Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17411 del 30/08/2016


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Cassazione civile sez. lav., 30/08/2016, (ud. 11/05/2016, dep. 30/08/2016), n.17411

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D�ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18569-2010 proposto da:

V.F., (OMISSIS), + ALTRI OMESSI

– ricorrenti –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso

l’Avvocatura Centrale dsell’istituto, rappresentata e difeso dagli

avvocati ALESSANDRO RICCIO, MAURO RICCI, CLEMENTINA PULLI, SERGIO

PREDEN giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

S.A., R.C.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 8269/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/03/2010 r.g.n. 3294/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/0E7206 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA;

udito l’Avvocato PREDEN SERGIO;

udito il P.M. in persona dei Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con ricorso al Tribunale di Roma in data 16.6.2005 i signori L.M.D., + ALTRI OMESSI

Lamentavano che L’INPDAI non aveva operato il ricalcolo della pensione ai sensi della L. n. 44 del 1973, art. 5, comma 4 e del D.M. 7 luglio 1973 – (ovvero calcolando la quota di pensione maturata nel precedente regime secondo le aliquote di rendimento e le scale di accrescimento vigenti presso il (OMISSIS)) – assumendo erroneamente la applicabilità di un limite soggettivo, corrispondente alla misura massima della pensione dovuta ai soggetti che disponessero della sola contribuzione INPDAI.

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 10 marzo 2006 (nr. 5153/2006), accoglieva la domanda, condannando l’INPS al ricalcolo della pensione.

Con sentenza del 2.11.2009-12.3.2010 la Corte di Appello di Roma, in accoglimento dell’appello dell’INPS ed in riforma della sentenza impugnata, rigettava la domanda dei ricorrenti.

La Corte territoriale preliminarmente esponeva di non aderire alla istanza di sospensione del procedimento (formulata dagli appellati L.M.D., + ALTRI OMESSI

Precisava, tuttavia, che le successive disposizioni del D.P.R. n. 58 del 1976, art. 2, comma 2 avevano introdotto come limite in ogni caso non superabile quello della pensione massima erogabile secondo il regime generale INPDAI.

Il rinvio formale rendeva applicabile il regime INPDAI in vigore alla data della maturazione del diritto a pensione, comprensivo dello ius supervenies, che nella specie aveva introdotto il tetto pensionabile ed i coefficienti di rendimento decrescenti della retribuzione eccedente il massimale.

Per la Cassazione della sentenza ricorrono L.M.D., + ALTRI OMESSI

Resiste con controricorso l’INPS.

Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunziano – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 24 Cost., art. 295 c.p.c. nonchè delle L. n. 848 del 1995 e L. n. 12 del 2006.

La censura investe la statuizione di rigetto della istanza di sospensione del procedimento d’appello.

I ricorrenti espongono di avere fornito al giudice dell’appello la documentazione comprovante la pendenza del ricorso dinnanzi alla Corte Edu e la corrispondenza delle questioni ivi poste con quelle oggetto di giudizio, segnalando nella memoria depositata le sentenze di legittimità impugnate, vertenti su questioni identiche. La sospensione del giudizio era stata richiesta almeno fino alla pronunzia di procedibilità dei ricorsi ai sensi dell’art. 56 del regolamento di procedura CEDU laddove la Corte di merito, sottolineando la mancata adozione della delibazione preliminare sui ricorsi, aveva trascurato di considerare le finalità dell’istanza di sospensione ed il breve tempo (qualche mese) intercorso tra il deposito dei ricorsi alla Corte EDU e la proposizione della istanza di sospensione del giudizio.

Gradatamente i ricorrenti sollevano questione di legittimità costituzionale – in relazione agli artt. 3 e 24 Cost. – della L. n. 12 del 2006, nella parte in cui non prevede, in caso di procedimenti pendenti davanti alla Corte EDU, l’obbligo del giudice nazionale di sospendere i giudizi vertenti su questioni identiche ex art. 295 c.p.c..

Il motivo è infondato.

In via pregiudiziale la Corte osserva che la mancata sospensione del giudizio, nei casi in cui se ne assume la necessarietà, traducendosi nella violazione di una norma processuale, ricade nella previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 4.

Ciò premesso in punto di qualificazione del motivo, un duplice ordine di ragioni milita per il suo rigetto.

Sotto un preliminare profilo di ammissibilità deve osservarsi, in continuità con Cass. 16992/2007, come lo strumento della sospensione processuale presupponga che il rapporto di pregiudizialità tra le due cause di cui si tratta sia non solo concreto e necessario, ma anche attuale. Nella ipotesi in cui la causa ritenuta pregiudiziale non fosse ancora pendente la sospensione della causa ritenuta pregiudicata non avrebbe alcuna ragion d’essere e si risolverebbe in un inutile intralcio all’esercizio della giurisdizione.

