Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17432 del 28/06/2019

Cassazione civile sez. III, 28/06/2019, (ud. 08/04/2019, dep. 28/06/2019), n.17432

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21775-2015 proposto da:

R.A.M., R.A.,

RI.AN., R.G., elettivamente domiciliati in ROMA,

V.PALERMO 43, presso lo studio dell’avvocato NICOLA FIMIANI,

rappresentati e difesi dagli avvocati COSTANTINO ANTONIO MONTESANTO,

FORTUNATO CACCIATORE;

– ricorrenti –

contro

RI.GI., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA

MARRANA 72, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CATTIVERA,

rappresentato e difeso dagli avvocati PASQUALE SANTANIELLO, LUIGI

SANTANIELLO;

– controricorrente –

e contro

RI.GI. FU L., D.R.C., C.L.,

C.M., P.G., P.S., PI.GE.,

R.C., PR.GI., PR.RO., PR.AN.,

PROCURATORE GENERALE CORTE APPELLO DI SALERNO;

– intimati –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il

06/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/04/2019 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE IGNAZIO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SANTANIELLO LUIGI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

con atto di citazione del 24 ottobre 2001, Ri.Gi., nato il 4 gennaio 1951, evocava in giudizio davanti al Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Eboli, Ri.An., G., A., A.M. e Gi. chiedendo lo scioglimento della comunione relativa ad un fondo rustico e relativo fabbricato, siti in (OMISSIS), di cui era proprietario per 19/21 a seguito di atto di vendita e successivo atto di donazione del 1987, facendo presente che il fondo era pervenuto ai precedenti danti causa per successione di Ri.Gi., deceduto il (OMISSIS);

si costituivano in giudizio i convenuti rilevando che il fondo era stato assegnato, con atto del 5 aprile 1956, della Sezione Speciale per la Riforma Fondiaria in Campania, a Ri.Gi.se. (deceduto nel 1975) e da costui riscattato con atto notarile del 15 maggio 1974. Che l’anno successivo, il (OMISSIS), Ri.Gi. era deceduto, lasciando quali eredi i figli e la moglie. Costoro, ad eccezione di R.L., con atto del 31 marzo 1987, avevano trasferito all’attore, Ri.Gi.ju., figlio di G., le quote del fondo. Aggiungevano che con successivo atto notarile del 15 ottobre 1987 erano state donate, sempre a Ri.Gi.ju., ulteriori quote ideali del fondo, che facevano capo ad altri figli di Ri.Gi.se.. Poichè si trattava di podere assegnato in applicazione delle leggi sulla riforma fondiaria ne era limitata la circolazione e i terreni erano vincolati all’indivisibilità, anche per il caso specifico di riscatto anticipato. Conseguentemente non era possibile emettere un provvedimento giudiziale di scioglimento della comunione. Eccepivano, preliminarmente, che la causa avrebbe dovuto essere decisa con il rito camerale ai sensi della L. n. 1078 del 1940, deducevano la nullità degli atti notarili del 1987, perchè contrari a norme imperative e chiedevano, in via riconvenzionale, che fosse individuato quale erede idoneo al subentro, R.L. e, in subordine, fosse comunque rigettata la domanda di scioglimento della comunione;

disposto il mutamento del rito, integrato il contraddittorio e istruita la causa con prova testimoniale e consulenza tecnica, con decreto del 10 settembre 2013 il Tribunale di Salerno dichiarava Ri.Gi.ju. (nato il (OMISSIS)) avente diritto a subentrare nell’assegnazione della quota del fondo rustico, determinando la somma che lo stesso avrebbe dovuto corrispondere agli altri coeredi in Euro 65.000 circa;

avverso tale decreto proponevano reclamo R.G.j., A., Gi., An. e A. deducendo che il Tribunale aveva erroneamente individuato il soggetto avente diritto al subingresso in uno dei nipoti, mentre avrebbe dovuto verificare la sussistenza dei requisiti in capo a uno dei figli, cioè R.L. o G.. In ogni caso Ri.Gi.ju., quale rappresentante di una società per la produzione intensiva di funghi, non aveva i requisiti necessari ed erano nulli gli atti in forza dei quali Ri.Gi.ju. aveva acquistato i diritti dominicali sul podere in contestazione;

