Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17379 del 18/08/2011

Cassazione civile sez. III, 18/08/2011, (ud. 05/07/2011, dep. 18/08/2011), n.17379

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 18926/2009 proposto da:

D.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA A TRAVERSARI 55, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE

MARZANO, rappresentato e difeso dall’avvocato CIUCCI Berardino giusta

delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

L.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA F. DENZA 50-A, presso lo studio dell’avvocato LAURENTI

LUCIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LAURENTI

FRANCESCA giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 512/2008 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

emessa il 15/04/2008, depositata il 11/07/2008 R.G.N. 1092/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/07/2011 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito l’Avvocato LAURENTI NICOLA (per delega dell’Avv. LAURENTI

FRANCESCA);

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice, che ha concluso con il rinvio a nuovo ruolo o il

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p.1. D.F. ha proposto ricorso per cassazione contro L.A. avverso la sentenza dell’11 luglio 2008, con la quale la Corte d’Appello di L’Aquila, previa dichiarazione di nullità della sentenza resa in primo grado sulla controversia in quanto pronunciata dal Tribunale di L’Aquila, in composizione monocratica, in persona di magistrato diverso da quello davanti al quale erano state precisate le conclusioni, ha accolto la domanda del L. (rigettata invece dal primo giudice per difetto di legittimazione passiva sostanziale del convenuto qui ricorrente) intesa ad ottenere dal D. il risarcimento dei danni sofferti a causa di una caduta da cavallo in occasione di una lezione di equitazione presso il maneggio di detta azienda.

p.2. Al ricorso, che prospetta quattro motivi, ha resistito con controricorso il L..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. Preliminarmente il controricorso va dichiarato inammissibile, perchè è stato notificato tardivamente.

Invero, esso è stato notificato il 9 febbraio 2010 in presenza di una notificazione del ricorso avvenuta il (OMISSIS) presso l’apposito presidio, istituito in ragione dell’evento tellurico che ha colpito l’Aquila e l’Abruzzo nell’aprile del 2009 ai sensi del D.L. n. 39 del 2009, art. 5, commi 9 e 10, convertito, con modificazioni, nella L. n. 77 del 2009.

Ora, ai sensi dell’art. 5 citato, comma 1, fino al 31 luglio 2009 non poteva decorrere il termine per la notificazione del controricorso.

Essendo la causa soggetta al periodo di sospensione dei termini feriale dell’ano 2009, il termine non potè iniziare a decorrere se non dal 16 settembre 2009.

Il controricorso risulta, però notificato ben oltre il termine di cui al primo comma dell’alt 370 c.p.c, calcolato da quella data.

Ne consegue la sua tardività ed inammissibilità.

p.2. Con il primo motivo si deduce “nullità della sentenza e del procedimento, per violazione degli artt. 158, 161, 276, 354 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4)” e si pone il seguente quesito di diritto:

“Dica la Suprema corte se il Giudice dell’Appello, il quale rilevi che la sentenza di primo grado, pronunciata dal Tribunale in composizione monocratica, è stata sottoscritta da un magistrato diverso da quello che ha assistito alla udienza di precisazione delle conclusioni, nonchè a tutte le fasi antecedenti la discussione della causa, possa decidere la causa nel merito, o se piuttosto debba rimettere la causa al primo Giudice”.

Vi si lamenta, in sostanza, che la Corte d’Appello, pur avendo accolto il motivo di appello con cui il L. aveva sostenuto la nullità della sentenza perchè pronunciata da un magistrato diverso da quello davanti al quale erano state precisate le conclusioni, abbia poi ritenuto di poter rimediare alla nullità disponendo la rinnovazione della decisione anzichè rimettendo la causa al primo giudice ai sensi dell’art. 354 c.p.c.. Tale rimessione sarebbe stata doverosa, perchè la nullità derivante dalla pronuncia della decisione da parte di un giudice persona fisica diverso da quello della precisazione delle conclusioni era riconducibile all’art. 161 c.p.c., comma 2, concretandosi in una fattispecie integratrice della mancanza di sottoscrizione del giudice che avrebbe dovuto sottoscrivere la sentenza.

p.2.1. Il motivo è privo di fondamento.

