Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17395 del 13/07/2017


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Cassazione civile, sez. II, 13/07/2017, (ud. 04/04/2017, dep.13/07/2017),  n. 17395

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIANCHINI Bruno – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10913-2013 proposto da:

P.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA AMPIO

FLAVIANO 20, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE BUONOMO,

rappresentato e difeso dall’avvocato UBALDO MARRONE;

– ricorrente –

contro

R.A. (OMISSIS), RU.CO. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 44, presso lo studio

dell’avvocato ARNALDO MIGLINO, rappresentati e difesi dagli avvocati

CLAUDIO BLASIMME, VISALLI SALVATORE;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 224/2013 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 26/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/04/2017 dal Consigliere Dott. GRASSO GIUSEPPE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS PIERFELICE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

I FATTI DI CAUSA

Il Pretore di Lipari rigettò il ricorso depositato il 26/9/1991 da O.A. e Ru.Co., con il quale costoro avevano chiesto di essere reintegrati nel possesso di una casa e di un magazzino, ubicati in (OMISSIS), del quale assumevano essere stati spogliati da P.E..

Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, con sentenza dell’1/9/2003, a conclusione della fase di merito, accolse la domanda possessoria, ordinando, quindi, al P. di reintegrare i coniugi R.- Ru. nel possesso delle predette unità immobiliari.

Avverso quest’ultima determinazione il P. propose appello. Gli appellati si costituirono chiedendo il rigetto dell’impugnazione. La Corte d’appello di Messina, con sentenza depositata il 26/3/2013, rigettò l’appello.

Per quel che rileva in questa sede, ed in estrema sintesi, è utile ricordare che il Giudice dell’appello aveva preliminarmente considerato irrilevante nel giudizio possessorio il giudicato petitorio, nelle more intervenuto tra le stesse parti, e concernente gli stessi immobili. La sentenza chiarisce che, fermo restando il carattere incidentale dei provvedimenti possessori emessi dal giudice del petitorio, destinati a venire assorbiti dalla sentenza che definisce la controversia petitoria – con la conseguenza che “il giudice del petitorio, una volta esclusa l’esistenza del diritto da cui si pretende di derivare il possesso deve necessariamente negare che quest’ultimo sia suscettibile di protezione giuridica”, stante il carattere recessivo della tutela possessoria, in presenza dell’accertamento petitorio dello ius possidendi – tuttavia ragionamento diverso deve esser fatto allorquando consti, come nella specie, essersi formati due titoli parimenti favorevoli allo spogliato. Nel senso che “l’accertamento petitorio è a vantaggio di quegli stessi soggetti che hanno ottenuto la tutela, sia pure solo in primo grado in sede possessoria”.

“Allora” prosegue la sentenza “ben può essere configurato il permanere dell’interesse dell’attore a conseguire contemporaneamente le due tutele che comunque soddisfano distinti ed autonomi interessi della parte istante, essendo rivolta l’azione petitoria alla tutela della proprietà, laddove quella possessoria ha ad oggetto soltanto il ripristino dello stato di fatto e alle quali soprattutto conseguono due diversi titoli esecutivi aventi ad oggetto la consegna del bene”. Ciò premesso l’appello andava esaminato, seppure non poteva non tenersi conto delle decisive influenze derivanti dal giudicato petitorio, ai sensi dell’art. 2909 c.c..

Decisivo e non più controvertibile doveva ritenersi l’accertamento, effettuato in sede petitoria, dell’acquisto per usucapione da parte dei coniugi R. – Ru., il che implicava essere rimasto confermato l’utile possesso ultra-ventennale, con effetto, quindi, preclusivo dell’esame delle doglianze, con le quali l’appellante aveva contestato proprio l’esistenza del possesso in capo agli appellati.

La sentenza, infine, esaminando partitamente il merito, afferma che la apposizione dei lucchetti (circostanza, questa, ammessa dallo stesso appellante) costituiva atto di spoglio; la legittimazione attiva dell’azione possessoria non era venuta meno per il mero fatto di avere venduto a terzi l’immobile, stante che l’alienante trasferisce la proprietà ma non necessariamente anche il possesso; correttamente le spese di giustizia erano state poste a carico del soccombente. Infine non sussistevano ragioni per sospendere il giudizio in attesa degli sviluppi su una querela di falso proposta dall’appellante, avente ad oggetto la scrittura del 1971, a firma di Caterina Taranto, costituente il titolo dedotto dai coniugi R.- Ru., valorizzata quale elemento di prova, nel giudizio petitorio. La questione avrebbe potuto, ove la falsità fosse stata accettata con sentenza irrevocabile, essere invocata con domanda di revocazione.

In ogni caso non era sulla scrittura in parola che la sentenza possessoria di primo grado si fondava, trattandosi solo di uno degli elementi indiziari utilizzati, con la conseguenza che “difetterebbe comunque quel rapporto di dipendenza necessaria della presente decisione rispetto all’altra che solo giustifica l’invocata sospensione”.

