Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17351 del 27/06/2019

Cassazione civile sez. lav., 27/06/2019, (ud. 20/03/2019, dep. 27/06/2019), n.17351

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. FERNANDES Giulio – rel. Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4627/2014 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO

presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI

PORTOGHESI, 12;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dall’Avvocato MARIA

MORRONE, che lo rappresenta e difende;

– resistente con. mandato –

e contro

C.C., + ALTRI OMESSI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 272/2013 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO,

depositata il 19/12/2013 R.G.N. 1582/2013.

Fatto

RILEVATO

che:

1. il Tribunale di Campobasso, in funzione di giudice del lavoro, accoglieva i vari ricorsi, poi riuniti, con i quali gli epigrafati intimati premesso di avere beneficiato, a seguito del sisma che aveva colpito il Molise nel 2002, della sospensione dei versamenti contributivi di previdenza e assistenza sociale di cui all’OPCM 3253 del 29.11.2002 avevano lamentato che a decorrere dal novembre 2011, e contrariamente a quanto stabilito nella succitata ordinanza PCM a proposito della restituzione rateizzata dei suddetti contributi, del tutto arbitrariamente il Ministero dell’Economia e delle Finanze convenuto aveva operato in busta paga, a titolo di recupero della contribuzione sospesa, trattenute sensibilmente maggiori di quelle inizialmente disposte ed avevano chiesto che venisse ordinato al predetto Ministero di ripristinare le modalità di recupero come già attuate fino all’ottobre 2011;

2. la predetta decisione, con sentenza del 19 dicembre 2013, veniva confermata dalla Corte d’appello di Campobasso ad avviso della quale: sussisteva la legittimazione passiva del MEF in quanto rappresentante di parte datoriale che aveva proceduto alla rideterminazione delle modalità di restituzione oggetto di controversia; la norma di interpretazione autentica di cui al D.L. n. 263 del 1996, art. 6, comma 1 bis, convertito in L. 16 dicembre 2006, n. 290, concerneva esclusivamente l’individuazione dei soggetti ritenuti dalla normativa emergenziale adottabile in materia di protezione civile ai fini del temporaneo esonero dal versamento dei contributi previdenziali ed assicurativi (tra cui era dunque pacifico non rientrassero mai i lavoratori dipendenti e neppure i datori di lavoro pubblici) e non aveva, invece, riguardato le modalità di restituzione dei contributi comunque non versati; in siffatta situazione non poteva trovare applicazione la normativa richiamata dall’appellante Ministero a giustificazione dei nuovi criteri unilateralmente imposti quanto a modalità di restituzione dei contributi (divenuti) indebitamente sospesi (criteri dedotti dal D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 3 bis, conv. in L. 8 agosto 2002, n. 178 e la L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 116, comma 17) perchè non era ad essa pertinente essendo destinata a regolare il solo, distinto, nonchè esclusivo, rapporto tra ente previdenziale e datore di lavoro; pertanto, in mancanza di specifiche norme regolatrici del caso concreto, e, comunque, anche a non volere, in ipotesi, ritenere più operativa l’O.P.C.M. 3253/02. quanto dell’art. 7, comma 2 (non interessato dalla norma di interpretazione autentica di cui alla L. n. 290 del 2006, art. 6, comma 1 bis), la questione in disamina doveva essere riguardata e decisa alla luce del principio del legittimo affidamento del soggetto obbligato, da un lato, e della insuperabilità di limiti quantitativi valevoli ad assicurare il rispetto delle esigenze di vita del lavoratore dall’altro lato; essendo, quindi, incontestato che gli appellati avevano goduto del beneficio della sospensione in perfetta buona fede, e stante il sensibile il divario che si sarebbe determinato dalla riduzione fino ad un massimo di 60 rate rispetto alla originaria previsione di restituzione “con un numero di rate pari a otto volte il numero delle mensilità sospese”, (circa trenta mensilità nelle fattispecie dedotte in causa), ovvero in una misura per il recupero chè lo stesso Governo aveva giudicato compatibile con il regime medio di vita dei lavoratori dipendenti, l’operato del MEF era stato lesivo anche sotto quest’ultimo profilo testè rappresentato; ad ogni buon conto, il MEF aveva ingenerato l’affidamento dei dipendenti operando per circa un anno trattenute in misura ridotta dopo essersi determinato al recupero dei contributi a distanza di oltre tre anni dalla sentenza della Corte Costituzionale del 2008 in merito alla giustificata esclusione dal beneficio per i soggetti pubblici; infine, la stessa determina del 2013 con la quale il Ministero appellante, in autotutela, aveva ripristinato l’originaria rateizzazione, senza perciò ritenere cessata la materia del contendere, era la ulteriore dimostrazione, alla luce della motivazione in essa contenuta, del fatto che l’amministrazione aveva sostanzialmente accettato i vari pronunciamenti dei giudici di merito di condanna al ripristino della precedente rateizzazione;

