Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17407 del 19/08/2011

Cassazione civile sez. lav., 19/08/2011, (ud. 22/06/2011, dep. 19/08/2011), n.17407

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.M.A. – FABBRICA MOTORI AUTOMOBILISTICI S.R.L., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIALE GIULIO CESARE 21/23, presso lo studio dell’avvocato DE LUCA

TAMAJO RAFFAELE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

FONTANA GIORGIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BISSOLATI

76, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNETTI ALESSANDRA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ORESTE CARDILLO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3359/2008 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 11/06/2008 r.g.n. 7930/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/06/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

Udito l’Avvocato TRIVELLINI per delega ALESSANDRA GIOVANNETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio che ha concluso per: sulla richiesta di rinvio, si

rimette alla decisione della Corte; nel merito, inammissibilità o

rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 7-10-2006 il Giudice del lavoro del Tribunale di Avellino, in accoglimento della domanda proposta da D.C.A., operaio manutentore della Fabbrica Motori Automobilistici (F.M.A.) s.r.l., dichiarava la illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogato il 13-11-2000, e ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro (già disposta in sede cautelare) con la condanna della società al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni globali di fatto spettanti dal di del recesso a quello dell’effettiva reintegrazione.

Con ricorso del 4-10-2007 la F.M.A. proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con il rigetto della domanda di controparte. L’appellato si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza depositata l’11-6-2008, rigettava l’appello.

In sintesi la Corte territoriale rilevava la nullità della contestazione in quanto priva del requisito della determinatezza ed affermava che, “ad ogni modo”, il comportamento del D.C. al di fuori dei cancelli dell’azienda in occasione di uno sciopero (emerso con riguardo soltanto alle percosse ai danni del collega S., non essendo, peraltro, risultato dall’istruttoria che le “ulteriori condotte aggressive e intimidatorie o di danneggiamento” genericamente contestate fossero riconducibili al D.C.) non era comunque di gravità tale da giustificare il licenziamento, “tenuto anche conto dell’elemento intenzionale, plausibilmente condizionato dall’incandescente clima, testimoniato del resto dallo stesso responsabile per le relazioni sindacali”.

Per la cassazione di tale sentenza la F.M.A. ha proposto ricorso con tre motivi. Il D.C. ha resistito con controricorso. La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il secondo ed il terzo motivo, che in ordine logico vanno esaminati anteriormente rispetto al primo, la ricorrente, sotto i diversi profili della violazione dell’art. 7 St. Lav. e del vizio di motivazione, censura la impugnata sentenza nella parte in cui ha accolto l’eccezione, riproposta dall’appellato, di nullità della contestazione per mancanza del requisito di specificità, lamentando, in particolare, che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare compiutamente il tenore letterale della contestazione medesima e di procedere alla dovuta valutazione circa l’incidenza in concreto della formulazione della stessa sul libero ed efficace esercizio del diritto di difesa del lavoratore (alla cui tutela il principio di specificità è orientato), limitandosi a fornire al riguardo una motivazione meramente “apodittica”.

Tali censure non meritano accoglimento.

Innanzitutto osserva il Collegio che la Corte di merito, a ben vedere, ha riscontrato la nullità della contestazione per mancanza di specificità soltanto con riferimento (“in parte qua”) agli “altri fatti sommariamente descritti nella contestazione”, diversi da quello relativo alla “contestata aggressione ai danni del collega S.”, in relazione ai quali, peraltro, ha ulteriormente affermato che, comunque, all’esito dell’esame delle risultanze testimoniali, “èmancata del tutto la prova del coinvolgimento del D.C.”, precisando che “nessun elemento …è emerso quanto ad ulteriori condotte aggressive e intimidatorie o di danneggi amento riconducibili al D.C.”.

Orbene la società ricorrente in sostanza contesta la valutazione di merito circa la genericità della contestazione, ravvisata relativamente a tali ulteriori fatti.

Come è stato affermato da questa Corte e va qui ribadito, “in tema di sanzioni disciplinari, l’esigenza della specificità della contestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell’accusa nel processo penale, nè si ispira ad uno schema precostituito e ad una regola assoluta e astratta, ma si modella in relazione ai principi di correttezza che informano un rapporto interpersonale che già esiste tra le parti ed è funzionalmente e teleologicamente finalizzata alla esclusiva soddisfazione dell’interesse dell’incolpato ad esercitare pienamente il diritto di difesa” (v. Cass. 30-12-2009 n. 27842 v. anche Cass. 18- 6-2002 n. 8853). Pertanto “la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti qualificabili come disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ.. L’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito” (v. Cass. 3-2-2003 n. 1562, Cass. 11-6-2003 n. 9397, Cass. 23-8-2004 n. 16584, Cass. 30-3-2006 n. 7546).

Nella fattispecie la Corte territoriale, con riferimento appunto ai detti ulteriori fatti “sommariamente descritti nella contestazione”, dopo aver analizzato il testo della stessa, ha affermato che la medesima, “in parte qua”, “è ben lungi da soddisfare l’irrinunciabile requisito della determinatezza”, considerata “finanche la sostanziale mancanza di raccordo tra detti accadimenti, attribuiti ad un non meglio individuato “gruppo di lavoratori” e la persona del D.C.”.