si costituiva Ri.Gi.ju. che resisteva al reclamo e la Corte d’Appello di Salerno con decreto del 6 febbraio 2015 accoglieva, per quanto di ragione, il reclamo e, in parziale riforma del provvedimento impugnato, rideterminava la somma dovuta da Ri.Gi.ju. in Euro 68.108, confermando, nel resto, l’impugnato decreto, e compensando tra le parti le spese di lite;

avverso tale decreto propongono ricorso per cassazione R.G., A., An. e A., affidandosi a cinque motivi. Resiste con controricorso Ri.Gi.ju.. Entrambe le parti depositano memorie ex art. 380 bis c.p.c..

Con ordinanza interlocutoria del 17 febbraio 2019 questa Corte disponeva la trattazione della controversia in pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

la Corte territoriale rilevava che l’oggetto della controversia attiene alla individuazione, tra i discendenti in linea retta di Ri.Gi.se., di coloro che presentano i requisiti richiesti dalla L. n. 230 del 1950, art. 16 per poter subentrare per legge nell’assegnazione del podere per cui è procedimento; secondo la Corte di Appello, al momento della morte di Ri.Gi.se., i soggetti interessati a subentrare erano due tra i figli di questi, rispettivamente R.L. e R.G.s.. Tali discendenti in linea retta erano deceduti prima dell’instaurazione del giudizio, per cui la valutazione dei giudici di merito ha riguardato la sussistenza dei requisiti in capo ai nipoti dell’originario assegnatario: rispettivamente il figlio di L., R.G.j., odierno ricorrente ed in capo a Ri.Gi.ju., figlio di G., odierno controricorrente. Secondo la Corte territoriale i defunti figli dell’assegnatario, R.G. e L. si erano entrambi dedicati alla coltivazione della terra. Con riferimento specifico alla posizione dei figli di questi ultimi, R.G.j. e G.j., la Corte territoriale conferma la valutazione operata dal Tribunale, rilevando che Ri.Gi.ju. era in possesso delle qualità richieste dalla legge, in quanto iscritto nell’elenco provinciale dei coltivatori diretti e perchè dedito in modo sistematico all’esercizio dell’attività agricola realizzata attraverso una strutturata agricola per la produzione intensiva di funghi, operativa da decenni. Tale attività rientrava nella categoria di “lavoratore manuale della terra” utilizzata dalla legge, trattandosi di operatore del settore agricolo che impiegava principalmente la propria attività lavorativa. Si trattava, quanto a Ri.Gi.ju., di un imprenditore agricolo e l’attività della coltivazione dei funghi rientra tra quelle imprenditoriali agricole. Infine, secondo la Corte campana non era dimostrata l’insufficienza della capacità lavorativa, in quanto dalle risultanze processuali non emergeva l’esistenza di altri terreni ubicati nella zona ed incolti. La Corte accoglieva, invece, il motivo relativo alla quantificazione della somma dovuta ai coeredi, portando da Euro 65.200 ad Euro 68.108 l’importo determinato dal Tribunale;

con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione della L. 3 giugno 1940, n. 1078, art. 57, della L. 29 maggio 1967, n. 379, art. 7 e della L. 12 maggio 1950, n. 230, artt. 6 e 16 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3;

la decisione della Corte sarebbe errata perchè,nell’interpretare la dizione “discendenti in linea retta”, prevista alla L. n. 379 del 1967, art. 7 la Corte territoriale ha preso in esame, ai fini della valutazione dei requisiti richiesti per il subentro, la posizione dei nipoti dell’originario assegnatario Ri.Gi.se., e cioè R.G.j. e Gi.ju., con ciò derogando alla disciplina generale in materia successoria, in relazione alla quale occorre prima valutare i requisiti per il sub-ingresso del discendente immediato (nel caso di specie i figli di Ri.Gi.se., L. e G.s.) senza pervenire direttamente all’esame della posizione dei discendenti mediati. Riguardo alla posizione di G.s. e R.L., la Corte aveva solo rilevato che entrambi “si erano dedicati alla coltivazione della terra” ed erano stati coadiuvati dai rispettivi figli, Gi. e G.. Si tratta di una valutazione insufficiente al fine di consentire ai nipoti di subentrare ai genitori deceduti prima dell’inizio del giudizio, attraverso le regole della successione e non in conseguenza di subentro per legge;

