Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17405 del 20/08/2020

Cassazione civile sez. VI, 20/08/2020, (ud. 14/01/2020, dep. 20/08/2020), n.17405

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21355-2018 proposto da:

M.A.S., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato SALVATORE CIRVILLERI;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO DELLA SOCIETA’ DI FATTO fra A.M.R. (titolare

della Ditta “Ares Hotel”) e M.A.S., dichiarato

fallito n. q. di socio illimitatamente responsabile della detta

società, in persona del Curatore pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA L. SPALLANZANI N. 22/A, presso lo studio

dell’avvocato MANUEL FERRANTE, rappresentato e difeso dall’avvocato

PIERPAOLO MICHELE SANFILIPPO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1317/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 07/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 14/01/2020 dal Consigliere Relatore Dott. EDUARDO

CAMPESE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.A.S. ricorre per cassazione, affidandosi ad un unico motivo, avverso la sentenza della Corte di appello di Catania del 7 giugno 2018, reiettiva del reclamo da lui promosso, ex art. 18 L. Fall., avverso la pronuncia con cui il tribunale della medesima città, accogliendo la corrispondente istanza della curatela del fallimento di A.M.R., aveva dichiarato il suo fallimento, previo accertamento dell’esistenza di una società di fatto tra lo stesso e la coniuge A.M.R. nell’esercizio dell’impresa denominata Ares Hotel. Resiste, con controricorso, la curatela fallimentare.

2. Per quanto qui di interesse, la corte distrettuale, richiamati, preliminarmente, i principi sanciti, in tema di dichiarazione di fallimento del familiare del fallito, da Cass. n. 15543 del 2013 e da Cass. n. 8154 del 1990, ha ritenuto esservi agli atti “una serie di elementi gravi, precisi e concordanti che consente di ritenere provata la qualità di socio in capo al M. ed, in particolare, la circostanza che lo stesso gestiva, unitamente alla moglie, l’attività dell’Ares Hotel, condividendone l’alea nei guadagni e nelle perdite”. Ha valorizzato, in proposito: i) l’avere il M. messo a disposizione, in via permanente (e non occasionale), per l’esercizio dell’attività di impresa predetta, fin dagli anni ‘70, immobili di sua esclusiva proprietà e di notevole valore (che diversamente avrebbe potuto mettere a reddito anche perchè persona priva di altri introiti, ad

eccezione di una pensione sociale); le dichiarazioni di tutte le

persone (anche escludendosi quelle del M.) sentite dalla curatela, concordi nel riferire di un coinvolgimento costante e significativo del reclamante nella gestione dell’albergo; l’impossibilità di giustificare tale ingerenza – che il M. aveva riconosciuto di aver posto in essere negli ultimi tre anni di attività, sia pure su delega della moglie – con la semplice alle atio maritalis in seguito ai problemi di salute dell’ A., “in quanto l’impossibilità ormai cronica di quest’ultima di dedicarsi all’esercizio dell’impresa avrebbe dovuto portare, se il M. non avesse avuto un proprio diretto interesse all’esercizio dell’attività, ad altre determinazioni e non alla sostituzione permanente, ed a tempo indeterminato, della titolare dell’attività”; iv) la non veridicità dell’affermazione secondo cui i pagamenti dei debiti dell’attività erano stato sostenuti dal M. solo dopo la proposta di concordato per evitare alla moglie l’onta del fallimento, evidenziandosi, peraltro, che in alcuni di essi, effettuati mediante cambiali, l’odierno ricorrente risultava aver apposto la propria firma sotto il timbro dell’Ares Hotel, così chiaramente palesando all’esterno il proprio coinvolgimento nell’attività di impresa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La formulata censura – rubricata “Insussistenza della società di fatto e della allectio societatis: Violazione e falsa applicazione di norme di diritto – art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., artt. 2727 e 2729 c.c.” – critica la decisione impugnata perchè asseritamente fondata su di “un’errata applicnione dei principi che regolano il regime delle presunzioni; per avere condotto con inesatteua l’esame degli elementi indkiati acquisiti, fondando il proprio convincimento su una serie di circostanze che non sono su sufficientemente idonee a provare la qualità di socio del ricorrente e, dunque, della dedotta affectio societatis,… La decisione pertanto, non è sorretta da motivazioni adeguate ed immuni da vizi logici e “giuridici…” (cfr. pag. 4 del ricorso).