Ne consegue che ove venga censurata in cassazione una sentenza per non essere stato sospeso il giudizio di merito in presenza di altra causa pregiudiziale (che avrebbe reso necessaria la sospensione) è onere del ricorrente dimostrare che quest’ ultima è pendente e che presumibilmente lo sarà anche nel momento in cui la Corte di cassazione dovesse accogliere il ricorso. In assenza di ciò, difetta la prova dell’interesse concreto ed attuale che deve sorreggere il ricorso, perchè nè la stessa Corte di cassazione nè un eventuale giudice di rinvio potrebbero comunque disporre la richiesta sospensione del giudizio.

Nel caso di specie nulla consente di affermare che nel momento in cui la presente decisione sarà resa pubblica, le cause che i ricorrenti asseriscono essere pregiudiziali siano ancora in corso. Non v’è prova, dunque, che la doglianza concernente la mancata sospensione del presente giudizio sia sorretta da adeguato interesse.

Sotto un profilo di merito, poi, la sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c. presuppone una pregiudizialità in senso stretto e cioè vincolante con effetto di giudicato all’interno della causa pregiudicata per identità delle parti ovvero che una situazione sostanziale rappresenti il fatto costitutivo, o comunque elemento fondante, della fattispecie di altra situazione sostanziale sicchè occorra garantire uniformità di giudicati, essendo la decisione del processo principale idonea a definire, in tutto o in parte, il thema decidendum del processo pregiudicato (Cassazione civile, sez. 6, 09/12/2011, n. 26469).

Nella fattispecie di causa la pronunzia della Corte EDU non avrebbe tale effetto nel presente giudizio ma al più porrebbe un problema di interpretazione costituzionalmente conforme o di illegittimità costituzionale; la situazione non è dunque diversa da quella che si verifica in pendenza di un giudizio di legittimità costituzionale, fattispecie per la quale si esclude la necessarietà della sospensione delle cause diverse da quelle in cui la questione è stata sollevata, pur se vertenti sulla applicazione della norma denunziata di illegittimità costituzionale (cfr. Cassazione civile, sez. 6, 26/06/2013, n. 16198).

Non si ravvisa, poi, in relazione alla normativa così interpretata problema alcuno di compatibilità con i principi costituzionali evocati nel motivo, dovendosi piuttosto tenere conto di altri valori parimenti rilevanti, come quelli del giusto processo, che verrebbero vanificati dalla generalizzata sospensione necessaria dei giudizi in pendenza di una questione davanti alla Corte EDU.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunziano – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 181 del 1997, art. 3, commi 1 e 3; del D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1, commi 1 e 2, in relazione alla L. n. 44 del 1973, art. 5, commi 1 e 4, e D.M. 7 luglio 1973, art. 2; della L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 1.

La censura attiene alla interpretazione della normativa di riferimento.

I ricorrenti in sintesi affermano che il richiamo contenuto nel D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1, comma 2, alla “pensione massima erogabile dall’Inpdai ai sensi del comma precedente” non deve intendersi come esistenza di un limite soggettivo e che in caso di ricongiunzione contributiva il trattamento erogato dall’Inpdai deve essere assoggettato esclusivamente ad un limite pari all’80% della retribuzione pensionabile, determinata secondo le norme in vigore nell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti.

Censurano ogni interpretazione che non tenga conto del tenore letterale della norma.

Il motivo è infondato.

I ricorrenti, avvalendosi della facoltà di ricongiunzione prevista dalla L. 15 marzo 1973, n. 44, art. 5 ed ulteriormente disciplinata dal D.M. 7 luglio 1973, hanno trasferito l’anzianità contributiva maturata presso il (OMISSIS) (Fondo gestito dall’Inps, sostitutivo dell’assicurazione generale obbligatoria lavoratori dipendenti) all’INPDAI (ora INPS).

Il contrasto tra le parti verte specificamente sulla interpretazione del D.P.R. 8 gennaio 1976, n. 58, art. 1, comma 2, (Norme per l’esecuzione della L. 15 marzo 1973, n. 44, sulla previdenza dei dirigenti di aziende industriali), a tenore del quale:

“L’ammontare della pensione comprensivo della quota parte derivante dall’esercizio della facoltà di cui alla L. 15 marzo 1973, n. 44, art. 5, non può essere in ogni caso superiore a quello della pensione massima erogabile dall’INPDAI ai sensi del comma precedente” (ossia tanti trentesimi dell’80% della retribuzione annua media quanti sono gli anni di contribuzione).

