Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17460 del 31/08/2016


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Cassazione civile sez. VI, 31/08/2016, (ud. 07/07/2016, dep. 31/08/2016), n.17460

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9739/2015 proposto da:

P.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BERTARELLI

67, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE LETTERA, rappresentato e

difeso dall’avvocato DAMIANO VITERITTI, giusta procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ANAS SPA, in persona del Direttore Centrale legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo

studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e difende,

giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 546/2014 della CORTE D’APPELLO di POTENZA dei

25/09/2014, depositata il 03/10/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

07/07/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ROSA ARIENZO.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La causa è stata chiamata all’adunanza in Camera di consiglio del 7 luglio 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:

“Con sentenza del 3.10.2014, la Corte d’appello di Potenza dichiarava inammissibile il gravame proposto da P.D. avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso del predetto ritenendo che il rapporto di lavoro intercorso tra lo stesso e la s.p.a. ANAS, derivante dalla stipulazione di più contratti a termine stipulati nel periodo dal 1997 al 2002, si fosse risolto per mutuo consenso. La Corte rilevava che il gravame era da ritenere inammissibile ai sensi dell’art. 434 c.p.c., comma 1, come novellato della L. n. 134 del 2012, entrata in vigore il 12.8.2012, atteso che lo stesso doveva contenere l’indicazione delle parti del provvedimento che si intendevano impugnare e le modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado e che l’appellante aveva omesso di aggredire la sentenza nella parte in cui il primo giudice aveva ancorato la prova dell’intervenuta risoluzione per mutuo consenso solo al lasso di tempo trascorso, ma soprattutto, alla circostanza che dal 2004 il ricorrente aveva stipulato un contratto a tempo indeterminato in essere al momento del ricorso giudiziario, rendendo palese il disinteresse all’attuazione del rapporto anche con le dichiarazioni rese in sede di libero interrogatorio.

Per la cassazione di tale decisione ricorre il P., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, l’ANAS spa.

Il ricorrente, col primo motivo, censura la sentenza evidenziando errore di diritto, violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., sull’ammissibilità del ricorso in appello ed osservando che, se pure è indubbio che l’atto di appello debba contenere anche le proposte di modifica, lo stesso era stato redatto nei termini richiesti dalla norma del codice di procedura civile novellata, essendo stata analiticamente indicata la parte della sentenza impugnata ed indicati i motivi singolarmente espressi posti a giustificazione della modifica richiesta e della censura di erroneità della sentenza di primo grado. Ritiene che la riforma non abbia trasformato l’atto di appello in un gravame a critica limitata e che dal contenuto del gravame si evinceva che erano state svolte argomentazioni sull’accettazione tacita e sul comportamento concludente analoghe a quelle utilizzate dalla Corte di Potenza per giungere a ritenere l’appello inammissibile. Aggiunge che la sentenza di primo grado era stata aggredita sul mutuo consenso, sia riguardo alla parte dedicata al decorso del tempo, sia con riguardo a quella relativa all’accettazione tacita ed al comportamento concludente.

Con il secondo motivo, viene denunziata violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., rilevandosi che la Corte aveva omesso di considerare che nel caso in esame vi era stato un susseguirsi di contratti a termine e che il tempo trascorso tra la risoluzione dell’ultimo contratto e le contestazioni del lavoratore non era stato eccessivo, posto che il Pietro era stato reiteratamente riassunto dal 1997 per ben altre quattro volte. Osserva che la necessità di ricerca di un nuovo lavoro per sopperire ai bisogni di vita non poteva assumere un valore rilevante ai fini dell’individuazione del disinteresse del lavoratore all’attuazione del rapporto con l’ANAS e che non vi erano elementi sulla cui base potesse sostenersi che il lavoratore fosse pienamente consapevole della illegittimità del termine apposto ai contratti e che, nonostante, ciò, vi avesse prestato acquiescenza.

Con il terzo motivo, viene dedotta violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 1, per non essere stata la causale di ogni contratto specificata con riferimento al carattere di straordinarietà eccezionalità della prestazione lavorativa, con ciò essendo palese la nullità del termine apposto.

