Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17397 del 19/08/2011

Cassazione civile sez. lav., 19/08/2011, (ud. 05/05/2011, dep. 19/08/2011), n.17397

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

A.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO POMA 4

SC E, presso lo studio dell’avvocato DE MARCHIS GOMEZ CARLO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CIANNAVEI ANDREA giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

SALINI COSTRUTTORI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DELLA

VITTORIA 9, presso lo studio dell’avvocato LIONE AUGUSTO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato VARONE PASQUALE, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7148/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 02/02/2006 r.g.n. 8444/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/05/2011 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato, LEOPIZZI ANTONELLA per delega DE MARCHIS CARLO;

udito l’Avvocato VARONE PASQUALE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La sentenza impugnata (depositata il 2 febbraio 2006) respinge l’appello di A.B. avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 1 ottobre 2002, di rigetto del ricorso dell’ A. sul duplice rilievo secondo cui: 1) il ricorrente non ha fornito la prova della responsabilità della società Salini per la mancata copertura dell’assegno che ha portato al suo arresto; 2) comunque, avendo il ricorrente (inquadrato nella categoria dirigenziale) il potere di autorizzare l’impegno di spesa per conto della società, è configurabile la violazione, da parte dell’ A., dei canoni di diligenza di cui all’art. 2204 cod. civ., la cui corretta osservanza avrebbe presumibilmente impedito l’emissione dell’assegno risultato scoperto.

La Corte d’appello di Roma, in primo luogo, precisa che pur essendo pacifica la ricostruzione dei fatti, tuttavia non sono stati dedotti e neanche provati elementi tali da far ravvisare l’imputabilità alla società dei danni lamentati dall’ A., ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. o ad altro titolo.

In particolare, la Corte romana sottolinea che:

a) l’assegno in argomento è stato presentato per l’incasso a distanza di oltre un anno e mezzo rispetto alla data di emissione (quale riferita dallo stesso A. all’Ambasciata d’Italia in (OMISSIS) in prossimità del processo penale), quindi con molto ritardo rispetto ai tempi consueti;

b) da un documento pervenuto alla società dall'(OMISSIS) e tradotto nel corso del giudizio risulta che dopo la chiusura dei conti di cui si discute non vi erano posizioni debitorie nei confronti del locale ente previdenziale, il che porta ad escludere che la Salini, chiudendo i conti, avesse la consapevolezza dell’esistenza di altri oneri da assolvere;

c) inoltre anche volendo configurare nella fattispecie un inadempimento contrattuale, resta l’assenza di prevedibilità del danno subito dall’ A., al tempo in cui è sorta l’obbligazione (art. 1225 cod. civ.);

d) nè può giungersi a diverse conclusioni facendo riferimento ad un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale, posto che in questo ambito, nel quale sono risarcibili anche i danni indiretti e mediati, occorre comunque che questi ultimi siano un effetto normale dell’evento, secondo il principio della causalità adeguata.

2.- Il ricorso di A.B. domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resiste, con controricorso, la Salini Costruttori s.p.a.

Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Sintesi dei motivi del ricorso.

1.- Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 cod. civ., del D.Lgs. 31 maggio 1995, n. 218, art. 14 nonchè omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto fondamentale della controversia.

Si sostiene che la Corte d’appello di Roma abbia escluso la responsabilità della società per i danni lamentati dall’attuale ricorrente sul rilevo dell’assenza di elementi dedotti o provati, omettendo così di considerare che la accertata verificazione del sinistro avrebbe dovuto essere sufficiente ad addossare all’impresa l’onere di dimostrare di avere adottato ogni misura idonea per evitare l’evento. Tanto più che la causa di tale evento è rappresentata proprio dalle conseguenze giuridiche patite dal ricorrente a seguito del riscontro della mancanza di fondi al momento dell’incasso dell’assegno emesso dalla società Salini e dallo stesso sottoscritto per il pagamento di oneri contributivi (in favore degli operai della società in (OMISSIS)).

Nè va omesso di rilevare che si tratta di fatti particolare gravità, rappresentati da: 1) una sentenza di condanna pronunciata nei confronti dell’ A. in contumacia da parte di un tribunale algerino per emissione di assegni privi di provvista in favore del locale ente previdenziale; 2) l’assoggettamento ad un provvedimento detentivo in (OMISSIS); 3) il conseguente pagamento personale dell’importo non pagato; 4) la perdita, da parte del ricorrente, di un successivo lavoro alle dipendenze di altra società operante in (OMISSIS).