2. Una siffatta doglianza si rivela complessivamente inammissibile.

2.1. Essa, invero, si risolve, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice a quo, cui il ricorrente intenderebbe opporre, sotto la formale rubrica di vizio di violazione di legge e/o di vizio motivazionale, una diversa valutazione, totalmente obliterando, però, da un lato, che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non può essere mediato dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr., ex multis, Cass. n. 27457 del 2019; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006) ma deve essere dedotta, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione; dall’altro, che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza pubblicata il 7 giugno 2018), ha avuto l’effetto di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza (o di altro provvedimento decisorio) per “mancanza della motivazione”, ipotesi configurabile allorchè la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum Cass. n. 22598 del 2018; Cass. n. 23940 del 2017), non essendo più denunciabile, in sede di legittimità, la motivazione insufficiente e/o contraddittoria (invero, oggetto del vizio di cui alla norma da ultimo citata è, oggi, esclusivamente l’omesso esame circa un “tatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”, senza che possa considerarsi tale l’omesso esame di elementi istruttori allorquando quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti. gr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

2.2. In particolare, a fronte delle esaustive giustificazioni rese dalla corte catanese (cfr. amplius, pag. 6-8 della sentenza impugnata) in ordine alla valutazione da essa effettuata dei numerosi elementi indiziari di cui si è già precedentemente detto (cfr. p. 2 dei Fatti di causa), dai quali ha tratto la prova di un coinvolgimento costante e significativo del M. nella gestione dell’Ares Hotel, l’odierno ricorrente, con la prospettata censura, sostanzialmente propone una diversa lettura/interpretazione di quei medesimi elementi indiziari, dimenticando, però, da un lato, che, come già ripetutamente chiarito da questa Corte, la scelta degli elementi che costituiscono la base della presunzione ed il giudizio logico con cui dagli stessi si deduce l’esistenza del fatto ignoto costituiscono un apprezzamento di fatto che, se adeguatamente motivato, sfugge al controllo di legittimità (cfr. Cass. n. 27457 del 2019; Cass. n. 3336 del 2015); dall’altro, che gli elementi assunti a fonte di presunzione non debbono essere necessariamente plurimi – benchè l’art. 2729 c.c., comma 1, si esprima al plurale – potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (0.. Cass. n. 27457 del 2019; Cass. n. 656 del 2014; Cass. n. 17574 del 2009), e dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi (cfr: l’appena citata Cass. 17574 del 2009).

2.2.1. Orbene, la corte etnea, con una motivazione che non integra affatto violazione dei principi dettati in tema di onere della prova e di prova presuntiva, oltre che priva di vizi logici, è giunta alla conclusione che, nella specie, il quadro indiziario desumibile dall’istruttoria orale e documentale svolta, valutato in ciascun elemento e nel suo complesso, fosse idoneo a far ritenere raggiunta la prova di un coinvolgimento costante e significativo del M. nella gestione dell’Ares Hotel (nè potrebbe sostenersi, fondatamente, che l’argomentare di quel giudice abbia trascurato alcuni dati dedotti dal reclamante, per la semplice ragione di averli ritenuti, esplicitamente, o implicitamente, irrilevanti), ed il corrispondente accertamento integra una valutazione fattuale, a fronte del quale l’odierno ricorrente, con il motivo in esame, tenta, sostanzialmente, di opporre alla ricostruzione dei fatti definitivamente sancita nella decisione impugnata una propria alternativa loro interpretazione, sebbene sotto la formale rubrica di vizio motivazionale o di violazione di legge, mirando ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione), in contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un ulteriore grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex multis, Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).

2.3. In altri termini, il M. incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c., può porsi, rispettivamente, solo allorchè parte ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (cfr. Cass. n. 27000 del 2016). Del resto, affinchè sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132, n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse (cfr. Cass. 24434 del 2016). La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione

Cass. n. 11176 del 2017, in motivazione). Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), peraltro, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti: il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati (cfr. Cass. n. 11176 del 2017). In effetti, non è compito di questa Corte quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudici di merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008).

3. Il ricorso, dunque, va dichiarato inammissibile, restando le spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, regolate dal principio di soccombenza, e dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017), e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 23535 del 2019 – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna M.A.S. al pagamento, nei confronti della curatela controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del medesimo ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2020

 

 

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