Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17310 del 19/08/2020

Cassazione civile sez. II, 19/08/2020, (ud. 18/12/2019, dep. 19/08/2020), n.17310

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18164-2036 proposto da:

COMUNE DI ROCCA DI BOTTE, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA V.RENATO FUCINI 288, presso lo

studio dell’avvocato ROBERTO RENZI, rappresentato e difeso dagli

avvocati FABIO PASQUALI, SANDRO PASQUALI;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CAPPADOCIA, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA SANTA MAURA 49, presso lo

studio dell’avvocato GIOVANNI MANCINI, rappresentato e difeso

dall’avvocato DOMENICO CASCIERE;

– controricorrente –

contro

B.L., elettivamente domiciliato in ROMA V.RENATO FUCINI 288,

presso lo studio dell’avvocato ROBERTO RENZI, rappresentato e difeso

dagli avvocati FABIO PASQUALI, SANDRO PASQUALI;

– ricorrente incidentale –

e contro

B.S., D.C.P., M.M., M.E.,

T.A., COMUNE DI PERETO, C.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 28/01/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/12/2019 dal Consigliere Dr. GIUSEPPE GRASSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI CARMELO, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;

udito l’Avvocato Sandro Pasquali, difensore dei ricorrenti, che ha

chiesto l’accoglimento degli scritti depositati in subordine la

decisione sulle spese;

udito l’Avvocato Domenico Casciere, difensore del resistente, che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Alcuni abitanti del Comune di Rocca di Botte rivoltisi al Commissario per la liquidazione degli usi civici della Regione Abruzzo, asserendo che a causa di errori ricostruttivi si erano ingenerate erronee statuizioni commissariali, chiesero disporsi CTU, auspicando che nel contraddittorio dei Comuni di Rocca di Botte, Pereto e Cappadocia, si determinasse, anche in sede conciliativa, l’esatta “confinazione dell’unico caposaldo triconfinario interdemaniale”, con restituzione dei terreni che, via via nel tempo, il Comune di Cappadocia aveva usurpato in danno degli abitanti di Rocca Di Botte.

Il Commissario, instaurato il contraddittorio, sul presupposto che la materia risultava oramai regolata dai giudicati che si erano succeduti nel tempo, spettando alla Regione Abbruzzo provvedere alla riconfinazione, rigettò i ricorsi dei privati e quello del Comune di Rocca di Botte, il quale si era costituito ad adiuvandum e in proprio, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese legali in favore del Comune di Cappadocia, che liquidava in complessive Euro 13.019,00.

La Corte d’appello di Roma, investita dall’impugnazione del Comune Di Rocca di Botte, nonchè da quella di B.L., Ba.Si., D.C.P., M.M. ed M.E., in parziale riforma della decisione del Commissario, che nel resto confermava, compensò per la metà le spese di lite.

Il Comune di Rocca Di Botte ricorre avverso la sentenza della Corte romana sulla base di cinque motivi

Ricorre del pari B.L., spendendo la qualità di naturale utente di uso civico del Comune di Rocca di Botta, sulla base di quattro motivi.

Resiste con controricorso il Comune di Cappadocia.

Entrambi i ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo e il secondo motivo del ricorso del Comune di Rocca Di Botte, con i quali si denunzia l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, sotto il profilo del difetto assoluto di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, il ricorrente lamenta che la Corte di Roma aveva eluso la censura d’appello, con la quale si era evidenziato che il Commissario non aveva esaminato la domanda, diretta a “far cessare la promiscuità determinata dall’apprensione a sè medesimo, da parte del Comune di Cappadocia di suoli del Comune di Rocca di Botte”, disattendendo la doglianza con un acritico asserto, che non poteva considerarsi motivazione, stante che la Corte locale si era limitata ad affermare “deve rilevarsi che (…) non appare superabile l’assunto del Commissario della giurisdizione della Regione a provvedere alla rideterminazione dei confini tra i comuni secondo le decisioni già adottate e non ancora portate ad esecuzione”.

1.1. L’insieme censuratorio non supera lo scrutino d’ammissibilità.

Seppure con motivazione sommaria la Corte locale ha mostrato di condividere gli argomenti della decisione di primo grado, ai quali ha inteso aderire.

La sentenza di appello, motivata per relationem alla sentenza di primo grado, deve considerarsi nulla solo qualora la laconicità della motivazione non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice d’appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello (Sez. 6, n. 22022, 21/9/2017, Rv. 645333).