Nel suddetto modo la Corte romana avrebbe omesso di dare rilievo alla circostanza che unica debitrice e intestataria dei conti correnti sui quali è stato tratto l’assegno era la società stessa, la quale aveva chiuso i suddetti conti correnti senza premurarsi di lasciarvi l’adeguata provvista per il pagamento degli assegni ancora in circolazione ovvero di adottare gli adempimenti idonei per tutelare i lavoratori che avevano sottoscritto gli assegni stessi.

Si contesta, inoltre, la sentenza impugnata ove ha escluso la responsabilità della società ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. in considerazione del lasso temporale intercorso tra l’emissione dell’assegno e la chiusura dei conti, da cui ha desunto il disinteresse all’incasso in capo all’intestatario dell’assegno, senza effettuare alcun approfondimento al riguardo (eventualmente anche con l’acquisizione della normativa straniera D.Lgs. n. 218 del 1995, ex art. 14).

Il ricorrente sottolinea anche come la Corte romana, del tutto arbitrariamente, abbia desunto la piena prova dell’adempimento da parte della società Salini delle proprie obbligazioni previdenziali nei confronti dell’ente algerino sulla base di un documento assolutamente inidoneo al suddetto scopo (consistente in una lettera di alcuni operai nella quale essi dichiaravano di aver ricevuto quanto di loro spettanza), senza considerare le contrastanti dichiarazioni dello stesso ente previdenziale risultanti dagli atti del processo penale subito dal ricorrente.

2.- Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1225 cod. civ. e/o dell’art. 2043 cod. civ. e comunque omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un punto fondamentale della controversia.

Si rileva l’assoluta illogicità e apoditticità delle affermazioni contenute nella sentenza impugnata in merito alla non prevedibilità dell’evento dannoso, visto che da una negligente chiusura di un conto corrente è probabile che possa derivare il mancato pagamento di un assegno risultato senza provvista e che ciò possa dare luogo all’inizio di un procedimento penale a carico di chi ha sottoscritto il titolo (come prima era previsto anche in Italia e tuttora avviene in molti Paesi).

Altrettanto superficiali e illogiche, secondo il ricorrente, sono le parti della sentenza ove si è escluso sia che con il suddetto comportamento la società abbia arrecato all’ A. – manager operante su mercati internazionali – un effettivo e prevedibile danno all’immagine, sia il rapporto di causalità adeguata nella prospettazione della responsabilità aquiliana.

2 – Esame dei motivi del ricorso.

3.- Preliminarmente va precisato che, essendo stata la sentenza impugnata pubblicata il 2 febbraio 2006, non vi sono ostacoli di tipo formale che impediscono di esaminare nel merito le censure proposte.

Infatti, com’è noto, l’art. 366-bis cod. proc. civ. introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 – secondo cui i motivi del ricorso per cassazione devono contenere, a pena di inammissibilità, la formulazione di un quesito di diritto, si applica ai ricorsi per cassazione proposti avverso decisioni pubblicate a decorrere dal 2 marzo 2006 (vedi: D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2, nonchè Cass. 23 luglio 2007, n. 16275).

4.- Nel merito, i due motivi del ricorso – da trattare congiuntamente, data la loro intima connessione – non sono fondati.

Nonostante, il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nell’intestazione dei motivi, le censure si risolvono prevalentemente nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per asseritamente sbagliata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti.

Al riguardo va ricordato che la deduzione, con il ricorso per cassazione, di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicchè le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diverse da quella accolta dal giudice di merito (vedi, tra le tante Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logico- argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.

In particolare, non vale ad escludere la plausibilità della motivazione il fatto che la Corte d’appello, pur non misconoscendo l’assoluta particolarità della vicenda che ha dato origine alla presente controversia, abbia escluso qualunque tipo di responsabilità della Salini Costruttori s.p.a. nella verificazione degli spiacevoli eventi in cui è stato coinvolto l’ A..

Va, infatti, osservato che la Corte romana, ha opportunamente sottolineato come la ricostruzione dei fatti non abbia consentito di chiarire:

a) le ragioni per le quali l’assegno emesso dall’ A. (dotato di potere di firma) per conto della Salini in favore della CNASAT (Ente previdenziale argentino), sia stato messo all’incasso nel gennaio 1991, a distanza di oltre un anno e mezzo dalla data di emissione (del 13 giugno 1989, secondo quanto riferito dall’ A. stesso), oltre tutto da parte di un beneficiario del suddetto Ente (tale B.A.) e sia risultato privo di provvista al momento dell’incasso;

b) come mai, in questa situazione, da un documento di quasi quattro mesi successivo al momento dell’incasso dell’assegno, risulta che, in tale data, non vi erano posizioni debitorie della Salini nei confronti della CNASAT;

c) le ragioni, umanamente comprensibili, che hanno indotto l’ A. a scegliere di non impugnare la sentenza di condanna, rinunciando così ad approfondire ulteriormente la vicenda che aveva portato al suo arresto.

