Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17362 del 19/08/2020

Cassazione civile sez. trib., 19/08/2020, (ud. 25/02/2020, dep. 19/08/2020), n.17362

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 18558/2013 R.G. proposto da

P.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe

Cassarino, elettivamente domiciliato in Roma, in via F.Sacchetti, n.

125, presso l’avv. Giuseppina Stillitani;

– ricorrente –

CONTRO

Agenzia delle entrate, in persona del direttore p.t., rappresentata e

difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici, in

Roma, in via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

-controricorrente-

avverso la sentenza n. 128/16/12 della Commissione tributaria

regionale della Sicilia, pronunciata il 6 febbraio 2012, depositata

il 7 maggio 2012 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 25 febbraio

2020 dal Consigliere Andreina Giudicepietro.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

il contribuente ricorre con quattro motivi avverso l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza n. 128/16/12 della Commissione tributaria regionale della Sicilia (di seguito C.t.r.), depositata il 7 maggio 2012 e non notificata che, in controversia relativa all’impugnazione dell’avviso di accertamento, inerente al periodo di imposta 1999, ed alla contestazione delle sanzioni amministrative, ha rigettato l’appello del sig. P.G., confermando la sentenza di primo grado della Commissione tributaria provinciale di Siracusa;

secondo la C.t.r. la proroga di due anni dei termini per l’accertamento delle imposte dirette e dell’Iva, per i contribuenti che non si siano avvalsi delle agevolazioni fiscali di cui alla L. n. 289 del 2002, artt. da 7 a 9, non ha la finalità punitiva nei confronti di chi abbia scelto di non avvalersi del condono, ma di ovviare all’aggravio di lavoro ed ai relativi rischi di disservizio e di mancato rispetto degli ordinari termini di prescrizione e di decadenza della pretesa fiscale;

nel caso di specie, dunque, riguardando l’avviso di accertamento il periodo d’imposta 1999, l’Ufficio avrebbe dovuto notificare l’avviso di cui è causa entro il 31 dicembre 2006 ed, acclarato che la notifica del suddetto avviso è avvenuta il 16 giugno 2005, la stessa si deve considerare regolare in quando avvenuta nei termini quivi indicati;

inoltre, secondo la C.t.r., dal verbale di accesso e di verifica, redatto dalla Guardia di Finanza di Augusta, si evince che i verificatori, dopo aver effettuato le formalità di rito e reso edotto il contribuente della fonte di innesco della verifica generale, hanno giustificato l’accesso presso la sede della ditta con le esigenze effettive di indagine e di controllo sul luogo, dovendo procedere alla ricerca di documentazione contabile ed extracontabile ed all’effettuazione di rilevamenti materiali che potevano essere eseguiti solo presso la sede;

infine, i giudici di secondo grado hanno sostenuto che il procedimento di accertamento con adesione può intendersi concluso correttamente anche nel caso in cui l’ufficio impositore non faccia seguito all’istanza prodotta dal contribuente, ma si limiti a rimanere in silenzio;

alla luce di quanto esposto, i giudici di secondo grado hanno ritenuto la ricostruzione induttiva dei maggiori ricavi legittima, in quanto supportata da presunzioni semplici, fornite dei necessari requisiti di gravità, precisione e concordanza, a fronte delle quali il ricorrente non è stato in grado di fornire prova contraria;

a seguito del ricorso l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso;

il ricorso è stato fissato per la Camera di Consiglio del 25 febbraio 2020, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

con il primo motivo di ricorso, il contribuente denunzia la violazione e la falsa applicazione del combinato disposto del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57 e della L. 27 dicembre 2002 n. 289, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

secondo il contribuente, la C.T.R. ha erroneamente interpretato la disposizione di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 10, in quanto appare evidente che la stessa faccia riferimento, ai fini della concessione della proroga, ai soli contribuenti che non si siano avvalsi, o meglio, che abbiano scelto di non avvalersi degli istituti premiali;

oltre al dato letterale, poi, sarebbe la ratio dell’art. 10 cit., ad indurre a ritenere che la proroga riguardi esclusivamete coloro che hanno la concreta possibilità giuridica di ricorrere alla definizione dei termini agevolati, poichè chi non ha titolo per condonare non potrebbe subire la proroga, in quanto non rientrerebbe nel novero dei soggetti cui è diretta la norma in esame;

il contribuente, poi, afferma che da un punto di vista procedurale l’Amministrazione Finanziaria avrebbe dovuto agire secondo le regole generali ed ordinariamente applicabili, le quali, per quanto specificatamente attiene ai termini di accertamento, prevedono che la rettifica della dichiarazione Iva debba avvenire entro e non oltre il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, senza possibilità di deroga;