Non ignora il Collegio che in passato questa Corte ha condiviso il ragionamento del ricorrente (si vedano: Cass. n. 13831 del 1999, secondo cui: “E’ nulla per vizio di sottoscrizione la sentenza che definisce un procedimento di primo grado dinanzi al giudice unico qualora quest’ultimo, dopo la precisazione delle conclusioni e prima della decisione, sia stato trasferito e, per l’effetto, (illegittimamente) sostituito, con decreto dal Presidente del Tribunale, con altro giudice che abbia, a sua volta, emanato la decisione e sottoscritto la relativa sentenza. In tal caso, difatti, giusta disposto dell’art. 161 cod. proc. civ., la radicale nullità della pronuncia consegue alla sottoscrizione apposta da giudice diverso da quello che avrebbe dovuto apporla perchè investito della cognizione del processo in base a decreto contra legem (dacchè non connesso ad un contestuale provvedimento di rimessione della causa sul ruolo, onde consentire alle parti una nuova precisazione delle conclusioni), senza che, in contrario, possa utilmente invocarsi il disposto dell’art. 174 del codice di rito, funzionale alla sola sostituzione del giudice istruttore nel corso dell’istruttoria – ovvero (art. 174 secondo comma) alla sua sostituzione tout court nel solo caso di assoluto impedimento”; nonchè Cass. n. 3677 del 2001, secondo la quale: “E’ nulla per vizio di sottoscrizione la sentenza che definisce un procedimento di primo grado dinanzi al giudice unico qualora quest’ultimo, designato con decreto presidenziale a sostituire il titolare del procedimento, abbia tenuto alcune udienze di trattazione, nonchè l’udienza di precisazione delle conclusioni, assumendo, per l’effetto, la causa in decisione, ma non abbia, poi, emesso la decisione stessa, nè redatto la relativa sentenza, in conseguenza del rientro in servizio del magistrato da lui sostituito (che, nella specie, aveva poi assunto la decisione ed emesso il conseguente provvedimento). In tal caso, difatti, giusta disposto dell’art. 161 cod. proc. civ., la radicale nullità della pronuncia consegue alla sottoscrizione apposta da giudice diverso da quello che avrebbe dovuto apporta (rendendosi, nella specie, necessario un provvedimento di rimessione della causa sul ruolo, onde consentire alle parti una nuova precisazione delle conclusioni), senza che, in contrario, possa utilmente invocarsi il disposto dell’art. 174 del codice di rito, funzionale alla sola sostituzione del giudice istnittorc nel corso dell’istruttoria – ovvero (art. 174, comma 2) alla sua sostituzione tout court nel solo caso di assoluto impedimento”).

Tuttavia, questo orientamento, che applicava il regime della nullità derivante dalla mancanza della sottoscrizione, di cui all’art. 161 c.p.c., comma 2, ad un’ipotesi:

tutt’affatto diversa di nullità, derivante dalla inosservanza della previsione di immutabilità del giudicante nella fase di decisione, siccome emergente dall’art. 276 c.p.c. e dal riferimento dell’art. 174 c.p.c. alla sola fase istruttoria, così indebitamente estendendo una norma di natura eccezionale ed individuando sostanzialmente un’ipotesi di rimessione al primo giudice del tutto distinta, posto che la sentenza resa da magistrato diverso da quello davanti al quale sono precisate le conclusioni è ipotesi in cui un giudice ed un giudice dello stesso ufficio ha apposto la sottoscrizione ed assunto la paternità della decisione.

L’abbandono dell’orientamento più antico e la qualificazione della nullità di cui si discorre alla stregua dell’art. 158 c.p.c., con conseguente applicazione del suo regime e sottrazione della fattispecie all’operare dell’art. 354 c.p.c., emerge innanzitutto da Cass. n. 4285 del 2002, sia pure a proposito di giudice collegiale, secondo la quale: “La decisione deliberata in camera di consiglio da un collegio diverso, in uno o più membri, da quello che ha assistito alla discussione della causa, in violazione dell’art. 276 cod. proc. civ., comma 1, è causa di nullità della sentenza, riconducibile al vizio di costituzione del giudice ai sensi dell’art. 158 cod. proc. civ.; in caso, il giudice d’appello che rilevi detta nullità, è tenuto a trattenere la causa e a deciderla nel merito, senza rimetterla al giudice che ha pronunciato la sentenza affetta da nullità, non ricorrendo nella specie alcuna delle ipotesi di rimessione tassativamente previste dall’art. 354 cod. proc. civ., in particolare non essendo il vizio in questione assimilabile al difetto assoluto di sottoscrizione della sentenza, contemplato dall’art. 161 c.p.c., comma 2, che detta rimessione impone”; in senso conforme:

Cass. n. 14456 del 2003; implicitamente Cass. n. 13061 del 2004, che rimise in appello il giudizio dopo avere censurato la violazione;

Cass. n. 13351 del 2004; Cass. n. 8545 del 2009.