Tale “dubbia situazione” è la causa principale della decisione assunta dalla Corte romana, come risulta dalla esauriente e logica motivazione della sentenza impugnata.

Il Giudice del merito ha ben inquadrato i tre possibili titoli di responsabilità considerati ed ha esattamente escluso che, nella specie, ne sussistessero gli estremi.

A tale conclusione la Corte è pervenuta conformandosi ai seguenti consolidati orientamenti della giurisprudenza di legittimità, cui il Collegio intende dare continuità:

1 ) la responsabilità ex art. 2087 cod. civ. è di carattere contrattuale, in quanto il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell’art. 1374 cod. civ.) dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale, sicchè il riparto degli oneri probatori della conseguente domanda di risarcimento del danno si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 cod. civ. sull’inadempimento delle obbligazioni. Ne consegue che il lavoratore deve allegare e provare la esistenza dell’obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno (vedi, per tutte:

Cass. 14 aprile 2008, n. 9817; Cass. 17 giugno 2006, n. 11523; Cass. 17 febbraio 2009, n. 3788). Peraltro, il datore di lavoro è esonerato dall’onere di fornire la suddetta prova liberatoria a suo carico se il lavoratore non abbia provveduto a provare tutte le circostanze che ha l’onere di provare (vedi, per tutte: Cass. 20 febbraio 2006, n. 3650);

2) in materia di responsabilità contrattuale, la prevedibilità di cui all’art. 1225 cod. civ. costituisce uno dei criteri di determinazione dell’ambito del danno risarcibile, consistente in un giudizio di probabilità del verificarsi di un futuro danno espresso in astratto, secondo l’apprezzamento della normale diligenza del soggetto responsabile, che deve tenere peraltro conto di circostanze di fatto concretamente conosciute; a tale stregua pertanto essa attiene non già al giudizio di responsabilità bensì al danno considerato nel suo concreto ammontare, nonchè si identifica con il criterio della regolarità causale, che attribuisce significato giuridico alle conseguenze che possono verificarsi quando lo svolgimento causale ha andamento regolare (vedi, per tutte: Cass. 28 novembre 2003, n. 18239; Cass. 15 maggio 2007, n. 11189);

3) un evento dannoso è da considerare causato sotto il profilo materiale da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della conditio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante, non appaiano del tutto inverosimili (cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell’imputazione del danno). In tal senso viene in rilievo una nozione di prevedibilità che è diversa da quella delle conseguenze dannose, cui allude l’art. 1225 cod. civ., ed anche dalla prevedibilità posta a base del giudizio di colpa, poichè essa prescinde da ogni riferimento alla diligenza dell’uomo medio, ossia all’elemento soggettivo dell’illecito, e concerne, invece, le regole statistiche e probabilistiche necessarie per stabilire il collegamento di un certo evento ad un fatto. Nell’ambito di detta nozione di prevedibilità in tema di responsabilità aquiliana sono risarcibili anche i danni indiretti e mediati, purchè appunto siano un effetto normale secondo il suddetto principio della causalità adeguata. Tuttavia, in riferimento all’illecito aquiliano per omissione colposa, detta nozione di prevedibilità statistica deve essere adattata alla circostanza che in esso il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta in quanto colposa (in senso proprio od improprio) e non la mera causalità materiale, di modo che per l’imputazione della responsabilità occorre che il danno sia una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire, verificandosi un intreccio fra la causalità e la colpa, giacchè la causalità nell’omissione non può essere meramente materiale, in quanto ex nihilo nihil fit ed il suo accertamento postula un giudizio ipotetico sulla idoneità dell’azione prescritta e colpevolmente omessa ad impedire l’evento, pur restando, comunque, distinguibili il piano della causalità e quello della colpevolezza.

Anche in relazione alla causalità nell’omissione in ordine all’illecito aquiliano resta applicabile il principio per cui, non avendo l’art. 2056 cod. civ. richiamato l’art. 1225 cod. civ., sono risarcibili sia i danni prevedibili che imprevedibili, atteso che le dette particolarità rilevano sul piano della causalità giuridica di cui all’art. 1223 cod. civ. e non su quello della causalità materiale di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen. (Cass. 31 maggio 2005, n. 11609; Cass. 23 dicembre 2010, n. 26042);

4) in tema di responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dai principi di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen. per i quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della condicio sine qua non) nonchè dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base della quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiono – ad una valutazione ex ante – del tutto inverosimili. Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, di cui all’art. 41 cod. pen., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nella causalità efficiente, desumibile dall’art. 41 cod. pen., comma 2 in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 10 ottobre 2008, n. 25028).