Tale accertamento di merito, conforme a diritto e congruamente motivato, resiste alle censure della società ricorrente.

Con il primo motivo, poi, la società ricorrente, denunciando vizio di motivazione, lamenta che la Corte territoriale avrebbe “omesso di considerare adeguatamente”, “a) che il D.C., insieme ad altri, ha impedito fisicamente l’ingresso dei lavoratori non scioperanti in azienda, fino al punto di dover costringere la forza pubblica ad intervenire per garantire ai dipendenti della società F.M.A. il diritto di recarsi sul posto di lavoro, b) che il D.C. ha nell’occasione persino aggredito e minacciato un suo collega di lavoro, sig. S., giunto in auto in prossimità dei cancelli di ingresso, all’evidente scopo di impedirgli di entrare in azienda”.

In sostanza la ricorrente sostiene che la Corte di merito non avrebbe applicato i principi in materia di verifica della giusta causa di licenziamento e si sarebbe limitata “ad una generica e non convincente attenuazione della responsabilità disciplinare del lavoratore in ragione di elementi sostanzialmente evanescenti o apodittici”.

In particolare la ricorrente deduce che dalle testimonianze acquisite (riportate in ricorso nelle parti salienti) emergerebbe “con evidenza sia la gravità dei fatti sia la responsabilità a tal riguardo del sig. D.C., identificato dal teste C., responsabile della sicurezza aziendale”, e lamenta che la Corte territoriale avrebbe valorizzato, “quale elemento attenuante, una circostanza che non attiene al comportamento del lavoratore licenziato, bensì riguarda esclusivamente lo scopo che si riprometteva il lavoratore aggredito entrando in azienda (non recarsi al lavoro ma prelevare la sorella)”.

La ricorrente, inoltre, rileva che “non sembra affatto convincente” “il riferimento all’art. 25 del c.c.n.l., nella parte in cui prevede, in via esemplificativa, fra i fatti che danno luogo al licenziamento senza preavviso, la rissa sul luogo di lavoro” e neppure “l’accento posto dalla Corte d’Appello sulla “tensione” derivante da uno stato di agitazione del personale collegato al rinnovo del c.c.n.l.”.

La censura è in parte inammissibile e in parte infondata.

Come è stato chiarito da questa Corte e va qui ribadito, “la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale e astratto. A tale processo non partecipa, invece, la soluzione del caso singolo, se non nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della norma mediante una massima di giurisprudenza.

Ne consegue che, mentre l’integrazione giurisprudenziale della nozione di giusta causa a livello generale ed astratto si colloca sul piano normativo, e consente, pertanto, una verifica di legittimità sotto il profilo della violazione di legge, l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella variazione di fatto devoluta al giudice di merito, e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria” (v. Cass. 12-8-2009 n. 18247, cfr. Cass. 15-4-2005 n. 7838 e, da ultimo, Cass. 13-12-2010 n. 25144, Cass. 2-3-2011 n. 5095). Pertanto mentre “le specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge”, “l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici” (v. Cass. n. 25144/2010 cit.).

In particolare, poi, in tale ambito, “spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed alla sua durata ed all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia” (v. fra le altre Cass. 22-6-2009 n. 14586).

Nello stesso ambito, infine, non può che confermarsi anche il principio generale secondo cui “il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa”, (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766, Cass. 19-7-2006 n. 16531).

Orbene, nella fattispecie la Corte territoriale, dopo aver analizzato il fatto a danno dello S. ed escluso, in base alle risultanze testimoniali, “ulteriori condotte aggressive e intimidatorie o di danneggiamento riconducibili al D.C.” e dopo aver valutato specificamente anche le dichiarazioni del teste C. (responsabile della sicurezza), ha affermato che “in realtà può escludersi che la libertà personale dei dissenzienti fosse stata oggetto nella circostanza di apprezzabile limitazione” e che “non solo lo S., in orario quasi coincidente con quello cui ha fatto riferimento il C., entrò comunque in fabbrica senza avvalersi dell’ausilio di chicchessia, ma lo stesso riuscirono a fare, sia pure con qualche difficoltà, F.S., D.M.F., O.M. e altri impiegati”.

Tanto rilevato, la Corte ha quindi ritenuto condivisibili le valutazioni del primo giudice, ed ha concluso che “in ragione del principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità che presiede alla nozione di giusta causa di licenziamento, la condotta effettivamente posta in essere dal D.C., pur riprovevole, non fu, una volta valutata nel quadro in cui si inscrisse, di tale gravità da scuotere irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro; e ciò, tenuto anche conto dell’elemento intenzionale, plausibilmente condizionato dall’incandescente clima, testimoniato del resto dallo stesso responsabile per le relazioni sindacali Conte Giuseppe, che, attesa tra l’altro la imminente scadenza del contratto, improntava all’epoca le relazioni con la parte datoriale”.

Anche tale accertamento, fondato sulla attenta valutazione di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi emersi, risulta conforme a diritto e, in quanto sorretto da congrua motivazione, resiste alla censura della ricorrente.

Il ricorso va, pertanto, respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese, in favore del D.C..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare al D. C. le spese liquidate in Euro 25,00 oltre Euro 1.500,00 per onorari oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 22 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2011

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