Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1744 del 23/01/2019

Cassazione civile sez. trib., 23/01/2019, (ud. 17/09/2018, dep. 23/01/2019), n.1744

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 3484/11 R.G. proposto da:

Calligaris s.p.a., in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa

dall’avv. Dario Stevanato, del foro di Venezia, e dall’avv. Claudio

Lucisano, del foro di Roma, presso cui è elettivamente domiciliata

in Roma alla via Crescenzio n. 91;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 23/08/10 emessa in data 1/02/2010 dalla

Commissione Tributaria Regionale del Friuli Venezia Giulia, sezione

8, depositata in data 1/3/2010 e non notificata;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 17/9/2018 dal

Consigliere Giudicepietro Andreina;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Del Core Sergio, che ha concluso chiedendo il rigetto del

ricorso;

udito gli avvocati della società ricorrente Dario Stevanato e

Claudio Lucisano e l’Avvocato dello Stato Gianna Galluzzo per

l’Agenzia delle Entrate, contro ricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Calligaris s.p.a. ricorre con due motivi avverso l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza n. 23/08/10 emessa in data 1/02/2010 dalla Commissione Tributaria Regionale del Friuli Venezia Giulia, sezione 8, depositata in data 1/3/2010 e non notificata, che, in controversia concernente l’impugnativa dell’avviso di accertamento, con cui l’Amministrazione contestava alla società contribuente, per il periodo di imposta 1/1/2002 – 31/12/2002, l’errata applicazione della agevolazione di cui al D.Lgs. n. 466 del 1997 (Dual Income Tax, o D.I.T.), ha accolto l’appello dell’Ufficio, riformando la sentenza di primo grado e condannando la parte soccombente alle spese.

2. Con la sentenza impugnata, la C.T.R. del Friuli Venezia Giulia ha ritenuto che legittimamente l’Amministrazione avesse proceduto alla correzione della base imponibile indicata dalla società ai fini della D.I.T., poichè la contribuente aveva erroneamente calcolato la fascia di reddito da assoggettare all’aliquota ridotta del 19%, senza aver ridotto la medesima in misura pari alla variazione in diminuzione del patrimonio netto verificatasi in quel periodo di imposta a seguito della distribuzione delle riserve di utili ai soci, per il valore di Euro 980.000,00.

Rileva la C.T.R. che, ai sensi del D.Lgs. n. 466 del 1997, art. 1, comma 4, sarebbe irrilevante il successivo accantonamento di Euro 1.859.000,00, poichè gli incrementi ed i decrementi patrimoniali non avrebbero la stessa “rilevanza temporale”, dovendosi considerare, ai fini della base imponibile della D.I.T., solo i decrementi del patrimonio successivi al 30 giugno 2001 e non gli incrementi avvenuti dopo tale data.

3. A seguito del ricorso della contribuente, l’Agenzia delle Entrate si è costituita, resistendo con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo di ricorso, la società ricorrente censura la violazione e falsa applicazione della L. n. 383 del 2001, art. 5, comma 1, lett. b) e del D.Lgs. n. 466 del 1997, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo la società ricorrente il giudizio espresso dai giudici di appello viola le norme di legge suindicate, laddove considera che i decrementi del patrimonio netto avvenuti dopo la chiusura del bilancio relativo all’esercizio anteriore alla data di entrata in vigore della L. n. 383 del 2001 rilevino nella base imponibile della D.I.T., diminuendola, a prescindere dall’esistenza di incrementi del patrimonio netto, sempre avvenuti oltre tale termine, che di fatto neutralizzano i decrementi medesimi.

1.2. Il motivo è infondato e va rigettato.

1.3. In tema di “dual Income tax”, la L. n. 383 del 2001, art. 5, comma 1, lett. b), deve essere interpretato nel senso che assumono rilevanza, ai fini della persistente fruizione degli effetti agevolativi previsti dal D.Lgs. n. 466 del 1997, le operazioni di variazione in aumento del capitale eseguite fino alla data del 30 giugno 2001 (vedi Cassazione civile, sez. trib., 13/09/2017, n. 21241).

Invero, il D.Lgs. n. 466 del 1997, art. 1, comma 1, recita: “Il reddito complessivo netto dichiarato dalle società e dagli enti indicati nel T.U. delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 87, comma 1, lett. a) e b), è assoggettabile all’imposta sul reddito delle persone giuridiche con l’aliquota del 19 per cento per la parte corrispondente alla remunerazione ordinaria della variazione in aumento del capitale investito rispetto a quello esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 30 settembre 1996, incrementata del 20 per cento per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 30 settembre 1999, e del 40 per cento per i periodi d’imposta successivi. La presente disposizione non si applica nei casi previsti dal T.U. delle imposte sui redditi, art. 125. Se il periodo di imposta è superiore o inferiore ad un anno, la variazione in aumento va ragguagliata alla durata del periodo stesso”.