I ricorrenti sostengono che il rinvio compiuto dal citato D.P.R. n. 58 del 1976 alla pensione erogabile “ai sensi del comma precedente” sia un rinvio rigido, il che equivale a dire che la pensione massima erogabile sarebbe sempre quella pari a tanti trentesimi dell’80% della retribuzione annua media quanti sono gli anni di contribuzione.

L’INPS ritiene, invece, che la legge contenga un rinvio mobile: “la pensione massima erogabile dall’INPDAI” è quella erogabile al momento del pensionamento, con rinvio comprensivo dello ius superveneiens; il limite non sarebbe più costituito da tanti trentesimi dell’80% della retribuzione annua media, come la disposizione originaria prevedeva, dovendosi tenere conto della introduzione nel sistema INPDAI del tetto pensionabile e dei coefficienti di rendimento decrescenti della retribuzione eccedente il massimale.

Sulla questione di causa si è formato un consolidato indirizzo di questa Corte (sentenze n. 2223 e 2224 del 2007; Cass. nn. 724, 14467 e 27801 del 2009; da ultimo Cass. 22148 del 2014), cui va data in questa sede continuità.

Nei precedenti citati questa Corte ha affermato il principio di diritto secondo cui il D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1, comma 2, nello stabilire che l’ammontare della pensione, ivi compresa la quota parte conseguente all’esercizio della facoltà ex lege n. 44 del 1973, art. 5, “non può essere superiore a quello della pensione massima erogabile dall’INPDAI ai sensi del comma precedente, contiene un rinvio non recettizio, con la conseguenza che la pensione massima erogabile INPDAI non si determina in conformità alla previsione originaria, ma, attesa la natura formale del rinvio, avendo riguardo alla pensione massima INPDAI erogabile al momento del pensionamento.

La ratio ispiratrice del limite massimo alla pensione “ricongiunta” di cui al D.P.R. n. 56 del 1978 era quella di evitare che dalla combinazione tra le due quote di pensione – maturate presso la gestione di provenienza e presso l’INPDAI – potesse scaturire un trattamento pensionistico di maggior favore a vantaggio di chi fosse stato iscritto all’INPDAI per un solo quinquennio (termine minimo per chiedere la ricongiunzione ai sensi della L. n. 44 del 1973, art. 5) rispetto ad un assicurato che per tutti i quaranta anni fosse stato iscritto all’INPDAI.

Nelle pronunzie citate si è rilevato altresì che non è dato ravvisare alcuna norma che isoli la disposizione per cui è causa – D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1, comma 2 – e collochi la regola della conservazione dei più favorevoli coefficienti della gestione di provenienza in posizione impermeabile alla successive modifiche legislative.

La norma del D.Lgs. n. 181 del 1997, art. 3, comma 1 – (Attuazione della delega conferita dalla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 2, comma 22, in materia di regime pensionistico per gli iscritti all’INPDAI) – secondo cui la pensione complessiva INPDAI, liquidata esclusivamente in base al metodo retributivo, non può essere superiore all’80% della retribuzione pensionabile determinata secondo le norme in vigore nell’AGO – fa parte del programma di armonizzazione dei regimi pensionistici sostitutivi dell’assicurazione generale obbligatoria voluto dalla riforma Dini.

Da essa nessun argomento può trarsi a favore della interpretazione della insussistenza (o, comunque, della abrogazione sopravvenuta per incompatibilità) dell’ulteriore limite previsto dal D.P.R. 8 gennaio 1976, n. 58, art. 1, comma 2.

La disposizione del 1997 stabilisce il limite della pensione INPDAI in raffronto alla pensione AGO mentre la disposizione del 1976 stabilisce il limite tra la pensione conseguente alla ricongiunzione e la “massima” pensione erogabile dall’INPDAI.

Il principio di diritto qui ribadito deve essere integrato – alla luce dei più recenti arresti di questa Corte (Cass. 28285/2009e successive) con la precisazione che il tetto non superabile è rappresentato dalla pensione massima erogabile dall’Inpdai al dirigente che abbia raggiunto la massima anzianità contributiva presso l’Istituto sicchè esso non è di natura totalmente soggettiva, come meglio si dirà nell’esaminare il terzo motivo di ricorso.

3. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono:

– ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3: violazione falsa applicazione del D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1, commi 1 e 2; D.M. 7 luglio 1973 e D.M. 25 luglio 1988, n. 422; L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 1 nonchè dell’art. 111 Cost. e degli artt. 6 e 14 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo;

– ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5: insufficiente e contraddittoria motivazione.