Avverso la sentenza d’appello propone ricorso per cassazione P.E., illustrando quattro motivi di censura. Resistono con controricorso R.A. e Ru.Co..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo P.E. deduce la violazione degli artt. 703 e 704.

Il ricorrente assume che, intervenuto l’accertamento petitorio, è preclusa l’emanazione del provvedimento possessorio. Di conseguenza la Corte di merito avrebbe dovuto dichiarare che la reintegra nel possesso era preclusa dalla intervenuta pronuncia petitoria, con la quale era stato, peraltro, ordinato il rilascio dell’immobile in favore dei resistenti. In definitiva, avrebbe dovuto dichiarare la inammissibilità della domanda di reintegra.

Nè risultava dirimente affermare che la pronuncia petitoria era favorevole agli stessi attori in possessoria, in quanto la prima “ha contenuto del tutto contrastante e incompatibile con quella emessa in sede possessoria che ha accertato una situazione di compossesso degli immobili (…) tant’è che ha disposto solo la consegna delle chiavi dei lucchetti delle porte di ingresso e non la riconsegna degli immobili”.

La censura non ha fondamento giuridico.

La Corte territoriale, invero, ha fatto corretta e puntuale applicazione dei principi di diritto in materia. La qualità recessiva della tutela possessoria rispetto a quella petitoria implica che colui il quale vanti posizione possessoria meritevole di protezione deve cedere innanzi all’accertamento in petitorio del diritto in capo ad altri. “In questo senso può parlarsi di recessività della tutela del possesso a fronte dell’accertamento in petitorio dello ius possidendi. Invero, fino a quando non intervenga una decisione in sede petitoria, il giudicato possessorio fa stato tra le parti, le quali sono tenute ad uniformare ad esso il proprio comportamento (Cass., Sez., 1″, 24 gennaio 1962, n. 123), senza che l’efficacia di quel giudicato sia subordinata all’instaurazione di un giudizio avente ad oggetto la situazione di diritto esistente tra le parti. Tuttavia, una volta intervenuta, la pronuncia sui rapporti petitori tra le parti interrompe o pone nel nulla l’efficacia – del provvedimento conclusivo del giudizio possessorio, il quale non è idoneo ad incidere su diritti e rinviene nel provvedimento giudiziale di tutela del diritto il proprio limite di efficacia” (Sez. 2, n. 2371, 17/2/2012).

Deve, invece, escludersi che colui il quale sia stato affermato titolare del diritto non possa far valere, oltre alla posizione petitoria, quella possessoria, non rilevandosi fra le due situazioni incompatibilità di sorta e, pertanto, non rilevandosi ragioni per privare il predetto dei rimedi ripristinatori della favorevole statuizione possessoria.

Con il secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nonchè omesso esame di più fatti aventi carattere decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Secondo l’assunto, la Corte di Messina aveva omesso di esaminare i seguenti punti: la contraddittorietà delle dichiarazioni rese dal teste L.M. nel giudizio petitorio e in quello possessorio; la inutilizzabilità della scrittura privata del 1971 come prova del possesso in ragione della sua genericità, nonchè falsità; la rilevanza del possesso esercitato nel medesimo periodo dal terzo ( C.M.) rimasto estraneo al giudizio possessorio e a quello petitorio. Il contraddittorio non era integro e la sentenza era stata già impugnata dal terzo con l’opposizione, ai sensi dell’art. 404 c.p.c., oltre ad essere stata opposta anche in sede esecutiva.

Il motivo non supera il vaglio d’ammissibilità in quanto aspecifico e non autosufficiente.

La Corte messinese ha, infatti, reso sul punto concludente motivazione, che il ricorso, peraltro largamente evocante, in forma apodittica e sommaria, emergenze non conoscibili in questa sede, non attinge.

La sentenza gravata, infatti, pone a base della decisione l’irrevocabile accertamento avvenuto in sede petitoria, specie tenuto conto del fatto che “il diritto di proprietà è stato riconosciuto non già sulla scorta dei titoli indicati dagli attori (che nel presente giudizio avrebbero rilevato solo ad colorandam possessionem) ma per il maturarsi in loro favore dell’usucapione (…) il giudicato sul punto rende infondate e comunque preclude l’esame delle doglianze con le quali l’appellante contesta proprio l’esistenza di detta situazione possessoria in capo agli appellati”. Inoltre spiega come l’apposizione dei lucchetti aveva costituito atto di spoglio e chiarisce che la legittimazione attiva all’esercizio dell’azione possessoria “non viene meno per il solo fatto” che i resistenti avevano nelle more venduto a terzi l’immobile, posto che “l’alienante trasferisce all’acquirente la proprietà ma non necessariamente il possesso”.