La Corte di Roma conferma l’infondatezza delle originarie domande, poichè le poste questioni, siccome già affermato dal Commissario, risultavano essere state definite dai giudicati dedotti, non constando che gli appellanti avessero prospettato “nuovi elementi”, che avrebbero potuto imporre nuove valutazioni o richiedere approfondimenti istruttori, c.t.u. inclusa. Ciò premesso, deve escludersi che nel caso di specie la motivazione, ridotta a mero simulacro, priva di specifico e concreto riferimento ai fatti di causa, sia giunta a conclusione attraverso un percorso conoscitivo e decisionale inconoscibile.

Piuttosto deve osservarsi che la doglianza, sotto l’usbergo dell’improprio riferimento all’art. 112 c.p.c. e attraverso l’insussistente denunzia di omessa motivazione, in realtà mira a contestare l’esistenza dei giudicati ostativi.

Questa Corte ha più volte chiarito che nel giudizio di legittimità, il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con l’onere di autosufficienza del ricorso; pertanto, la parte ricorrente che deduca l’esistenza del giudicato deve, a pena d’inammissibilità del ricorso, riprodurre in quest’ultimo il testo integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione (Sez. 2, n. 15737, 23/6/2017, Rv. 644674; conf., ex multis, Cass. n. 13988/2018).

L’esposto principio non può non valere nel caso in cui, inverso, ma corrispondente, il ricorrente assuma l’insussistenza della preclusione da giudicato esterna, invece predicata dalla sentenza d’appello.

Poichè il Collegio non è stato messo in condizione di conoscere il contenuto delle statuizioni irrevocabili intervenute fra le parti, non può vagliare la prospettata insussistenza della preclusione.

In disparte, vai la pena soggiungere che, ove si volesse assegnare automa rilevanza al dedotto vizio di omessa pronunzia (ma, come si è cercato di chiarire, qui non si versa nell’ipotesi omissiva, in quanto la pretesa non è stata ignorata, bensì disattesa, ostandovi precedente giudicato), la lamentela, rivolta com’è alla pronuncia di primo grado, non può essere esaminata in questa sede (cfr. Sez. L. n. 6733, 21/3/2014, conf. Cass. nn. 5637/2006, 15952/2007).

2. Con il terzo motivo del ricorso del Comune e con il primo e il secondo del ricorso del B. viene dedotta violazione degli artt. 82,83,101,112 e 182 c.p.c., nonchè degli artt. 111 e 24 Cost., sulla base di quanto appresso.

– Il Commissario aveva erroneamente instaurato il contraddittorio, poichè aveva ammesso al giudizio i privati, instanti per il bonario componimento, in qualità di naturali, senza assistenza e rappresentanza d’avvocato;

– in ogni caso l’interpretazione della L. n. 1766 del 1927, art. 31 avrebbe dovuto essere orientata al rispetto degli artt. 111 e 24 Cost.;

– pertanto, la Corte d’appello, invece che limitarsi ad affermare la insanabilità della violazione, procedendo, tuttavia, a decidere nel merito, avrebbe dovuto dichiarare la nullità della sentenza di primo grado.

2.2. La critica è, nel suo complesso, in parte inammissibile e in parte infondata.

Deve, in primo luogo, affermarsi l’inammissibilità della denunzia di violazione di norme costituzionali, stante che la violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (di recente, Sez. 5, n. 15879, 15/6/2018, Rv. 649017; conf. n. 3709/2014).

Nel resto, come si è anticipato, i due motivi sono infondati.

Deve condividersi quanto chiarito da una risalente, ma non per questo meno convincente, sentenza di questa Corte, la quale ebbe modo di spiegare che la disposizione della L. 16 giugno 1927, n. 1766, art. 31, comma 3, secondo la quale i commissari per la liquidazione degli usi civici debbono attenersi alle norme dei procedimenti dinanzi al pretore, e di carattere indicativo e programmatico e faculta i commissari a seguire tali norme, meno rigide di quelle del procedimento ordinario, sempre che ciò sia compatibile con il carattere inquisitorio e l’impulso di ufficio del procedimento dinanzi ad essi e con i principi posti dai commi 1 e 4 dello stesso articolo, i quali dispensano dalla osservanza delle forme della procedura ordinaria, purchè prima di provvedere siano sentiti gli interessati e ne siano raccolte sommariamente le osservazioni e le istanze, e non ammettono altre eccezioni di nullità degli atti processuali oltre quelle relative all’assoluta incertezza delle persone e dell’oggetto dell’atto, del luogo di comparizione o che concernono l’essenza dell’atto. Ne consegue che le parti possono stare dinanzi al Commissario per la liquidazione degli Usi civici senza il ministero di difensore e che, qualora conferiscano la procura alle liti, non sono strettamente vincolati all’osservanza delle forme prescritte dall’art. 83 c.p.c. (Sez. 2, n. 470, 2/3/1967, Rv. 326417).