I ricorrenti assumono che la interpretazione della normativa offerta dalla Corte di merito violerebbe il principio della parità di trattamento in danno di coloro che hanno trasferito la contribuzione da altro fondo rispetto ai pensionati iscritti esclusivamente all’INPDAI, in quanto questi ultimi per effetto della introduzione nel sistema INPDAI – con D.M. n. 422 del 1988 – del tetto pensionabile e dei coefficienti di rendimento decrescenti della retribuzione eccedente il massimale non avrebbero mai potuto raggiungere 1180% della retribuzione pensionabile.

Espongono inoltre che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto della minore contribuzione da ciascuno di essi totalizzata rispetto alla anzianità massima contributiva prevista per l’INPDAI – come dagli atti depositati nei precedenti gradi di merito – nonchè del maggior rendimento della contribuzione trasferita fino al raggiungimento della pensione massima conseguibile attraverso una esclusiva contribuzione INPDAI.

Assumono la contrarietà della sentenza al disposto degli artt. 6 e 14 della Convezione EDU, in quanto configgente con la funzione e natura del massimale – che vale a contenere gli effetti della liquidazione e non ad interferire con il procedimento stesso di liquidazione – nonchè discriminatoria.

Vanno preliminarmente disattese le censure articolate in relazione al principio sovranazionale del divieto di discriminazione.

Non vi è infatti alcuna discriminazione in danno dei dirigenti provenenti dal (OMISSIS) perchè il limite è paritario per tutti i dirigenti assicurati Inpdai; anzi, permane un trattamento di maggior favore per i primi.

Deve infatti chiarirsi, in conformità con i più recenti orientamenti di questa Corte, che il limite posto dal D.P.R. n. 58 del 1976 non ha natura totalmente soggettiva, in quanto ai sensi del D.P.R. n. 58 del 1976, art. 1, comma 2 il tetto va commisurato “alla pensione massima erogabile dall’Inpdai” ossia alla anzianità contributiva di quaranta anni di iscrizione.

In altri termini, il pensionato Inpdai con una anzianità contributiva inferiore ai 40 anni, che ha trasferito i contributi dal (OMISSIS), può fruire dei vantaggi derivanti dalle più favorevoli aliquote di rendimento del Fondo di provenienza ed ottenere una pensione maggiore rispetto al pensionato, di pari anzianità, che sia stato sempre iscritto all’Inpdai proprio perchè il confronto non è con la pensione Inpdai commisurata alla anzianità “sua propria” ma con la “pensione massima erogabile dall’Inpdai (Cass. n 156/2012, n 14467/2009).

Questa Corte ha aggiunto, tuttavia, che ove manchi una specifica allegazione del conseguimento o meno, al momento di maturazione del diritto a pensione, dell’anzianità contributiva eventualmente inferiore alla massima il rinvio per un esame nel merito della questione è inutile (Cass. n 20335/2010).

Nel caso di specie i ricorrenti dichiarano genericamente in ricorso di avere raggiunto al momento della maturazione del diritto a pensione una anzianità contributiva inferiore a quella massima utile “in base agli atti depositati nei precedenti gradi di merito”; non provvedono, pertanto, a specificare nè la effettiva anzianità conseguita nè gli atti dai quali tale anzianità risulterebbe nè la sede processuale nella quale tali atti sarebbero stati acquisiti.

Tali lacune determinano la inammissibilità in questa parte del motivo ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto non consentono a questa Corte di rilevare l’effettivo interesse di ciascuna delle parti ricorrenti alla cassazione della sentenza.

Parimenti risulta inadempiuto l’onere di depositare, a pena di improcedibilità del ricorso, gli atti processuali e documenti su cui esso si fonda (art. 369 c.p.c., n. 4) ed, in particolare, gli atti relativi alla anzianità contributiva di ciascuno dei ricorrenti.

E’ egualmente inammissibile la censura articolata in punto di vizio della motivazione.

Il vizio di motivazione denunciabile come motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 può concernere esclusivamente l’accertamento e la valutazione dei fatti materiali rilevanti ai fini della decisione della controversia, non anche l’interpretazione e l’applicazione delle norme giuridiche, atteso che in relazione ad una questione la cui soluzione dipende esclusivamente dall’interpretazione di atti normativi la cognizione del giudice di legittimità investe direttamente le disposizioni, senza il “filtro” rappresentato dalla motivazione della sentenza impugnata.

Il ricorso deve essere conclusivamente respinto.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna le parti ricorrenti alla refusione delle spese nei confronti dell’INPS, che liquida in Euro 100 per spese ed Euro 7500 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2016

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