A mente del successivo comma 4, “Ai fini dell’applicazione del comma 1, il capitale investito esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 30 settembre 1996 è costituito dal patrimonio netto risultante dal relativo bilancio, senza tener conto dell’utile del medesimo esercizio. Rilevano come variazioni in aumento i conferimenti in denaro nonchè gli utili accantonati a riserva ad esclusione di quelli destinati a riserve non disponibili costituite a fronte di plusvalenze derivanti dalla valutazione effettuata a norma dell’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4; come variazioni in diminuzione le riduzioni del patrimonio netto con attribuzione, a qualsiasi titolo, ai soci o partecipanti. In ciascun esercizio la variazione in aumento, così come incrementata ai sensi del comma 1, non può comunque eccedere il patrimonio netto risultante dal relativo bilancio, escluso l’utile del medesimo periodo”.

La L. n. 383 del 2001, art. 5, lett. b), nell’abrogare le precedenti agevolazioni (tra cui la D.I.T.), prevede che “i soggetti che alla data del 30 giugno 2001 abbiano già eseguito operazioni di variazione in aumento del capitale ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 466, continuano a fruire dei relativi benefici. Il valore del patrimonio netto che si assume a questi fini da parte di persone fisiche, società in nome collettivo e società in accomandita semplice in regime di contabilità ordinaria, anche per opzione irrevocabile, non può eccedere quello risultante dal bilancio relativo all’ultimo esercizio anteriore a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, salvi gli eventuali decrementi successivi. Gli stessi soggetti possono, in alternativa e per ciascun periodo di imposta, rinunciare ai predetti benefici optando per l’applicazione dell’incentivo di cui all’art. 4, comma 1. Il cumulo degli incentivi è comunque consentito per le spese sostenute per la formazione e l’aggiornamento del personale, ai sensi dell’art. 4, comma 2, e, in ogni caso, quando l’imponibile assoggettato ad aliquota agevolata ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 466, è inferiore al 10 per cento dell’imponibile totale”.

In sintesi, ai sensi della L. n. 383 del 2001, art. 5, lett. b), i soggetti di cui al D.Lgs. n. 466 del 1997, art. 1, comma 1 (cioè le società di capitali, gli enti commerciali e le loro stabili organizzazioni in Italia) potevano continuare ad usufruire dell’agevolazione D.I.T. con riferimento all’incremento patrimoniale che risultava dal bilancio dell’ultimo esercizio anteriore a quello di entrata in vigore della legge 383/2001 (in data 8/7/2002).

Il D.Lgs. n. 466 del 1997, art. 1, comma 4, chiarisce che rilevano come variazioni in aumento i conferimenti in denaro nonchè gli utili accantonati a riserva, mentre rilevano come variazioni in diminuzione le riduzioni del patrimonio netto con attribuzione, a qualsiasi titolo, ai soci o partecipanti.

Come correttamente ritenuto dal giudice di appello, la L. n. 383 del 2001, art. 5, lett. b), nell’abrogare le precedenti agevolazioni (tra cui la D.I.T.), prevedendo che “i soggetti che alla data del 30 giugno 2001 abbiano già eseguito operazioni di variazione in aumento del capitale ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 466, continuano a fruire dei relativi benefici” deve intendersi riferito ai benefici spettanti in relazione alla operazioni di variazione in aumento del capitale già eseguiti alla predetta data.

In base al tenore letterale della norma, ai fini del riconoscimento dell’aliquota agevolata, non può avere rilevanza l’incremento patrimoniale realizzato dopo il 30/6/2001, poichè, in caso contrario, si avrebbe l’effetto di riconoscere l’agevolazione anche agli utili accantonati a riserva oltre lo sbarramento temporale di cui alla L. n. 383 del 2001, art. 5,comma 1, lett. b); assumono, invece, rilievo i decrementi del patrimonio netto successivi, che determinano una variazione in diminuzione della base imponibile ai fini della D.I.T.

2.1. Con il secondo motivo di ricorso, la società ricorrente censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

2.2. Il motivo è inammissibile.

2.3. Il collegio, infatti, ritiene di aderire al principio secondo cui “in tema di spese processuali, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che si limiti alla generica denuncia della mancata distinzione, nella sentenza impugnata, tra diritti ed onorari secondo la disciplina delle tariffe professionali applicabili ratione temporis alla fattispecie, atteso che, in assenza di deduzioni sui concreti pregiudizi subiti dalla mancata applicazione di tale distinzione, la censura non dimostra l’esistenza di un interesse ad ottenere una riforma della decisione” (Sez. 3, Sentenza n. 15363 del 26/07/2016).

3.1. Atteso il rigetto complessivo del ricorso, la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’Agenzia delle Entrate, secondo la liquidazione effettuata in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 17 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2019

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