il motivo è inammissibile perchè la censura riguarda l’interpretazione adottata dalla Corte territoriale e dal Tribunale, con riferimento alla espressione “discendenti in linea retta”, rispetto alla quale i ricorrenti sostengono che tale espressione impedirebbe l’ingresso di coloro che non rivestono la qualità di discendenti in linea retta. Ma per far valere una violazione sotto tale profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni ermeneutici asseritamente violati ed ai principi in essi contenuti, ma occorre precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa;

oltre a ciò, la tesi dei ricorrenti appare destituita di fondamento poichè presuppone che i due figli del primo assegnatario debbano essere considerati contendenti sebbene deceduti molto tempo prima dell’inizio del giudizio, senza avere accettato l’eredità paterna e senza essere preventivamente subentrati o, quantomeno, avere presentato istanza di subentro, ai sensi della L. n. 379 del 1967, art. 7. Per il resto, l’interpretazione adottata dai giudici di merito appare ragionevole nella parte in cui considera come effettivi contendenti, ai fini del subentro nell’assegnazione del podere, Ri.Gi.ju. e R.G.j., quali discendenti in linea retta dell’originario assegnatario;

infine, la questione non è decisiva, perchè la tesi dei ricorrenti non esclude la possibilità di valutare, così come hanno fatto i giudici di primo e secondo grado, il sub-ingresso del discendente “mediato” (i nipoti) nell’ipotesi in cui risultino provati i requisiti di legge, e nel caso in cui sussista l’ulteriore presupposto negativo della assenza di tali requisiti in capo ai discendenti immediati (i figli dell’originario assegnatario). Pertanto la censura non è decisiva poichè risulta pacificamente che i discendenti immediati, R.L. e G.s., erano deceduti e prima del giudizio non avevano presentato istanza di sub ingresso nell’assegnazione del podere e, conseguentemente, devono ritenersi sforniti dei presupposti di legge;

con il secondo motivo lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 rilevando che la Corte non aveva considerato che al momento del decesso dell’assegnatario Ri.Gi.se., il fondo era stato coltivato esclusivamente da R.L., mentre R.G. era subentrato in un secondo momento. Tanto che i reclamanti avevano chiesto alla Corte d’Appello di rivalutare l’esito della prova testimoniale sul punto, poichè le dichiarazioni dei testi individuerebbero soltanto in R.L. il soggetto effettivamente dedito alla coltivazione del fondo;

oltre alla considerazione che la doglianza è superata dal rigetto di quella precedente (risultando irrilevante la valutazione della prova relativa alla posizione dei figli dell’assegnatario, deceduti prima dell’inizio del giudizio) è inammissibile per violazione all’art. 366 c.p.c., n. 6, poichè i ricorrenti non allegano o, comunque, trascrivono la circostanza che all’epoca del decesso dell’originario assegnatario, Ri.Gi.se., il fondo era stato coltivato esclusivamente dal figlio R.L.;

oltre a ciò, la censura esula dal disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 5, poichè si chiede alla Corte di legittimità di rivalutare il contenuto delle dichiarazioni testimoniali con riferimento ai parziali passaggi trascritti nel ricorso;

con il terzo motivo i ricorrenti deducono la violazione delle disposizioni oggetto del primo motivo osservando che, ai fini del riconoscimento della qualità di coltivatore diretto, rileva l’effettivo esercizio dell’attività agricola con lavoro prevalentemente proprio e della propria famiglia. Nel caso di specie l’attività svolta da Ri.Gi.ju. è quella di coltivazione dei funghi, che sarebbe del tutto diversa da quella praticata dall’assegnatario. In ogni caso, si tratterebbe di coltivazione svolta da una società e non dal singolo richiedente;