L’informalità e atipicità del procedimento di cui si discute trova conferma nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Questa, con la sentenza n. 46/1995 dichiarò incostituzionale l’art. 29, comma 2 (siccome interpretato dalle S.U.), della L. 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R.D. 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R.D. 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica il R.D. 22 maggio 1924, n. 751, art. 26 e del R.D. 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dal R.D. L. 22 maggio 1924, n. 751, art. 2), nella parte in cui non consente la permanenza del potere del commissario agli usi civici di esercitare d’ufficio la propria giurisdizione pur dopo il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative previste dal comma 1 dell’articolo medesimo.

Peraltro, non essendo stato fatto ostacolo alle parti di ricorrere all’assistenza e alla rappresentanza d’un avvocato, non è dato cogliere in cosa sarebbe consistito il lamentato vulnus.

Per contro, la natura del contenzioso che si svolge davanti al commissario appare tale da giustificare la deroga (peraltro praticata in tanti altri settori – materia tributaria, di opposizione a sanzioni amministrative, davanti al giudice di pace -), specie ove si consideri che qui si verte, in prevalenza, in materia d’interessi diffusi.

Parimenti aspecifica deve reputarsi la denunzia di violazione del contraddittorio.

La non conformità a diritto della sentenza d’appello a riguardo dell’esaminata questione, priva di pratiche conseguenze, deve, pertanto, correggersi nel senso sopra enunciato.

Per le esposte ragioni non appare dirimente affrontare la questione attinente alla portata della sanatoria di cui all’art. 182, su impulso, oramai doveroso (con la riforma operata dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 2), del giudice. Nè, spender parola in merito alla tassatività delle ipotesi restitutorie del processo al giudice di primo grado (artt. 353 e 354 c.p.c.).

3. Con il terzo motivo del ricorso del B. e il quarto di quello del Comune si ipotizza violazione e/o falsa applicazione della L. n. 1766 del 1927, art. 29, del R.D. n. 332 del 1928, art. 76, della L.R. Abruzzo n. 25 del 1988, art. 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, assumendo che la sentenza impugnata era incorsa in un duplice errore: a) avrebbe dovuto prioritariamente essere esperito il tentativo di conciliazione, anche sospendendo il procedimento; b) v’era carenza di “competenza”, poichè ai sensi del D.P.R. n. 616 del 1977 e della L.R. Abruzzo n. 25 del 1988, poichè l’art. 1, comma 2 di quest’ultima legge dispone che “Le funzioni amministrative di cui al precedente comma sono esercitate dalla Giunta regionale, ad eccezione delle seguenti che sono riservate al Consiglio regionale:… la omologazione delle conciliazioni di cui alla L. n. 1766 del 1927, art. 29”.

3.1. La doglianza è infondata.

3.1.1. Occorre, sia pure assai brevemente, prendere le mosse dalla natura dei compiti assegnati dalla legge al commissario per la liquidazione degli usi civici e dalla sua collocazione nel sistema.

Sin dal suo primo funzionamento, la Corte costituzionale non dubitò dello svolgimento di attribuzioni giurisdizionali da parte del predetto organo, perciò legittimato a sollevare una questione di legittimità costituzionale a norma della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, art. 1, e alla L. n. 87 del 1953, art. 23 (sentenza n. 78/1961). Successivamente, escluse che la giurisdizione in parola si ponesse in contrasto con gli artt. 25 e 108 Cost., in quanto (come si coglie dall’estratta massima) l’appartenenza all’ordine giudiziario costituisce garanzia sufficiente perchè restino obbiettivamente distinte le funzioni amministrativa e giurisdizionale e quest’ultima sia esercitata con assoluta obiettività; per altro verso le garanzie costituzionali che assistono lo stato giuridico del magistrato preposto alla funzione commissariale sono tali da renderlo distaccato non soltanto dall’organo che ne ha proposto la nomina, ma anche dall’interesse amministrativo che lo stesso organo proponente è chiamato a curare (sentenza n. 73/1970).