3. per la cassazione di tale decisione propone ricorso il Ministero affidato a cinque motivi; i dipendenti ed il MIUR non hanno svolto alcuna attività difensiva mentre l’INPS ha depositato procura e memoria ex art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

4. con il primo motivo di ricorso si deduce falsa applicazione della L. 4 aprile 1952, n. 218, art. 19 (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in quanto la Corte territoriale erroneamente aveva affermato la sussistenza della legittimazione passiva del Ministero ricorrente sul rilievo che esso fosse il rappresentante del datore di lavoro (il MIUR, peraltro estromesso dal giudizio), laddove nessuna norma poteva fondare siffatta affermazione nè esisteva alcun atto negoziale tra amministrazioni e non potendo in alcun modo esso MEF essere ritenuto direttamente responsabile della modifica delle modalità di rateizzazione. Con il secondo ed il terzo motivo viene dedotta violazione l’O.P.C.M. n. 3253/2002, art. 7,D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 3, comma 3 bis, conv. con modificazioni in L. n. 178 del 2002, art. 116, comma 17 (secondo mezzo) nonchè degli artt. 1183 e 2033 c.c. – terzo motivo (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per avere ritenuto applicabile anche ai pubblici dipendenti (quindi opponibili all’Amministrazione) le modalità di rateizzazione previste dell’O.P.C.M. 3252/02, art. 7, comma 2, nonostante l’intervento del D.L. 9 ottobre 2006, n. 263, art. 6, comma 1 bis, conv. in L. 6 dicembre 2006, n. 290, il quale, fornendo interpretazione autentica della L. n. 225 del 1992, ovvero affermando che la sospensione del beneficio del versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali prevista nelle ordinanze di protezione civile si applicava esclusivamente ai datori di lavoro privati aventi sede nei comuni individuati dalle medesime ordinanze con efficacia retroattiva, aveva definitivamente escluso i dipendenti pubblici dal beneficio della sospensione contributiva, e dunque anche da quello, automaticamente conseguente, della rateizzazione più lunga di cui del citato art. 7, comma 2; si evidenzia, infatti, come la circostanza che l’Amministrazione avesse errato nella fase iniziale di recupero dei contributi applicando la più favorevole rateizzazione prevista dal citato art. 7, comma 2, dell’O.P.C.M. 3252/02, non poteva valere a fondare un “legittimo affidamento” come sostenuto nell’impugnata sentenza sicchè il recupero doveva avvenire nel termine massimo di sessanta mesi come previsto dal D.L. n. 138 del 2002, art. 3,comma 3 bis, conv. con modificazioni in L. n. 178 del 2002 e L. n. 388 del 2000, art. 116, comma 17 e non avendo l’Amministrazioni assunto alcun formale impegno ad accedere ad una più favorevole rateizzazione di quella prevista dalle due menzionate disposizioni legislative. Con il quarto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) nell’avere la Corte d’appello ritenuto pacifica perchè non contestata la “buona fede del percipiente” ed il “legittimo affidamento” dello stesso laddove il Ministero aveva sempre contestato specificamente tali allegazioni evidenziando come molti degli attuali ricorrenti avevano visto rigettate, con sentenze passate in giudicato, le loro pretese di pagamento delle differenze retributive asseritamente a loro dovute a seguito della sospensione della contribuzione. Con il quinto motivo viene lamentata (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la omessa dimostrazione di qualsivoglia pregiudizio alle esigenze di vita dei ricorrenti avendo la Corte territoriale apoditticamente affermato la ricorrenza di detto pregiudizio come conseguenza dell’applicazione della più breve rateizzazione omettendo qualsiasi indagine sul punto;