il motivo è infondato e va rigettato;

invero, secondo l’ormai costante indirizzo di questa Corte, “in tema di condono fiscale, la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata agli uffici finanziari dalla L. n. 289 del 2002, art. 10, opera, in assenza di deroghe contenute nella legge, sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi delle disposizioni di favore di cui alla suddetta legge, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, perchè raggiunto da un avviso di accertamento notificatogli prima dell’entrata in vigore della legge” (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 33775 del 19/12/2019; conf. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 16964 del 11/08/2016, secondo cui “in tema di condono fiscale, la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata dalla L. n. 289 del 2002, art. 10, opera “in assenza di deroghe contenute nella legge” sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi di tali disposizioni, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, atteso che il meccanismo di proroga è finalizzato a tutelare il preminente interesse dell’Amministrazione finanziaria all’accertamento e alla riscossione delle imposte”; vedi anche Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 3816 del 16/02/2018 e Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 14630 del 29/05/2019);

ancora, con l’Ordinanza n. 3782 del 2016, questa Corte ha chiarito che non possono desumersi argomenti in contrario, rispetto alla soluzione sopra prospettata, “dalla generica locuzione normativa “i contribuenti che non si avvalgono”, venendo in ogni caso ad essere circoscritta l’iniziativa volontaria del contribuente di avvalersi della dichiarazione integrativa nell’ambito dei limiti legali previsti per il suo esercizio, dovendo quindi ricomprendersi nella indicata espressione anche la ipotesi in cui la legge non consenta di avvalersi di detta integrazione ai fini del condono (cfr. Corte Cass. 5 sez. 23.7.2010 n. 17395)”;

inoltre, nel citato provvedimento si legge apparirebbe ” incompatibile con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) la diversa interpretazione secondo cui la norma riserverebbe – illogicamente – un trattamento differenziato ai contribuenti che non hanno inteso avvalersi del condono rispetto a quelli (che risulterebbero così avvantaggiati dal più breve termine di decadenza per l’accertamento) nei cui confronti difettano gli stessi presupposti di legge per esercitare la facoltà di integrazione della dichiarazione e fruire del condono (cfr Cass. n. 14018/2012; n. 22921 del 2014)” (Conformi, Cass. Sez. 5. n. 16964 dell’11/08/2016, Rv. 649764-01; Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 3816 del 16/02/2018, Rv. 64941 -02);

con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 2, nonchè il difetto di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5);

secondo il ricorrente il giudice d’appello ha erroneamente ritenuto infondata la doglianza relativa all’omissione da parte dei verificatori di adempiere all’obbligo di informare il contribuente della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria;

la fondatezza del denunciato vizio di motivazione risulterebbe dallo stesso tenore dell’impugnata sentenza, dalla quale si evincerebbe che i verificatori, dopo aver effettuato le formalità di rito e reso edotto il contribuente della fonte di innesco della verifica generale, hanno giustificato l’accesso presso la sede della ditta con le esigenze effettive di indagine e di controllo sul luogo;

secondo il ricorrente, proprio il richiamo del p.v.c. redatto dalla Guardia di Finanza di Augusta in data 7 novembre 2000 da parte del giudice d’appello farebbe emergere la dedotta omissione;

il motivo è infondato;

invero, in tema di accertamento tributario, a norma della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, commi 2 e 3, quando viene iniziata una verifica fiscale, il contribuente ha diritto di essere informato “della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria” e può chiedere che l’esame dei documenti amministrativi e contabili sia effettuato “presso il professionista che lo assiste o rappresenta”;

il giudice di merito ha ritenuto che dal p.v.c., riportato testualmente nel controricorso dell’Agenzia delle entrate, emergesse il compimento delle formalità propedeutiche alla verifica;

pertanto la doglianza del ricorrente appare destituita di fondamento;

con il terzo motivo, il ricorrente censura la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, art. 6, comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

secondo il contribuente la C.t.r. ha erroneamente affermato la legittimità del procedimento di accertamento con adesione, in relazione all’art. 6 menzionato, anche nel caso in cui l’Ufficio impositore, come nel caso di specie, non abbia dato seguito all’istanza presentata dal contribuente ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. cit., ma sia rimasto in silenzio;

una tale interpretazione, infatti, priverebbe di effettiva portata deflattiva il predetto istituto, così contravvenendo allo scopo perseguito dal legislatore con l’introdotto procedimento per la definizione degli accertamenti nelle imposte sui redditi e nell’imposta sul valore aggiunto;

il motivo è infondato;

