Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17297 del 17/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 17/06/2021, (ud. 17/03/2021, dep. 17/06/2021), n.17297

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – rel. Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso R.G. 25397/2017 proposto da:

ROMA CAPITALE, in persona della Sindaca pro tempore rappresentata e

difesa dagli avv.ti Domenico Rossi e Antonio Ciavarella ed

elettivamente domiciliata presso gli uffici dell’Avvocatura

Capitolina in Roma via del Tempio di Giove 21;

– ricorrente –

contro

CASA GENERALAZIA DELLE CONGREGAZIONI DELLE SUORE DIVIN SALVATORE con

sede in Roma in persola della legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1517/14/17 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE del LAZIO, depositata in data 23/3/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 17/13/2021 dal Consigliere Relatore Dott. RITA

RUSSO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

l.- La Congregazione delle Suore del Divin Salvatore ha impugnato l’avviso di accertamento relativo all’ICI per l’anno d’imposta 2009, per la mancata applicazione dell’esenzione di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, lett. i), e l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 14, comma 1, in materia di sanzioni, anzichè il D.lgs. n. 471 del 1997, art. 13. In primo grado il ricorso è stato rigettato. I la proposto appello la contribuente, che la CTR ha parzialmente accolto rilevando che una parte degli immobili (le unità contraddistinte ai numeri progressivi n. 4-11) sono destinati ad abitazione delle suore, fatto non contestato, e pertanto ivi si svolge attività di culto e formazione, integrando così i presupposti per la esenzione dalla imposta. Quanto alle restanti unità (6,7,13) la CTR ha ritenuto che non si applichi alla fattispecie il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 14, comma 1, ma neppure il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, bensì il citato art. 14, comma 2, trattandosi di dichiarazione non corrispondente a quanto dovuto.

2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso nei cassazione Roma Capitale affidandosi a tre motivi. Non ha spiegato difese la Congregazione. La causa è stata trattata alla udienza camerale del 17 marzo 2021.

Diritto

RITENUTO

che:

3. – Con il primo motivo del ricorso, la parte lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione ed erronea applicazione dell’art. 2697 c.c.. Deduce che ha errato la CM nella parte in cui ha statuito che nelle unità 4 – 11 si svolge attività di culto e formazione delle religiose a scopo missionario e di educazione cristiana, atteso che la Congregazione non ha dato alcuna prova della sussistenza dei requisiti per l’esenzione.

Con il secondo motivo del ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. i), in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., Roma Capitale osserva come in primo grado è stato accertato che nell’edificio la Congregazione ha una clinica privata da 84 posti e ha poi stigmatizzato il fatto che a fronte di un mero certificato di residenza delle suore nell’immobile in questione si è ritenuto per ciò stesso che l’immobile fosse luogo di culto. Si tratta invece di una attività commerciale che non consente l’applicazione della invocata esenzione. I motivi, da esaminarsi congiuntamente, sono fondati.

La CTR muove dal dato pacifico che nelle unità immobiliari 4-11 vivono le suore – fatto che Roma Capitale non ha contestato – e da qui perviene alla conclusione che poichè vi abitano le religiose non è in dubbio che in esso si svolga attività di culto; i beni quindi fruiscono della esenzione di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7 comma 1, lett. i). Si tratta di una erronea conclusione, fondata sulla equiparazione, apoditticamente affermata, tra i luoghi ove vivono le religiose ed i luoghi di culto; il giudice di merito è consapevole della eccezione formulata da Roma Capitale, la quale aveva dedotto che il fatto che le suore vivessero in quel luogo non era decisivo ai fini della esenzione, ma non l’ha adeguatamente presa in considerazione.

Ha errato la CTR a valorizzare la non contestazione del fatto in sè della residenza, poichè ciò che qui rileva è la contestazione non della veridicità, ma della pertinenza del fatto dedotto dalle suore ai fini della applicazione della norma agevolativa. Infatti, come riportato nella premessa della sentenza impugnata e come esposto da Roma Capitale in ricorso, il giudice di primo grado ha accertato, ed è un punto non riformato in appello, che nella restante parte degli immobili vi è una clinica privata che opera sia in regime di convenzione che in regime privato. Da ciò la CTR avrebbe dovuto trarre la conclusione che le suore non abitano in un luogo di culto o di formazione religiosa, e strumentalmente a queste esigenze, bensì in un luogo che è destinato ad attività imprenditoriale di tipo sanitario.