Il ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., nella versione prevista dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, commi 1 e 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, dolendosi in particolare dell’interpretazione fornita dalla Corte territoriale alla norma violata, contrastante con il dettato normativo che non aveva, a suo dire, mutato la struttura dell’appello nel senso di affermarne la natura di impugnazione a critica limitata. Aggiunge che era fornita ampiamente al giudice la ricostruzione in fatto e diritto richiesta e che l’appello assolveva anche alla seconda condizione richiesta dalla legge, ovvero l’indicazione delle circostanze da cui derivava la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione, con rispetto del requisito della specificità, essendo le richieste supportate ampiamente da ricostruzione in fatto della vicenda e da argomenti in diritto. Contesta, pertanto, il rigore formale preteso dalla Corte di appello, in contrasto con i principi processuali civili e costituzionali dell’ordinamento.

Questa Corte si è pronunciata sulla specifica questione della portata e della estensione della previsione di cui dell’art. 434 c.p.c., comma 1, nel testo introdotto del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. nella L. 7 agosto 2012 n. 134, affermando che “la norma, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma, in ossequio ad una logica di razionalizzazione delle ragioni dell’impugnazione, impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, il quantum appellatum e di circoscrivere l’ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza del Tribunale, ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono”. Ha aggiunto la Corte che “sotto il profilo qualitativo, le argomentazioni che vengono formulate devono proporre le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo Giudice ed esplicitate in che senso tali ragioni siano idonee a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte” (v. Cass. 5.2.2015 n. 2143).

Nella citata pronuncia è stato poi anche rilevato “che, con il motivo di ricorso con il quale si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., comma 1, si denuncia un vizio che attiene alla corretta applicazione delle norme da cui è disciplinato il processo che ha condotto alla decisione dei giudici di merito, vizio che è pertanto ricompreso nella previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1), n. 4” e che “Poichè in tali casi il vizio della sentenza impugnata discende direttamente dal modo in cui il processo si è svolto, ossia dai fatti processuali che quel vizio possono aver procurato, si spiega il consolidato orientamento di legittimità secondo il quale, in caso di denuncia di errores in procedendo del giudice di merito, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto, inteso come fatto processuale (v. Cass. n. 24481 del 2014, Cass. n. 14098 del 2009; Cass. n. 11039 del 2006; Cass. n. 15859 del 2002; Cass. n. 6526 del 2002)”.

Ove i vizi del processo si sostanzino nel compimento di un’attività deviante rispetto alla regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore, così come avviene nel caso in cui si tratti di stabilire se sia stato o meno rispettato il modello legale di introduzione del giudizio, questa Corte, con pronuncia a s.u. n. 8077 del 2012, ha affermato che il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere-dovere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda. Tuttavia, affinchè possa procedersi a riscontrare mediante l’esame diretto degli atti l’intero fatto processuale, è necessario comunque che la parte ricorrente indichi gli elementi caratterizzanti il fatto processuale di cui si chiede il riesame, nel rispetto delle disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (ex plurimis, Cass. n. 24481 del 2014, Cass. n. 8008 del 2014, Cass. n. 896 del 2014, Cass. Sez. Un. n. 8077 del 2012, cit.).

Non risulta che le prescrizioni poste da tali articoli siano state nella specie rispettate, posto che nel presente ricorso, in dispregio dei richiamati canoni di autosufficienza, non vengono trascritti i passaggi della sentenza gravata, ai quali si attribuisce la violazione processuale lamentata, e che non vengono puntualmente illustrati i passaggi argomentativi della stessa con riferimento soprattutto al contenuto del ricorso in appello ed alla correlata sentenza di primo grado.

A ciò consegue che non è consentita la comprensione della portata della doglianza, che si rivela inammissibile, rendendo preclusa la fase successiva di accesso all’esame diretto degli atti, in via astratta imposto dalla censura così come formulata. Gli ulteriori due motivi di ricorso rimangono assorbiti.

Alla stregua delle esposte considerazioni, si propone l’inammissibilità del ricorso”.

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

Il Collegio ritiene di condividere integralmente il contenuto e le conclusioni della riportata relazione e concorda, pertanto, sulla inammissibilità del primo motivo, con assorbimento degli ulteriori.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate, in favore dell’Anas spa come da dispositivo.

La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo, assorbiti gli altri; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese generali in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2016

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