Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17488 del 20/08/2020

Cassazione civile sez. lav., 20/08/2020, (ud. 18/02/2020, dep. 20/08/2020), n.17488

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14982/2014 proposto da:

P.C., M.D., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA MONTEFUSCO 4, presso lo studio dell’avvocato DARIO CALVO,

rappresentati e difesi dagli avvocati STEFANO TETI, e BIAGIO

GIANCOLA;

– ricorrenti –

contro

TELECOM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE

FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la

rappresenta e difende unitamente agli avvocati ROBERTO ROMEI, e

FRANCO RAIMONDO BOCCIA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1271/2013 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 11/11/2013, R.G.N. 49/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/02/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato BIAGIO GIANCOLA;

udito l’Avvocato GAETANO GIANNI, per delega verbale avvocato ARTURO

MARESCA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.D. e P.C. ottenevano decreto ingiuntivo con il quale era intimato a Telecom Italia s.p.a. il pagamento in favore di ciascuno di somme a titolo di retribuzioni relative al periodo aprile/ottobre 2011.

1.1. La richiesta monitoria era fondata su precedente sentenza inter partes che aveva dichiarata la nullità della cessione dei contratti di lavoro da Telecom Italia s.p.a. a HP DCS s.r.l. e disposto il ripristino dei relativi rapporti con Telecom Italia s.p.a..

2. Il giudice di primo grado ha respinto l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta da Telecom Italia s.p.a..

3. La Corte di appello di L’Aquila, in riforma della sentenza di primo grado, ha revocato il decreto ingiuntivo opposto.

3.1. La Corte di merito, respinte le preliminari eccezioni di improcedibilità e inammissibilità dell’atto di appello, ha accolto il gravame della società in punto di assenza di titolo idoneo a sorreggere in via monitoria la pretesa azionata dai lavoratori; ciò in considerazione della natura meramente accertativa della sentenza del Tribunale di Pescara, alla base della richiesta per decreto ingiuntivo, sentenza che aveva dichiarato la nullità della cessione dei contratti di lavoro operata dalla originaria datrice Telecom Italia s.p.a.; il conseguente ordine alla società di ripristino dei rapporti di lavoro con inquadramento nelle medesime pregresse mansioni o in altre equivalenti dei lavoratori costituiva condanna ad un’obbligazione in forma specifica, per sua natura non coercibile; a tanto conseguiva che in caso di mancata spontanea esecuzione da parte del soggetto tenuto all’obbligo di facere, questi era tenuto al risarcimento del danno ma giammai, in assenza della prestazione lavorativa, alle retribuzioni richieste, invece, in via monitoria.

4. Per la cassazione della decisione hanno proposto ricorso P.C. e M.D. sulla base di due motivi. La parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente, denunziando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione o falsa applicazione dell’art. 435 c.p.c., commi 2 e 3, art. 152 c.p.c., comma 2 e dell’art. 154 c.p.c., censura la sentenza impugnata per avere respinto la eccezione di improcedibilità dell’impugnazione fondata sull’assunto che la notifica dell’atto di appello era avvenuta in violazione del termine di dieci giorni di cui all’art. 435 c.p.c., comma 2; tanto aveva determinato il passaggio in giudicato della decisione di primo grado.

2. Con il secondo motivo, denunziando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione o falsa applicazione dell’art. 431 c.p.c., sul presupposto che “come già emerso nelle prime due fasi di giudizio, gli odierni ricorrenti avevano messo in mora il creditore mediante atto di precetto”, censurano la decisione di appello per avere riconosciuto, pur in presenza di costituzione in mora della parte datrice di lavoro, il diritto dei lavoratori alla retribuzione solo per i periodi cd. intermedi di mancato, effettivo, espletamento della prestazione di lavoro.

3. Il primo motivo di ricorso deve essere respinto in continuità con precedenti di questa Corte, ai quali si rinvia, non avendo gli odierni ricorrenti offerto argomenti che ne giustificassero una rimeditazione.

Secondo la condivisibile giurisprudenza di legittimità, infatti, il termine di dieci giorni entro il quale l’appellante, ai sensi dell’art. 435 c.p.c., comma 2, deve notificare all’appellato il ricorso tempestivamente depositato in cancelleria e il decreto di fissazione dell’udienza di discussione non ha carattere perentorio; la sua violazione non determina nullità in quanto non produce alcuna conseguenza pregiudizievole per la parte, perchè non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell’appellato, sempre che sia rispettato il termine che, in forza del medesimo art. 435 c.p.c., commi 3 e 4, deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell’udienza di discussione (v., tra le altre, Cass. 16/10/2013, n. 23426 e Cass. 31/05/2012, n. 8685 che hanno richiamato l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 60 del 2010, che ha ritenuto manifestamente infondata, per erroneo presupposto interpretativo, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 435 c.p.c., comma 2, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., in fattispecie in cui, malgrado l’inosservanza del termine di cui all’art. 435 c.p.c., comma 2, la notifica del ricorso e del decreto era intervenuta nel rispetto del termine di cui al successivo comma 3; e prima, tra le altre, Cass. 30/12/2010, n. 26489Cass. 15/10/2010, n. 21358).