Questa Corte ha già affermato che “in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), l’esenzione della stessa prevista dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. i), (nel testo originario vigente “ratione temporis”), con riguardo all’esercizio di attività di religione o di culto, non spetta ove la presenza “in loco” degli alloggi dei religiosi sia strumentale allo svolgimento, in via principale, di un’attività didattica avente natura oggettivamente commerciale” (Cass. n. 10754 del 2017). Lo stesso principio può essere applicato al caso in cui l’attività imprenditoriale si svolga in ambito sanitario, non essendo sufficiente per beneficiare della esenzione di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7 comma 1, lett. i), la natura non commerciale dell’ente se manca il requisito oggettivo di una attività esercitata con modalità non commerciali, ed è irrilevante che – in ipotesi – gli utili siano destinati al perseguimento di fini sociali, che non fa venir meno il carattere commerciale dell’attività (Cass. n. 24500 del 2009). La natura dell’attività che si svolge negli immobili cui accedono gli alloggi delle religiose esclude quindi che si possa fruire della esenzione in parola. Il citato art. 7, come questa Corte ha già avuto modo di precisare, è compatibile con il divieto di aiuti di Stato sancito dalla normativa unionale solo ove abbia ad oggetto immobili destinati allo svolgimento di attività non economica, dovendo intendersi tale, secondo il diritto dell’Unione (decisione 2013/284/UE della Commissione, del 19 dicembre 2012), l’attività svolta a titolo gratuito ovvero dietro il versamento di un corrispettivo simbolico (Cass. n. 4066 del 2019; Cass. n. 6795 del 2020)

4. – Con il terzo motivo del ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 14, commi 1 e 2, e delle norme connesse e correlate. Roma Capitale deduce che ha errato il giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto che la sanzione relativa alla nuova liquidazione dell’imposta non è quella prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13 (chiesta dalla parte) applicabile ai ritardi, nè quella del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 14, comma 1 (omessa dichiarazione) applicata dall’ente, ma quella di cui allo stesso D.Lgs., art. 14, comma 2, e cioè “dichiarazione non corrispondente a quanto dovuto”.

Deduce che come giurisprudenza della Corte di legittimità l’omessa indicazione nella dichiarazione anche di un solo cespite immobiliare costituisce omessa dichiarazione punibile ai sensi dell’art. 14, comma 1; rileva tra l’altro che, come riportato nella parte in fatto della sentenza d’appello, la Congregazione aveva chiesto l’applicazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13.

Il motivo è fondato.

Il Collegio condivide ed intende dare continuità al principio già affermato dalla Corte secondo il quale l’omessa indicazione, nella dichiarazione (come nella denunzia di variazione) di cui al D.lgs. n. 504 del 1992, art. 10, comma 4, anche di un solo cespite immobiliare soggetto ad autonoma imposizione, costituisce omessa dichiarazione (o denunzia) dello stesso cespite, ed è punibile, ai sensi dello stesso D.Lgs., art. 14, comma 1, a titolo di “omessa presentazione della dichiarazione o denuncia”, e non già, ai sensi della stessa norma, comma 2, quale dichiarazione o denuncia infedele (Cass. n. 932 del 2009; v. anche Cass. n. 18503 del 2010; Cass. n. 5927 del 2010; Cass. n. 14399 del 2017).

Ne consegue, in accoglimento del ricorso, la cassazione della sentenza impugnata ei non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto1pub decidersi nel merito, rigettando l’originario ricorso della contribuente. Le spese del doppio grado del giudizio di merito possono essere compensate e le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza della intimata e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta l’originario ricorso della contribuente. Condanna parte intimata alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.300,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi oltre rimborso spese forfetarie ed accessori di legge se dovuti. Compensa le spese del doppio grado di merito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio da remoto, il 17 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2021

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