5. il primo motivo è infondato essendo il Ministero dell’Economia e delle Finanze legittimato passivo quale soggetto che ha operato la rateizzazione dell’importo dovuto dai dipendenti del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca a titolo di restituzione dei contributi non versati nel periodo in questione per il tramite delle sue articolazioni costituite dal DAG (Dipartimento dell’Amministrazione Generale, del Personale e dei Servizi del Tesoro), e dalla “Ragioneria Generale” nei suoi uffici territoriali ai quali spettano la gestione degli stipendi dei vari ministeri e delle entrate. Del resto, nella presente fattispecie in cui si discute delle modalità di restituzione delle somme che i dipendenti del MIUR non hanno versato a titolo di contributi non viene in rilievo il disposto della L. n. 218 del 1952, art. 19 (secondo cui “Il datore di lavoro è responsabile del pagamento dei contributi anche per la parte a carico del lavoratore; qualunque patto in contrario è nullo. Il contributo a carico del lavoratore è trattenuto dal datore di lavoro sulla retribuzione corrisposta al lavoratore stesso alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce.”) che, invece ha inteso individuare il soggetto responsabile per il versamento dei contributi da parte del lavoratore operando le relative trattenute sulla retribuzione corrisposta. Peraltro, non può non rilevarsi, come la legittimazione passiva del Ministero ricorrente risulti essere confermata dalla nota del marzo 2013 della Ragioneria Territoriale dello Stato di Campobasso relativa alla comunicazione della Determina Direttoriale n. 5654 del 27 marzo 2013 con la quale, in regime di autotutela, aveva ripristinato la più favorevole rateizzazione prevista dall’art. 7, comma 2, dell’O.P.C.M. n. 3253/2002. Infine è da sottolineare come il Ministero dell’Economia e delle Finanze non aveva ritenuto di impugnare il capo della decisione del primo giudice che aveva escluso la legittimazione passiva del MIUR;

6. infondati sono anche il secondo ed il terzo, da trattare congiuntamente in quanto connessi. Vale ricordare come questa Corte ha affermato che L’O.P.C.M. n. 3253 del 2002, art. 7, comma 1, – che prevede la sospensione dei versamenti dei contributi previdenziali per i soggetti residenti nelle zone colpite dagli eventi sismici iniziati il 31 ottobre 2002 – va interpretato alla stregua del disposto del D.L. n. 263 del 2006, art. 6, comma 1-bis, citato e, pertanto, è riferibile soltanto ai datori di lavoro privati, essendo il beneficio in esso contemplato finalizzato alla liberazione di risorse economiche da destinare al sostegno delle attività imprenditoriali (finanziando l’impresa con operazione rispetto alla quale il lavoratore resta neutro) e non anche all’incremento delle retribuzioni dei lavoratori. E’ stato altresì chiarito che il predetto D.L. n. 263 del 2006, art. 6, comma 1-bis, essendo norma propriamente di interpretazione autentica (ritenuta costituzionalmente legittima da Corte Cost. n. 325 del 2008) secondo quanto esplicitato anche dal dato testuale oltre che dalla sua ratio, come tale, ha efficacia retroattiva e si applica anche alle ordinanze ex D.L. 4 novembre 2002, n. 245, conv. con modif. in L. 27 dicembre 2002, n. 286, riguardando in generale il potere di emanazione di provvedimenti contingibili ed urgenti. Ne deriva che il datore di lavoro pubblico ha legittimamente operato le trattenute dovendo corrispondere da subito i contributi previdenziali ed i premi, ed anche per la quota a carico del lavoratore, non operando la sospensione dell’obbligo nei confronti dei datori pubblici secondo quanto fin qui detto (Cass. n. 2277 del 06/02/2015; Cass. n. 8442 dell’8 aprile 2014; Cass. n. 8646 del 30 maggio 2012; Cass. n. 4963 del 28 marzo 2012, n. 4963 nonchè nn. 4669, 4673, 10243,13159, 28500 del 2011).