Con il terzo motivo il ricorso deduce la violazione dell’art. 295 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nonchè l’omesso esame del fatto decisivo, che aveva costituito oggetto di discussione, costituito dal carattere pregiudiziale del giudizio di opposizione di terzo all’esecuzione. Attraverso la predetta opposizione la C. mirava a fare dichiarare l’inefficacia del titolo nei suoi riguardi, ma anche e soprattutto a dimostrare che il proprio possesso era valido per l’usucapione.

A proposito, poi, della querela di falso, osserva il ricorrente che tanto la sentenza emessa nel giudizio petitorio, che quelle emessa nel giudizio possessorio di primo grado, si erano avvalse decisivamente della scrittura privata dell’11 gennaio o 11 marzo 1971, che era stata confezionata con ogni probabilità nel 1991, o successivamente, contestualmente all’acquisto operato dai coniugi R. degli immobili in questione. Quell’elemento di prova, ribadisce il ricorso, assume carattere decisivo. Solo di recente il P. era venuto a conoscenza della falsità ed aveva perciò proposto in via principale un giudizio di querela di falso innanzi al Tribunale di Barcellona. Non era vero che quel documento, siccome affermato dalle impugnata sentenza d’appello, aveva avuto rilievo marginale nella sentenza di primo grado del giudizio possessorio, in quanto, rileva il P., il giudice ricava la prova del possesso proprio dalla predetta scrittura. Di conseguenza, la Corte d’appello avrebbe dovuto sospendere il giudizio.

Sospensione che era comunque dovuta in relazione alla pendenza di un altro giudizio, cioè dell’opposizione di terzo all’esecuzione proposta da C., moglie del P., litisconsorte necessario pretermesso nel giudizio petitorio. Tanto che il Tribunale adito, con ordinanza del 26/9/2011, aveva sospeso l’efficacia esecutiva del titolo. Con la predetta opposizione la C. aveva esposto di essere rimasta indisturbata nel possesso del bene dall’inizio degli anni ‘90 sino al 2011 (data di esecuzione della sentenza di rilascio) e, pertanto, di aver acquistato la proprietà del bene per effetto dell’usucapione. Trattavasi, all’evidenza, di una situazione possessoria incompatibile con il possesso vantato dagli attori nel presente giudizio e avente carattere pregiudiziale. Sul punto Corte territoriale era stata ingiustamente liquidatoria, mentre lo stesso non era di scarso rilievo “se si considera che l’immobile in questione era in possesso esclusivo della C. e dei coniugi da oltre un ventennio”.

Il motivo è manifestamente infondato.

La Corte di merito ha chiarito che in pendenza di decisione sulla querela di falso proposta in via autonoma; il processo nel quale quel documento è stato prodotto deve essere sospeso nel solo caso in cui l’eventuale declaratoria di falso travolgesse la statuizione, facendo venir meno un elemento costitutivo della pretesa attorea o di una contrapposta decisiva eccezione. Una tale interpretazione è conforme ai principi enunciati in materia da questa Corte (Sez. 6-1, 4/7/2011, n. 14578), la quale ha spiegato che per la sospensione necessaria del processo ex art. 295 c.p.c., non è sufficiente che tra due liti sussistà una mera pregiudizialità logica, ma è necessario un rapporto di pregiudizialità giuridica, che ricorre soltanto quando la definizione di una controversia costituisca l’indispensabile antecedente logico giuridico dell’altra il cui accertamento debba avvenire con efficacia di giudicato (Sez. 1, n. 5533, 13/4/2001, Rv. 545914).

Il ricorrente non propone elementi valutativi, attingibili in sede di legittimità, tali da disarticolare il superiore convincimento.

Analogamente era stata esclusa la necessità di sospendere il giudizio in relazione all’opposizione di terzo proposta dalla C., la quale era succeduta a titolo particolare al marito ricorrente. Il ricorrente neppure allega che l’acquisto della C. risalga ad epoca anteriore alla pendenza della lite (la controparte afferma che l’atto era risalente ad epoca successiva) e, di conseguenza non contrasta l’operatività della disciplina di cui all’art. 111 c.p.c., commi 1 e 4, che rende ovviamente senza fondamento l’istanza di sospensione.

Con il quarto ed ultimo motivo il deducente allega violazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. La sentenza, a suo dire, è viziata per violazione della norma citata, in quanto le spese “andavano poste sulla parte appellata in ossequio al principio di soccombenza o quanto meno compensate in funzione della reciproca soccombenza”.

La pretesa, come par logico, pretende irragionevolmente di sovvertire la regola posta a base del riparto delle spese legali.

Il regolamento delle spese del giudizio di legittimità segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle svolte attività, siccome in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, (inserito dal L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte della ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

PQM

 

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore della parte resistente, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, inserito dal L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, il 4 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2017

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