Tale è la situazione verificatasi nel caso di specie avendo la Corte di merito, con affermazione rimasta incontrastata, dato atto che la notifica del ricorso in appello e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di discussione, era comunque avvenuta nel rispetto del termine a comparire di cui all’art. 435 c.p.c., comma 3.

4. Il secondo motivo di ricorso deve essere accolto in conformità con il recente arresto di questa Corte al quale si ritiene di dare continuità.

Secondo l’indirizzo richiamato, che costituisce superamento dell’orientamento espresso dalla precedente giurisprudenza di questa Corte (orientamento che annovera, fra le altre, Cass. 25/06/2018, n. 16694 e Cass. 09/09/2014, n. 18955), in caso di accertata illegittimità della cessione di ramo d’azienda, le retribuzioni corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa, in quanto l’invalidità della cessione determina l’istaurazione di un diverso ed autonomo rapporto di lavoro, in via di mero fatto, con il cessionario (Cass. 11/11/2019 n. 29092, in motivazione; Cass. 21/10/2019 n. 26762, in motivazione; Cass. 07/08/2019, n. 21158; Cass. 03/07/2019, n. 17784).

La condivisibile argomentazione di fondo sulla quale riposa l’affermazione della natura di mero fatto del rapporto con il soggetto cessionario muove dalla considerazione che il trasferimento d’azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto. Tale unicità è destinata a venire meno qualora il trasferimento sia dichiarato invalido, con la conseguenza che con il soggetto cessionario si instaura un nuovo rapporto, diverso da quello instaurato con il soggetto cedente; l’unicità del rapporto presuppone, infatti, la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c., sicchè accertatane l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale); in caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione) il rapporto di lavoro, quindi, non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente (cfr. da ultimo: Cass. 28/02/ 2019, n. 5998). Da tanto consegue che le vicende concernenti il rapporto “di fatto” instaurato con il soggetto cessionario e, quindi, anche le vicende risolutive dello stesso, non possono spiegare alcuna efficacia sul (parallelo) rapporto giuridico rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale).

Il precipitato logico giuridico di tale configurazione è che l’autonomia dei rapporti in oggetto impedisce di riconoscere al pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario un effetto estintivo del debito retributivo afferente al (diverso e autonomo) rapporto con il soggetto cedente.

Come chiarito da questa Corte, in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., il pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente a detto accertamento ed alla messa a disposizione delle energie lavorative in favore dell’alienante da parte del lavoratore, non produce effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa (Cass. 17784/2019 cit., Cass. 21158/2019 cit.).

In particolare Cass. n. 21158 del 2019 cit., alla quale si rinvia per l’approfondimento sistematico, ha affermato che la duplicità di rapporti di lavoro conseguenti a un trasferimento di azienda non conforme al parametro legale, comporta “accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve ne sia un’altra giuridicamente resa in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto”. E proprio il persistere della rilevanza giuridica del rapporto con il soggetto datore di lavoro cedente giustifica il riconoscimento del diritto del dipendente alla retribuzione e ciò tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (v., Cass. 23/07/ 2008, n. 20316; Cass. 23/11/2006, n. 24886). Una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva. Nè tale prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo esclude una valida offerta di prestazione all’originario datore (Cass. 08/04/2019, n. 9747), considerato che, una volta che l’impresa cedente, costituita in mora, manifestasse la volontà di accettare la prestazione, il lavoratore potrebbe scegliere di rendere la prestazione non più soltanto giuridicamente, ma anche effettivamente, in favore di essa e, ove ciò non facesse, verrebbero automaticamente meno gli effetti della mora credendi.

4.1. Da tutto quanto ora osservato scaturisce che una volta giudizialmente accertati i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda, in uno alla messa in mora operata del lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno; non vi è norma di diritto positivo che consenta di ritenere che tale obbligazione pecuniaria possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento della retribuzione da parte dell’impresa originaria destinataria della cessione.

La sentenza impugnata, nel riconosce il diritto dei lavoratori alle retribuzioni nei confronti della società cedente Telecom solo per i periodi non lavorati, non è coerente con le richiamate premesse giuridiche e deve essere cassata;

5. Al giudice del rinvio è demandato il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo e rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di L’Aquila in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 18 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2020

 

 

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