secondo il costante orientamento della giurisprudenza l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge (invece dedotta dai ricorrenti ex art. 360 c.p.c., n. 3) e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, ma solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi (Sez. L, Sentenza n. 16698 del 16/07/2010, Rv. 614588 – 01) si rileva in ciò:

nella violazione di legge in senso proprio, a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa cioè nella errata interpretazione astratta della norma, non vi è riferimento nelle risultanze processuali;

nella erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta la censura è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa;

nel caso di specie la censura si accompagna alla valutazione delle risultanze di causa con specifico riferimento alle caratteristiche dell’attività di impresa agricola svolta dall’odierno controricorrente. Pertanto il motivo è inammissibile perchè non rientra nella ipotesi dell’art. 360 c.p.c., n. 3;

oltre a ciò il motivo è inammissibile poichè riguarda una valutazione in fatto, attinente le caratteristiche dell’attività agricola svolta dal controricorrente al fine di verificare se la stessa possa rientrare nella nozione di “lavoratori manuali della terra” individuata dalla L. 12 maggio 1950, n. 230, art. 16;

con il quarto motivo deducono la violazione della L. 12 maggio 1950, n. 230, art. 16 e dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. L’art. 16 citato richiede che il lavoratore manuale della terra non sia proprietario di fondi rustici che assorbano la capacità lavorativa dell’intera famiglia e la prova di tale requisito negativo grava sull’interessato. Nel caso di specie, invece, la Corte avrebbe invertito l’onere della prova, sanzionando la mancanza della documentazione menzionata dai reclamanti che dimostrerebbe che Ri.Gi.ju. era proprietario di terreni ubicati nella stessa zona e incolti;

il motivo è inammissibile poichè l’art. 16 prevede, quale profilo impeditivo, non solo l’esistenza di altri fondi, ma che questi assorbano la capacità lavorativa della famiglia. Nel caso di specie i ricorrenti nulla deducono a sostegno del motivo al fine di dimostrare che dall’esistenza di eventuali terreni incolti, derivava anche l’inadeguatezza della capacità lavorativa dell’intera famiglia;

per il resto la censura è inammissibile poichè per violazione all’art. 366 c.p.c., n. 6 in tema di autosufficienza del ricorso, non avendo i ricorrenti trascritto o comunque allegato tutti gli elementi probatori positivi e negativi forniti da Ri.Gi.ju., al fine di dimostrare l’inadeguatezza della produzione documentale, e consentire a questa Corte di operare un sindacato effettivo sulla questione dedotta;

ove, invece, la censura possa essere intesa quale mancato esame di documenti diretti a dimostrare la sussistenza di fatti impeditivi della pretesa di Ri.Gi.ju., il rilievo è inammissibile perchè dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. In ogni caso il profilo rientrerebbe nell’ipotesi prevista all’art. 395 c.p.c., n. 4 trattandosi di errore revocatorio;

con il quinto motivo deducono la violazione delle norme oggetto del primo e terzo motivo riguardo all’affermazione della Corte secondo cui R.G.j. non avrebbe dimostrato l’esercizio di attività agricola risalente all’epoca del decesso del primo assegnatario. Al contrario tali elementi sarebbero evincibili dalle dichiarazioni testimoniali;

il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 per l’assoluta mancanza di allegazione o trascrizione degli elementi documentali o testimoniali sulla base dei quali fondare una diversa valutazione. In ogni caso la censura è inammissibile perchè, pur dedotta ai sensi dell’art. 360, n. 5, codice di rito, consiste nell’omesso esame delle risultanze istruttorie, profilo comunque interdetto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5;

ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione vanno compensate integralmente tra le parti in considerazione della novità delle questioni, dandosi atto della insussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 trattandosi di controversia che ha ad oggetto l’assegnazione di fondi agrari.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese di lite.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Terza Sezione della Corte Suprema di Cassazione, il 8 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2019

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