La L. n. 1766 del 1927, art. 29 reiteratamente passato indenne da allora al vaglio di costituzionalità, assegna al commissario, a fianco di compiti amministrativi (sia pure non assimilabili al tipico agire della p.a. e prossimi all’esercizio di attività giustiziale), piena giurisdizione in materia di “controversie circa la esistenza, la natura e la estensione” dei diritti di cui all’art. 1 della medesima legge “comprese quelle nelle quali sia contestata la qualità demaniale del suolo o l’appartenenza a titolo particolare dei beni delle associazioni, nonchè tutte le questioni a cui dia luogo lo svolgimento delle operazioni loro (ai commissari) affidate”.

L'”esperimento di conciliazione”, previsto dal comma 3 del predetto art. 29, esperibile “in ogni fase del procedimento”, non può che inscriversi nell’alveo del procedimento giurisdizionale, regolato dal comma 2, costituendo un’evenienza, di certo auspicabile, ma non obbligatoria, come risulta palese dall’uso del verbo potere.

Consta dalla sentenza d’appello che alcuni naturali del Comune di Rocca di Botte si rivolsero al competente Commissario perchè si dirimesse “l’annosa controversia esistente tra i comuni di Rocca di Botte, Pereto e Cappadocia sull’esatta confinazione dell’unico caposaldo triconfinario interdemaniale e restituzione dei terreni che nel tempo erano stati usurpati dal Comune di Cappadocia in danno dei naturali di Rocca di Botte oltre che dei frutti maturati”. La circostanza che i richiedenti avessero precisato che la vertenza avrebbe potuto essere composta “anche in sede di conciliazione”, perciò solo, non trasformava l’azione intrapresa in una mera sollecitazione di attività amministrativa, trattandosi di un rinvio ultroneo, alla previsione del tentativo non obbligatorio di conciliazione.

3.1.2. All’evidenza il denunziato difetto assoluto di giurisdizione, impropriamente assimilato a questione di competenza, è destituito di giuridico fondamento. La norma regionale, emanata in relazione alle funzioni amministrative trasferite dallo Stato in materia di usi civici, infatti, che, è appena il caso di sottolineare, non avrebbe potuto incidere sulle funzioni del Commissario (cfr. la già citata sent. n. 46/1995 della Corte Cost.) si limita a individuare l’organo regionale competente per l’omologazione, invece dell’approvazione ministeriale di cui all’art. 29, u.c.. Qui, tuttavia, non essendosi avuta conciliazione, non poteva esservi luogo a omologazione di sorta da parte dell’Amministrazione regionale.

4. Con il quarto motivo del ricorso del B. e il quinto di quello del Comune si deduce violazione e/o falsa applicazione del D.M. n. 140 del 2012, artt. 2 e 4, nonchè del D.M. n. 55 del 2014, stigmatizzandosi l’eccessiva quantificazione delle spese, la mancata differenziazione dei decreti ministeriali applicabili (il D.M. del 2012 per il primo grado e il D.M. del 2014 per il secondo), la non corrispondenza alle attività effettivamente svolte, la parzialità della compensazione.

4.1. La censura è infondata.

Non è consentito sindacare in questa sede l’entità della liquidazione per le spese di causa, salvo a denunziare con specificità la violazione dei massimi tabellari, specificità di cui i ricorsi sono privi.

Quanto al D.M. cui far riferimento, deve osservarsi che i parametri introdotti dal D.M. n. 55 del 2014, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti, trovano applicazione ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto, ancorchè la prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta nella vigenza della pregressa regolamentazione, purchè a tale data la prestazione professionale non sia stata ancora completata (Sez. 6, n. 31884, 10/12/2018, Rv. 651920); evenienza che nel caso ricorre, poichè la sentenza di primo grado risulta pubblicata successivamente all’entrata in vigore del D.M. n. 55.

5. La particolare complessità della materia, resa di difficile dipanamento dalla natura stessa della vicenda fattuale e dalla peculiarità delle posizioni soggettive, in un contesto storico radicalmente mutato, costituisce grave ed eccezionale ragione per disporre l’integrale compensazione delle spese legali del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2020

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