivamente a proprio carico, di quegli obblighi non sarebbe stata di certo illegittima, e sarebbe anzi stata giustificata dal suo interesse alla stipula della transazione).

La circostanza che il C. non avesse obblighi preesistenti a titolo personale è del resto specificamente presa in considerazione dalla corte di appello, la quale in proposito afferma espressamente che la transazione non aveva affatto avuto ad oggetto pretese temerarie del M.R. nei confronti del C. per la semplice ragione che il M.R. non aveva in realtà mai avanzato nessuna pretesa nei confronti del C. in proprio, e quest’ultimo era intervenuto nella transazione, assumendosene in parte l’onere, solo per “sostenere” la posizione della società.

Anche sotto questo profilo, non sussiste alcuna contraddittorietà logica nella motivazione della decisione impugnata.

In definitiva la circostanza che il C. risulti obbligato in proprio, nella dichiarazione di debito contestata (e non come mero garante della società), sebbene non fosse ab origine obbligato in proprio e quindi non vi fossero pretese nei suoi confronti in ordine alle quali effettuare concessioni, circostanza sulla quale il ricorrente insiste ripetutamente, non ha sostanziale rilievo ai fini della validità del complesso degli accordi negoziali di cui si discute, nella logica della decisione impugnata.

La ricostruzione della vicenda operata dal ricorrente risulta pretestuosamente atomistica e artificiosa e non coglie l’evidente collegamento tra gli atti negoziali impugnati, posti in essere nell’ambito di un accordo transattivo pacificamente unico e plurilaterale, mentre la corte di appello, nella decisione impugnata, inquadra correttamente la vicenda nella sua complessiva unità, in modo del tutto coerente sul piano logico.

3. Con il terzo motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 115,116 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e/o omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Secondo il ricorrente, la corte di appello non avrebbe esaminato il documento costituito dalla sua dichiarazione di debito, così incorrendo in violazione degli artt. 115,166 c.p.c. e art. 2697 c.c. e/o nell’omesso esame di un fatto decisivo, in quanto lo avrebbe equiparato ad un fideiussore, affermazione spiegabile solo ammettendo la mancata considerazione dell’atto con il quale egli si era obbligato in proprio e non quale garante.

Il motivo è inammissibile.

Le censure di violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., non risultano effettuate con la necessaria specificità, in conformità ai canoni a tal fine individuati dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., Sez. U, Sentenza n. 16598 del 05/08/2016, Rv. 640829-01; Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640192-01, 640193-01 e 640194-01).

D’altra parte, la corte di appello ha certamente preso in considerazione il documento di cui il ricorrente lamenta l’omesso esame e il motivo di ricorso si risolve, nella sostanza, in una contestazione di accertamenti di fatto sostenuti da adeguata motivazione (non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile nella presente sede) e nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle prove.

La corte territoriale non ha affatto considerato il C. un semplice garante in senso tecnico ma, all’esito dell’esame della sua dichiarazione di debito, operata nel complesso dell’accordo transattivo stipulato, ha ritenuto che questi (come già ripetutamente chiarito) vi fosse intervenuto per “sostenere” la posizione della società.

Il documento di cui si lamenta l’omesso esame è stato comunque certamente preso in considerazione dai giudici di merito ed il suo contenuto concreto è stato valutato sulla base del loro prudente apprezzamento, il che esclude sia che possa sussistere la violazione delle norme di legge richiamate dal ricorrente sulla valutazione delle prove, sia che possa ritenersi integrata l’ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo, secondo il parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4. Con il quarto motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 1971 c.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Il ricorrente afferma che, essendo la pretesa oggetto di transazione nei suoi confronti palesemente temeraria, erroneamente la corte di appello avrebbe escluso la sua annullabilità ai sensi dell’art. 1971 c.c..

La censura è presentata come conseguenza della fondatezza di quelle di cui ai due motivi precedenti di ricorso.

Non avendo trovato accoglimento tali motivi, peraltro, essa non può che subire la medesima sorte, per le medesime ragioni già esposte.

5. Con il quinto motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 1965 c.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Secondo il ricorrente, non avendo il M.R. avanzato pretese nei suoi confronti, non vi erano i presupposti perchè egli stipulasse un valido contratto di transazione, per il quale sono richieste reciproche concessioni delle parti.

Il motivo è inammissibile, ancor prima che infondato per le medesime considerazioni espresse in relazione ai motivi che precedono.

La corte di appello ha ampiamente chiarito che la transazione stipulata non aveva affatto ad oggetto pretese contro il C. in proprio, pretese mai formulate del resto dal M.R., ma esclusivamente pretese contro la società, pretese certamente sussistenti, almeno nei limiti necessari a giustificare la transazione, precisando che C. era intervenuto nella transazione per sostenere la posizione della società (non quale garante in senso tecnico, ma quale assuntore in proprio di alcune delle obbligazioni della stessa società, come già esposto).

E’ quindi evidente che la censura in esame non coglie adeguatamente la effettiva ratio decidendi della pronunzia sul punto in discussione.

Ancora una volta, comunque si tratta di contestazioni che si risolvono, in sostanza, in una non ammissibile sollecitazione alla rivisitazione di questioni fatto.

6. Con il sesto motivo si denunzia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2233, 1372, 1971, c.p.c., in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Secondo i ricorrenti, con una transazione precedente a quella oggetto del presente giudizio (transazione stipulata tra la società ed il M.R. in relazione all’attività di concorrenza sleale svolta da quest’ultimo ed alla sua posizione di socio e amministratore della società) era stato previsto un compenso per le prestazioni professionali del M.R.. E la corte di appello avrebbe affermato che le successive maggiori pretese di quest’ultimo, in relazione alle medesime prestazioni, sarebbero giustificate in quanto il compenso stabilito in sede transattiva era “esiguo”, senza però considerare che la misura del compenso professionale, se oggetto di espressa pattuizione tra le parti, non è sindacabile dal giudice.

Anche questo motivo, prima ancora che manifestamente infondato, è inammissibile in quanto non coglie adeguatamente le effettive ragioni della decisione sul punto in contestazione.

I giudici di merito non hanno affatto ritenuto che la prima transazione tra il M.R. e la società aveva avuto ad oggetto anche le sue prestazioni professionali, sebbene compensate in modo “esiguo”.

Al contrario, essi hanno affermato che quell’accordo transattivo non aveva affatto riguardato le prestazioni professionali del M.R., ma solo la sua attività di amministratore e/o dirigente della società.

L'”esiguità” del corrispettivo previsto in quella transazione è stata esclusivamente valutata come una delle circostanze di fatto che inducevano ad escludere che l’accordo avesse ad oggetto anche le prestazioni professionali, contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti.

7. Il ricorso è rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna i ricorrenti a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 7.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonchè spese generali ed accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2020

 

 

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