Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17377 del 26/08/2016


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Cassazione civile sez. lav., 26/08/2016, (ud. 09/06/2016, dep. 26/08/2016), n.17377

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21368-2010 proposto da:

A.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA LUCREZIO CARO 62, presso lo studio dell’avvocato

FIORAVANTE CARLETTI, rappresentato e difeso dall’avvocato ERALDO

BORDONI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE C.F. (OMISSIS), in

persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

Avvocati ALESSANDRO RICCIO, SERGIO PREDEN, MAURO RICCI, giusta

delega in atti;

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI

INFORTUNI SUL LAVORO C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

IV NOVEMBRE 144, presso lo studio dell’avvocato LUIGI LA PECCERELLA,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCIANA ROMEO,

giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 450/2009 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 09/09/2009 R.G.N. 509/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2016 dal Consigliere Dott. CAVALLARO LUIGI;

udito l’Avvocato FIORAVANTE CARLETTI per delega Avvocato BORDONI

ERALDO;

udito l’Avvocato PREDEN SERGIO;

udito l’Avvocato PUGLISI LUCIA per delega Avvocato ROMEO LUCIANA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA MARCELLO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con sentenza depositata il 9.9.2009, la Corte d’appello di Perugia rigettava il gravame proposto da A.G. avverso la pronuncia con cui il Tribunale di Terni aveva respinto la sua domanda di rivalutazione contributiva L n. 257 del 1992, ex art. 13, e succ. mod. e integraz., sul presupposto che egli fosse lavoratore autonomo e, come tale, estraneo al beneficio in questione.

La Corte preliminarmente rilevava che l’appellante, pur avendo interposto appello deducendo esclusivamente l’erroneità della statuizione di primo grado per ciò che riguardava la non applicabilità ai lavoratori autonomi del beneficio invocato, con successiva memoria autorizzata aveva dedotto la propria qualità di lavoratore dipendente, di cui erroneamente non si era accorto il giudice di prime cure, e in considerazione dell’inammissibilità di nuove doglianze successive alla proposizione dell’appello rigettava il gravame, compensando le spese.

Contro questa pronuncia ricorre A.G., affidandosi a due motivi. Resistono l’INPS e l’INAIL con distinti controricorsi. Il ricorrente e l’INPS hanno anche depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 434 e 437 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto che il divieto di domande nuove in appello comportasse l’impossibilità di ampliare il thema probandum et decidendum rispetto a quanto devoluto con i motivi di appello, invece che rispetto a quanto dedotto con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado.

Con il secondo motivo, inoltre, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., per avere la Corte di merito ritenuto che con la memoria depositata in appello egli avesse effettivamente ampliato il thema decidendum, invece che limitarsi a mutare il motivo per cui aveva chiesto l’applicazione dei benefici di cui alla L. n. 257 del 1992, art. 13, e succ. mod. e integraz..

I due motivi possono essere trattati congiuntamente, stante l’intima connessione delle censure svolte, e sono infondati. Questa Corte ha infatti da tempo posto il principio secondo cui, potendo i motivi di impugnazione della sentenza di primo grado essere formulati solo con l’atto di appello, l’appellante non può aggiungere altre censure nel corso dell’ulteriore attività processuale, in quanto il diritto di impugnazione si esplica e si consuma con l’atto di appello, che fissa i limiti della devoluzione della controversia in sede di gravame (cfr. Cass. n. 7088 del 2001 e, più recentemente, Cass. n. 10649 del 2015).

Correttamente, dunque, la Corte di merito ha rilevato l’inammissibilità della doglianza sollevata dall’odierno ricorrente con la memoria depositata successivamente all’atto di appello, ancorchè concernesse una circostanza già dedotta nel corso del giudizio di primo grado: trattandosi di questione che non aveva formato oggetto di uno specifico motivo d’impugnazione e che implicava il mutamento del fatto costitutivo del diritto ai benefici oggetto della domanda, la sua considerazione avrebbe dato luogo a violazione del giudicato interno e, dunque, a vizio della sentenza che ne avrebbe comportato la cassazione senza rinvio (così Cass. n. 7088 del 2001, cit.).

Al riguardo, infatti, non può convenirsi con parte ricorrente nell’assunto secondo cui, essendo oggetto della domanda la rivendicazione dei benefici L. n. 257 del 1992, ex art. 13, non vi potrebbe essere alcuna mutatio libelli nel richiederli in qualità di lavoratore autonomo ovvero in qualità di lavoratore subordinato: diversamente dalle azioni reali, che tendendo ad affermare una situazione illegittima del convenuto rispetto ad un certo bene possono trovare fondamento in una pluralità di disposizioni di legge la cui invocazione successiva non dà luogo (almeno normalmente) a mutamento di domanda, le azioni personali, quali debbono considerarsi quelle volte alla condanna al pagamento di una prestazione previdenziale, sono connesse ad un fatto che non può essere mutato senza che muti la domanda, il che vale anche quando, come nella specie, il fatto costitutivo presuppone la sussistenza di una certa qualifica normativa (cfr., per un caso analogo, Cass. n. 17077 del 2005).

Il ricorso, pertanto, va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 2.100,00, di cui Euro 2.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge, per ciascuno dei controricorrenti.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2016

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