Il detto abbandono è stato ampiamente motivato da Cass. n. 15629 del 2005, nuovamente per ipotesi di mutamento del giudice collegiale, ma con argomenti mutuabili automaticamente all’ipotesi di monocraticità. Tale decisione, alle cui motivazioni si rinvia, ha così statuito: “La decisione di primo grado deliberata in camera di consiglio da un collegio diverso, in uno o più membri, da quello che ha assistito alla discussione della causa, in violazione dell’art. 276 cod. proc. civ., comma 1, è causa di nullità della sentenza, riconducibile al vizio di costituzione del giudice ai sensi dell’art. 158 cod. proc. civ., ed è soggetta al relativo regime, con la conseguenza che il giudice d’appello che rilevi anche d’ufficio detta nullità, è tenuto a trattenere la causa e a deciderla nel merito, provvedendo alla rinnovazione della decisione come naturale rimedio contro la rilevazione della nullità (salvo dar corso anche ad eventuali attività cui sia stato sollecitato nell’ambito del regime dei nova in appello), e non deve, invece, rimettere la causa al primo giudice che ha pronunciato la sentenza affetta da nullità, in quanto non ricorre nella specie alcuna delle ipotesi di rimessione tassativamente previste dall’art. 354 cod. proc. civ., dovendosi in particolare escludere che il vizio in questione sia assimilabile al difetto assoluto di sottoscrizione della sentenza, contemplato dall’art. 161 c.p.c., comma 2, per il quale, invece, detta rimessione è imposta dallo stesso art. 354. Allorquando il vizio venga rilevato (anche d’ufficio) dalla Corte di cassazione, la causa va rimessa al giudice d’appello ovvero al giudice che ha pronunciato in unico grado per la rinnovazione della decisione, non potendo la rinnovazione della decisione essere effettuata nel giudizio di legittimità”.

Da ultimo, si veda Cass. n. 20859 del 2009, a proposito di monocraticità, la quale ha così statuito: “Nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, costituisce corollario dell’art. 281 quinquies cod. proc. civ., la regola dell’immutabilità del giudice davanti al quale vengono precisate le conclusioni, con conseguente necessità di rinnovazione di tale udienza ove vi sia una successiva sostituzione del giudice già designato. Il vizio che deriva dall’inosservanza di tale regola, però, non rientra nella fattispecie di cui all’art. 161 cod. proc. civ., comma 2, onde la relativa sentenza – ancorchè affetta da nullità assoluta ed insanabile – è idonea a passare in giudicato; ne consegue che, ove il giudice d’appello rilevi detta nullità, è tenuto a decidere la causa nel merito, non potendo rimetterla al giudice di primo grado ai sensi dell’art. 354 c.p.c.”.

p.3. Con il secondo motivo si deduce “violazione degli artt. 1350 e 1418 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) e si pone il seguente quesito di diritto: “dica il Supremo Collegio se può ritenersi costituita una società di fatto nell’ipotesi in cui l’unico bene di cui è stato accertato il conferimento risulti essere un bene immobile”.

Con il terzo motivo si lamenta “nullità del procedimento e della sentenza per violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4) e, dopo la sua illustrazione si propone il seguente quesito di diritto: “dica la suprema Corte se alla Corte d’Appello fosse concesso di accogliere la domanda in forza di una qualificazione del soggetto – individuato come legittimato passivo – radicalmente mutata rispetto a quella esposta nel giudizio di primo grado, essendo stato il convenuto chiamato in giudizio in quanto titolare dell’impresa nota come Azienda Agrituristica casale Antonacci, e poi qualificato, in sede di gravame, quale socio della società di fatto che gestiva la medesima impresa”.