Orbene, l’applicabilità del comma 1 dell’art. 7 della OPCM 3253/2002 solo ai datori di privati non comporta che il comma 2 di detto articolo (secondo cui “La riscossione dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei premi dovuti per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali non corrisposti per effetto della sospensione di cui al comma 1 avverrà mediante rate mensili pari a otto volte i mesi interi di durata della sospensione. Gli adempimenti non eseguiti per effetto della sospensione di cui al comma 1 sono effettuati entro il secondo mese successivo al termine della sospensione, mentre le rate di contributi sono versate a partire dal terzo mese successivo alla sospensione stessa.”) non possa trovare applicazione anche nelle ipotesi – quale quella all’esame – in cui l’indebita sospensione dei contributi sia avvenuta per una erronea scelta dell’Amministrazione favorita dalla equivocità del testo normativo che ha reso necessario l’adozione di una disposizione interpretativa. Del resto è circostanza pacifica tra le parti che il Ministero ricorrente aveva inizialmente applicato le modalità di rateizzazione previste dal menzionato comma 2 dell’art. 7 dell’O.P.C.M. 3253/2002. Peraltro, è opportuno qui ricordare che la giurisprudenza amministrativa, formatasi sui rapporti di lavoro di impiego pubblico non contrattualizzato, ha avuto modo di affermare che il recupero ha carattere di doverosità e costituisce esercizio, ai sensi dell’art. 2033 c.c., di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, non rinunziabile, in quanto correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse, cui sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate, mentre le situazioni di affidamento e di buona fede dei percipienti rileverebbero ai soli fini delle modalità con cui il recupero deve essere effettuato, in modo cioè da non incidere in maniera eccessivamente onerosa sulle esigenze di vita del dipendente (v., ex plurimis, Cons. St., Sez. 3, 9 giugno 2014, n. 2903). Anche la giurisprudenza di diverso orientamento (Consiglio di Stato, 6 sezione, sentenza n. 5315 del 2014, Cons. St., 5 sezione, 13 aprile 2012, n. 2118) ha rilevato che i suddetti principi giurisprudenziali, pur apparendo condivisibili in linea astratta, non possono essere applicati in via automatica, generalizzata e indifferenziata a qualsiasi caso concreto di indebita erogazione, da parte della pubblica amministrazione, di somme ai propri dipendenti, dovendosi aver riguardo alle connotazioni, giuridiche e fattuali, delle singole fattispecie dedotte in giudizio, tenendo conto della natura degli importi di volta in volta richiesti in restituzione, delle cause dell’errore che aveva portato alla corresponsione delle somme in contestazione, del lasso di tempo trascorso tra la data di corresponsione e quella di emanazione del provvedimento di recupero, dell’entità delle somme corrisposte in riferimento alle correlative finalità;

7. dal rigetto del secondo e del terzo motivo discende l’inammissibilità del quarto e del quinto motivo alla luce del principio più volte affermato da questa Corte per il quale nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano sicchè è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perchè il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (Cass. Sez. U, n. 16602 del 08/08/2005; successive conformi, ex multis: Cass. n. 21431 del 12/10/2007; Cass. Sez. U, n. 10374 del 08/05/2007); ed infatti, entrambi i motivi censurano la seconda ratio decidendi posta a fondamento della sentenza impugnata;

8. pertanto, il ricorso va rigettato;

9. le spese del presente giudizio, seguono la soccombenza, e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo in favore dell’INPS avuto riguardo alla limitata attività difensiva svolta; non si provvede in ordine alle spese nei riguardi degli intimati che non hanno svolto alcuna attività difensiva;

10. non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13,comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, atteso che le stesse, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Cass. 1778/2016).

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio in favore dell’INPS liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 1.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese forfetario nella misura del 15%; nulla per le spese nei confronti degli intimati che non hanno svolto alcuna attività difensiva.

Così deciso in Roma, il 20 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019

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