come questa Corte ha chiarito, ” In tema di accertamento con adesione, l’istanza di definizione prevista dal D.Lgs. n. 218 del 1997, artt. 6 e 12, ed i tempi della relativa procedura, non comportano l’inefficacia dell’avviso di accertamento, sospendendone solo il termine per l’impugnazione per novanta giorni, decorsi i quali, senza che sia stata perfezionata la definizione consensuale, l’accertamento, in assenza di tempestiva impugnazione, diviene definitivo, secondo un meccanismo non dissimile dal silenzio-rifiuto, cui va ricondotto l’inutile spirare del termine dalla presentazione dell’istanza, senza che l’Ufficio abbia risposto” (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 15401 del 21/06/2017, che richiama Cass. sez. V, sent. 7208/15; ord. 3368/10);

la citata ordinanza, in motivazione, precisa che “l’art. 6 cit., consente sì al contribuente di chiedere all’Ufficio la formulazione della proposta di accertamento ai fini dell’eventuale definizione, ma la scelta di invitarlo ad aderire alla definizione transattiva e di fissarne il contenuto è riservata all’Amministrazione finanziaria (Cass. sez. V, nn. 1839/10, 28051/09)”, poichè “il Fisco può valutare autonomamente l’opportunità o meno della definizione consensuale, e dunque l’istanza dell’interessato non toglie efficacia all’accertamento, ma sterilizza per novanta giorni il termine d’impugnazione, sicchè, spirato tale spatium deliberandi senza che sia stata definita la composizione bonaria, esso diviene definitivo se non è impugnato nel residuo termine, secondo un meccanismo non dissimile da quello per il normale consolidamento del silenzio-rifiuto (L. n. 241 del 1990, art. 2; art. 21 proc. trib.), il che rende coerente con l’ordinamento generale considerare tacitamente rigettata l’istanza di accertamento con adesione, una volta che sia spirato quel termine dalla presentazione della istanza senta che l’Ufficio abbia riposto” (Cass. Sez. V, n. 993/15);

con il quarto motivo di ricorso la ricorrente censura l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5);

secondo il contribuente i giudici di secondo grado hanno elaborato una motivazione assolutamenta carente nel ritenere legittima la ricostruzione induttiva dei maggiori ricavi operata dalla Guardia di Finanza, poichè si sarebbero limitati apoditticamente ad affermare che le argomentazioni del contribuente non erano convincenti;

il motivo è infondato e va rigettato;

invero, la sentenza dà atto della legittimità del metodo induttivo adottato per la determinazione dei maggiori ricavi non dichiarati, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, in quanto l’Agenzia delle entrate, premesso che la ditta aveva superato la soglia prevista per la tenuta della contabilità semplificata, aveva accertato che il contribuente, per l’anno 1999, non aveva tenuto i libri ed i registri obbligatori ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 14, per i soggetti in contabilità ordinaria;

nel merito il giudice di appello rilevava la correttezza del metodo di ricostruzione induttiva dei ricavi, fondato sulla quantità di farina consumata, pari al 90% di quella disponibile, ai fini della determinazione del numero delle pizze effettivamente vendute, alle quali applicare il prezzo medio di vendita;

la C.t.r. precisava, inoltre, che l’Ufficio aveva analiticamente ricostruito i singoli componenti di reddito, distinguendo la vendita delle pizze dalla vendita di altre pietanze (primi piatti, contorni ed antipasti, con relativo “coperto”), nonchè dalla vendita di bibite e gelati, come risultanti da misuratori fiscali e ricevute fiscali, accertando presuntivamente i ricavi complessivi, l’Iva dovuta al 10% e i costi non deducibili;

dunque, secondo il giudice di appello, l’accertamento dell’Ufficio era supportato da “presunzioni semplici, fornite dei requisiti di gravità, precisione e concordanza”, mentre il ricorrente, sia nel primo, sia nel secondo grado, non aveva fornito “argomentazioni convincenti, atte a dimostrare che i maggiori ricavi, come K accertati dall’Ufficio con metodo induttivo, sono destituiti di fondamento”;

pertanto, il motivo di ricorso risulta essere infondato, perchè la C.t.r. ha giustificato la propria decisione, ritenendo legittimo il procedimento di accertamento induttivo sulla base degli indizi richiamati dettagliatamente in sentenza, incompatibili con la diversa ricostruzione offerta da parte appellante;

non sussiste, quindi, la lamentata carenza di motivazione, atteso che il vizio di omessa od insufficiente motivazione (denunciabile con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) sussiste soltanto quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia riscontrabile un’obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, e cioè l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione adottata;

questi vizi motivazionali non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perchè spetta solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui è assegnato alla prova un valore legale;

per i motivi fin qui esposti il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5600,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 25 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2020

 

 

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA