Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17427 del 17/06/2021

Cassazione civile sez. lav., 17/06/2021, (ud. 19/11/2020, dep. 17/06/2021), n.17427

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30714/2018 proposto da:

D.R., elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO

EMANUELE II 18, presso lo studio dell’avvocato GREZ STUDIO LEGALE,

rappresentata e difesa dall’avvocato STEFANO CAFFIO;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 120/2018 della CORTE D’APPELLO DI LECCE

SEZIONE DISTACCATA DI di TARANTO, depositata il 17/04/2018 R.G.N.

479/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/11/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LEO.

 

Fatto

RILEVATO

che, con sentenza pubblicata in data 17.4.2018, la Corte di Appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, ha accolto il gravame interposto da Poste Italiane S.p.A., nei confronti di D.R., avverso la pronunzia del Tribunale di Taranto, con la quale era stata accolta la domanda della lavoratrice diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità del termine apposto ai contratti stipulati con Poste Italiane S.p.A., ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1-bis, così come modificato dalla L. n. 266 del 2005, relativamente ai periodi 1.4.2006-30.6.2006 e 2.10.200631.10.2006, nonchè la riassunzione in servizio con effetti dall’1.4.2006 ed il risarcimento del danno (che il primo giudice aveva liquidato in una indennità pari a quattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto);

che, pertanto, la Corte di merito, in riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato “legittima l’apposizione del termine ai contratti di lavoro a tempo determinato” di cui si tratta;

che per la cassazione della pronunzia ha proposto ricorso D.R. articolando tre motivi;

che Poste Italiane S.p.A. è rimasta intimata;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l'”omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione”, precisandosi che “il presente motivo è funzionalmente connesso al secondo nel quale viene affrontato sotto altro profilo”, e si deduce che “la motivazione della sentenza nasce monca”, perchè “omette l’esame di un fatto che si pone quale antecedente fattuale e logico dell’incipit motivazionale, compiuto dalla Corte, palesemente oggetto di discussione tra le parti, che è il seguente: “a fronte della produzione di documentazione da parte della società oneratane””; ed inoltre, perchè “Non è Poste Italiane che ha allegato, ma la ricorrente che ha allegato il superamento della clausola di contingentamento”, senza che la società “allegasse fatti diversi e negativi del diritto della lavoratrice a lavorare”; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c. e la “contestuale nullità della sentenza per aver pronunziato in ordine all’assolvimento da parte della Società dell’onere della prova del rispetto della clausola di contingentamento sulla base di documentazione inidonea a fondare un tale giudizio e contestualmente affermato che tale prova non fosse necessaria ed il fatto fosse provato in applicazione del principio di non contestazione”, ed in particolare, si lamenta che i giudici di seconda istanza avrebbero ritenuto sufficiente la produzione di un documento prodotto dalla società (un prospetto riepilogativo dei dipendenti a tempo indeterminato in servizio e dei dipendenti a termine assunti nel corso dell’anno) per fornire la prova del rispetto della c.d. clausola di contingentamento, senza soffermarsi sul fatto che “non occorre la prova dei fatti che, allegati da una parte, non siano stati espressamente contestati dalla controparte”; 3) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 9 e della L. n. 61 del 2000, art. 6, con contestuale nullità della sentenza, per avere la Corte di merito “vistosamente violato tali norme nel computo erroneamente fatto “per teste” e non utilizzando il c.d. full time equivalent”;

che i primi due motivi – da trattare congiuntamente per ragioni di connessione – sono inammissibili: il primo, perchè, nella sostanza, censura un vizio di motivazione (che viene definita “monca” per non avere “fatto una corretta indagine sulla presenza nel ricorso introduttivo del giudizio della specifica contestazione della lavoratrice in merito alla clausola di contingentamento”; ma, a sostegno dei propri assunti, la ricorrente non produce neppure il ricorso introduttivo del giudizio, in violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6); al riguardo, si osserva che come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poichè la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, il 17.4.2018, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5), come sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 20121, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale non indica il fatto storico (Cass. n. 21152/2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; nè, tanto meno, fa riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza “così radicale da comportare” in linea con “quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione”. E, dunque, non potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale dei giudici di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 25229/2015), che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue poste a fondamento della decisione impugnata (v., in particolare, le pagg. 4-7 della pronunzia impugnata);

che, inoltre, il primo motivo è inconferente, in quanto (come sottolineato a pag. 6 della sentenza impugnata) sarebbe stato onere della lavoratrice contestare, in modo specifico, in primo grado, le puntuali allegazioni documentali prodotte dalla società “indicative, con precisione, specificità e trasparenza, dei fatti della cui prova la parte datoriale era gravata”; con la conseguenza che, non avendo la D. dedotto nulla in proposito, “i fatti allegati dalla parte datoriale devono ritenersi pacifici e, come tali, non più oggetto di ulteriore incombente probatorio”; che il secondo motivo – teso nella sostanza a sollecitare un nuovo esame del merito attraverso una diversa valutazione degli elementi delibatori, non consentita in questa sede (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014) solleva un coacervo di censure senza il rispetto del canone della specificità del motivo, che determina, nella parte argomentativa dello stesso, la difficoltà di scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio e, dunque, di effettuare puntualmente l’operazione di interpretazione e di sussunzione delle censure (al riguardo, v. Cass., S.U., nn. 17931/2013, nonchè, tra le molte, Cass. nn. 21239/2015; 26242/2014; 7394/2010; 20355/2008; 9470/2008);

che, va, comunque, sottolineato, con riferimento, in particolare, al secondo motivo, che, in nessun passaggio della sentenza oggetto del giudizio di legittimità, si afferma che l’onere della prova relativo alla c.d. clausola di contingentamento debba ricadere sul lavoratore che agisce in giudizio e che, al contrario, i giudici di seconda istanza, ricavando la delibazione del rispetto del limite percentuale dalle produzioni effettuate dalla società datrice di lavoro, hanno correttamente fatto applicazione della regola opposta; ed inoltre, come innanzi osservato, che la sentenza (v. pag. 6), nell’esaminare la doglianza della lavoratrice al riguardo, ha accertato che Poste Italiane S.p.A. avesse fornito adeguata prova, documentale e per testi, del rispetto del limite percentuale del 15%, previa verifica della ritualità della produzione documentale e della pertinenza rispetto alla questione da decidere;

che il terzo motivo non è fondato: va premesso, al proposito, il richiamo a Cass. n. 13609/2015 (v., pure, in termini, Cass. n. 6765/2017), per la quale “in tema di contratto di lavoro a tempo determinato, il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1-bis, fa riferimento esclusivamente alla tipologia di imprese presso cui avviene l’assunzione – quelle concessionarie di servizi e settori delle poste – e non anche alle mansioni del lavoratore assunto, in coerenza con la ratio della disposizione, ritenuta legittima dalla Corte costituzionale con sentenza n. 214 del 2009, individuata nella possibilità di assicurare al meglio lo svolgimento del c.d. servizio universale postale, ai sensi del D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 1, comma 1, di attuazione della direttiva 1997/67/CE, mediante il riconoscimento di una certa flessibilità nel ricorso allo strumento del contratto a tempo determinato, pur sempre nel rispetto delle condizioni inderogabilmente fissate dal legislatore. Ne consegue che, al fine di fissare la legittimità del termine apposto alla prestazione di lavoro, si deve tenere conto unicamente dei profili temporali, percentuali (sull’organico aziendale) e di comunicazione previsti dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1-bis”, trattandosi, appunto, di ambito nel quale la valutazione della sussistenza della giustificazione è stata operata ex ante direttamente dal legislatore (v. Cass., S.U., n. 11374/2016);

che la sentenza oggetto del presente giudizio risulta del tutto in linea con l’esplicitato orientamento, ormai consolidato e del tutto condiviso da questo Collegio;

che, infine, la Corte di merito ha correttamente sottolineato che il limite percentuale non superiore al 15%, individuato dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1-bis, fosse da calcolare sull’intero organico aziendale, con riferimento, quindi all’intera impresa, anzichè soltanto al settore postale oggetto della concessione; e ciò, in considerazione “degli elementi di natura sistematica e ricostruttiva e della finalità della norma antiabusiva del 2005 che ha stabilito il limite percentuale del 15%” (cfr., ex multis, Cass. nn. 27116/2018;15291/2018; 753/2018; 6765/2017; 3031/2014);

che, pertanto, il ricorso va respinto;

che nulla va disposto in ordine alle spese, non avendo la società svolto attività difensiva;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 19 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2021

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