5.- A ciò è da aggiungere che:

a) come evidenziato anche dalla Corte d’appello, l’ A., al momento dell’emissione dell’assegno bancario in oggetto, occupava nell’ambito dell’impresa una posizione di responsabilità come dirigente con potere di autorizzazione degli impegni di spesa per la società Salini e con il potere di firma degli assegni emessi sul conto corrente della società stessa;

b) conseguentemente, anche a prescindere dalla titolarità della qualifica di institore, l’ A., per il fatto stesso di occupare la suddetta posizione ed avere il menzionato potere di firma, aveva comunque elevati obblighi di diligenza, ai sensi dell’art. 2104 cod. civ., visto che tali obblighi sono proporzionati alla natura delle mansioni esercitate, secondo un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 12 gennaio 2009, n. 394);

c) inoltre, il medesimo R.D. n. 1736 del 1933, art. 14 stabilisce che: “la facoltà generale di obbligarsi in nome e per conto altrui comprende anche quella di emettere e girare assegni, salvo che l’atto di rappresentanza disponga diversamente”;

d) alla data di emissione dell’assegno stesso in Italia il reato di emissione di assegno senza provvista non era ancora stato depenalizzato (cosa che è avvenuta solo con il D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, art. 29);

e) conseguentemente, in base all’art. 5 cod. pen., chi emetteva un assegno doveva, fra l’altro, considerare che, per il combinato disposto del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, artt. 8 e 116 (nel testo all’epoca vigente), il mandato senza rappresentanza o la delega per la firma del titolo non fanno venir meno la responsabilità del rappresentante, o del delegato per l’emissione dell’assegno a vuoto, dato che creano una figura di traente in tutto equiparabile a quella del cointestatario del conto corrente, con lo stesso dovere di controllo circa la consistenza della provvista (Cass. pen. 2 maggio 1985, n. 4137);

f) d’altra parte, dal R.D. n. 1736 del 1933, artt. 32 e 75 si desume che, di regola, il termine massimo per riscuotere un assegno è, per la legge italiana, di sei mesi;

g) lo stesso R.D. n. 1736 del 1933, art. 55, comma 2, stabilisce che:

“l’assegno emesso all’estero ha gli stessi effetti in quanto questi siano ammessi dalla legge del luogo in cui l’assegno è stato emesso”;

h) il medesimo R.D. n. 1736 del 1933, art. 116 al pari del successivo L. 15 dicembre 1990, n. 386, art. 2 (nel testo originario) fanno espressamente riferimento, con riguardo alla fattispecie penale allora esistente, alla tempestività della presentazione dell’assegno all’incasso;

i) in questo quadro, colui che apponeva una firma su di un assegno non poteva sottovalutare le eventuali possibili conseguenze penali di quel gesto (all’epoca, si ripete, esistenti anche in Italia) e comunque doveva – e tuttora deve – aver presente che “l’assegno bancario ha gli effetti di un titolo esecutivo per il capitale e per gli accessori” (R.D. n. 1736 del 1933, art. 55, comma 1).

Ovviamente, le predette osservazioni non valgono a sottovalutare la delicatezza e la penosità di quanto è accaduto all’ A., tanto più che si deve anche considerare la diversità del nostro sistema giudiziario rispetto a quello algerino. Va, però, precisato che se tale diversità è stata l’elemento che ha determinato l’umiliante assoggettamento del ricorrente al provvedimento detentivo in (OMISSIS) è anche vero, però, che tale diversità avrebbe dovuto portare il ricorrente – che da anni operava sul lungo – a prestare uno scrupolo ancora maggiore al rispetto della normativa sugli assegni bancari (nei suoi risvolti penalistici e civilistici, da valere oltretutto in un Paese estero), rispetto a quello che comunque si richiede a chi emette (anche in proprio) un documento i cui effetti sono equiparati a quelli di un titolo esecutivo.

6.- Alla luce dei suddetti principi e delle modalità con le quali la Corte d’appello ne ha fatto applicazione, non può non concludersi che la Corte stessa ha effettuato correttamente la verifica della possibile ricorrenza di tutti gli elementi propri di ognuna delle tre diversi forme di responsabilità ipotizzagli a carico della società Salini, verifica che costituisce un accertamento di fatto demandato al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se, come nella specie, adeguatamente motivato.

A fronte di questa situazione, le doglianze mosse dal ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal Giudice di merito in senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.

3 – Conclusioni.

7.- In sintesi il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 44,00 per esborsi, Euro 2000,00 per onorario, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 5 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2011

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