Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1749 del 24/01/2018


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Cassazione civile, sez. II, 24/01/2018, (ud. 20/09/2017, dep.24/01/2018),  n. 1749

Fatto

RITENUTO IN FATTO

L’avv. P.D. adiva il GP di Monza chiedendo la condanna di Z.F., quale erede di Z.P. per prestazioni professionali in due procedimenti rispettivamente davanti al GP ed al tribunale di Milano.

Il convenuto resisteva con varie eccezioni ed il GP rigettava la domanda mentre il Tribunale di Monza, in riforma, condannava Z. a pagare euro 923,66 oltre accessori e compensava integralmente le spese dei due gradi, alla luce dell’esiguo valore della controversia e del solo parziale accoglimento delle domande proposte.

Propone ricorso per cassazione l’avv. P. con tre motivi, non svolge difese controparte.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il primo motivo di ricorso si pone il quesito se il giudice possa valutare la misura della parcella in difetto di specifica contestazione, col secondo si pone il quesito se, nonostante la mancata contestazione della parcella, questa possa essere oggetto di valutazione non sulla base di eccezione ma della semplice allegazione di un fatto estraneo all’oggetto specifico, con ulteriori quesiti ed in particolare, quello finale, se le spese del ctu possano essere anticipate dall’avvocato allorquando genero della parte.

Col terzo motivo si chiede la condanna alle spese con vari quesiti sulla soccombenza.

Ciò premesso si osserva:

La sentenza, per quanto ancora interessa, premesso essere pacifico che la compagna dell’attore era sorella del convenuto, esaminando i motivi di appello, ha statuito che le spese di ctu non erano dovute in quanto non relative ad un debito ereditario ed ha determinato i compensi.

Le prime due censure sono inammissibili non traducendosi nella denunzia di una violazione di legge od omesso esame di fatto decisivo e controverso ma nella formulazione di una serie di quesiti che non tengono conto della particolare natura della controversia nè forniscono elementi sufficienti per apprezzare l’idoneità delle doglianze in mancanza di specificità nell’esposizione dei fatto e nei motivi. A seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, è denunciabile in cassazione solo l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (Cass. 8 ottobre 2014, n. 21257, Rv. 632914).

Il vizio motivazionale previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5), pertanto, presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico.

Sotto altro profilo, come precisato dalle Sezioni Unite, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Può essere pertanto denunciata in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Nel caso di specie non si ravvisano nè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, nè un’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Quanto ai primi due motivi, il giudice di appello, al di là delle espressioni adoperate a pagina tre della sentenza, non ha rilevato di ufficio un difetto di procura nè ha negato che il rapporto professionale con l’avvocato iniziato dal de cuius potesse proseguire con gli eredi, ma ha sia pure implicitamente affermato che, dopo la morte del de cuius, il debito non è più qualificabile come ereditario. E poichè è stata proposta una domanda di condanna al pagamento di un debito ereditario (pag. 2 della sentenza) ha escluso solo il quantum della parcella che riguardava le attività successive alla morte del de cuius.

Dunque non si tratta della rilevazione di ufficio di un difetto di procura ma del controllo delle condizioni di fondamento della domanda, che indiscutibilmente deve avvenire di ufficio. Nè ciò contrasta con la ritenuta non contestazione dell’an e del quantum della pretesa professionale azionata: il senso della motivazione è appunto che, benchè sia indiscusso che l’avvocato attore abbia svolto le attività dedotte e per l’importo richiesto, resta controverso che lo Z. debba rispondere anche per la frazione di esse che non costituisce debito ereditario.

Essendo questo il senso complessivo della decisione le prime due censure non colgono esattamente la ratio decidendi e sono inammissibili.

Quanto all’ulteriore profilo che gli eredi possono conferire il mandato di proseguire la causa, anche prima e in realtà anche senza conferire alcuna espressa procura alla lite(atteso che l’avvocato del tutto legittimamente può non dichiarare l’evento interruttivo), va precisato che in tal caso si è in presenza di un nuovo mandato professionale che ovviamente non dà vita ad un debito ereditario e, dunque l’erede non ne risponde se non ed in quanto anche egli, da solo o insieme agli altri eredi, lo abbia conferito.

Poichè tale specifico conferimento del nuovo incarico da parte dello Z. non è oggetto di allegazione da parte dell’attore (che a pagina nove del ricorso parla di conferimento da parte degli eredi menzionando la moglie del de cuius prima ed i figli di lei, poi), la sentenza ha correttamente escluso la parte del credito professionale imputabile alle attività successive.

Il fatto che Z.F. non abbia contestato tale mandato da parte degli altri eredi non ha alcuna efficacia ammissiva del debito a proprio carico, perchè nè il convenuto ha mai ammesso di aver conferito mandato in proprio nè l’attore ha mai sostenuto di aver ricevuto il nuovo incarico dallo stesso ed è irrilevante che altri eredi abbiano conferito il nuovo incarico perchè ciò non comporta che debbano rispondere anche coloro che tale incarico non abbiano dato. L’intero ricorso si basa su di una impropria trasposizione di piani diretta ad estendere la responsabilità dell’erede convenuto oltre il debito ereditario a prescindere dalla prova che questi da solo o con gli altri eredi avesse conferito un nuovo incarico all’avv. P..

La terza censura è infondata non essendo sindacabile la motivazione sul modesto valore della controversia e l’accoglimento parziale della domanda.

Donde il rigetto del ricorso, senza pronunzia sulle spese in mancanza di difese di controparte in questa sede.

PQM

La Corte rigetta il ricorso,dando atto dell’esistenza dei presupposti ex D.P.R. n. 115 del 2002, per il versamento dell’ulteriore contributo unificato.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 20 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2018

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