Con il quarto motivo si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c.; artt. 2203, 2247 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Il motivo è concluso dal seguente quesito di diritto: “dica la Suprema Corte se l’accertamento della gestione plurale di un’impresa può valere di per sè a dimostrare l’esistenza di un rapporto societario tra tutti coloro che collaborino all’esercizio dell’impresa medesima”.

p.3.1. Il secondo ed il quarto motivo sono inammissibili perchè i quesiti di diritto che li concludono sono del tutto inidonei ad assolvere al requisito dell’art. 366-bis c.p.c., perchè prospettano interrogativi del tutto astratti, sia sotto il profilo della mancanza di riferimento alla decisione impugnata, sia sotto il profilo della mancanza di individuazione della concreta fattispecie, così apparendo inidonei a svolgere la funzione propria del requisito di cui a detta norma (applicabile al ricorso ai sensi della L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5) e, quindi, nulli per inidoneità al raggiungimento dello scopo (art. 156 c.p.c., comma 2).

Infatti, l’art. 366 bis c.p.c., quando esigeva (si parla al passato, essendo stato esso abrogato, ma non rilevando l’abrogazione in relazione al ricorso in esame. La L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5) che il quesito di diritto dovesse concludere il motivo imponeva che la sua formulazione non si presentasse come la prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla vicenda oggetto del procedimento, bensì evidenziasse la sua pertinenza ad essa.

Invero, se il quesito doveva concludere l’illustrazione del motivo ed il motivo si risolve in una critica alla decisione impugnata e, quindi, al modo in cui la vicenda dedotta in giudizio è stata decisa sul punto oggetto dell’impugnazione e criticato dal motivo, appariva evidente che il quesito, per concludere l’illustrazione del motivo, dovesse necessariamente contenere un riferimento riassuntivo ad esso e, quindi, al suo oggetto, cioè al punto della decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse evidenziato – ancorchè succintamente – perchè l’interrogativo giuridico astratto era giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza impugnata. Un quesito che non avesse presentato questo contenuto era, pertanto, un non-quesito (si veda, in termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008; nonchè n. 6420 del 2008) e come tale dev’essere ritenuto inidoneo ad assolvere al requisito dell’art. 366-bis c.p.c..

Solo leggendo l’illustrazione dei motivi il lettore è messo in grado di percepire quale sia il significato degli interrogativi su cui la Corte dovrebbe decidere, che altrimenti restano del tutto oscuri.

Ma in tal modo, come aveva già affermato Cass. (ord.) n. 16002 del 2007 si pretenderebbe di desumere il vero quesito di diritto dall’illustrazione del motivo, il che è contrario alla logica della norma dell’art. 366-bis c.p.c., che era di consentire alla Corte di percepire con immediatezza le quaestiones iuris poste da ciascun motivo.

p.3.2. Il quesito posto con riguardo al terzo motivo non si presenta astratto, perchè vi si fa riferimento al decisum della sentenza impugnata, ma merita risposta negativa senza bisogno di illustrare le argomentazioni con cui è sostenuto. E’ sufficiente osservare che l’operazione compiuta dalla Corte territoriale, che vi si descrive, non ha determinato alcun mutamento del diritto oggetto della domanda, come vorrebbe suggerire l’evocazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., atteso che l’attribuzione al qui ricorrente della posizione di socio di fatto e come tale di responsabile non ha determinato alcun mutamento di detto diritto quanto ai suoi termini di identificazione soggettiva, essendo stato sempre il ricorrente considerato legittimato sostanzialmente come persona fisica e costituendo la veste di socio esclusivamente la ragione per la quale è stato ritenuto legittimato. La Corte territoriale ha soltanto compiuto – come del resto suggerisce lo stesso quesito con l’uso del participio “qualificato” – opera di qualificazione in iure della ragione della legittimazione del ricorrente come persona fisica.

Il terzo motivo è, pertanto, infondato.

p.4. Conclusivamente il ricorso è rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano tenendo conto della sola attività di partecipazione all’udienza del resistente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo ed il terzo motivo di ricorso. Dichiara inammissibili il secondo ed il quarto motivo. Condanna il ricorrente alla rifusione al resistente della spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro tremilaquattrocento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 5 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 18 agosto 2011

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