Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1729 del 23/01/2019

Cassazione civile sez. VI, 23/01/2019, (ud. 07/11/2018, dep. 23/01/2019), n.1729

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9852-2017 proposto da:

R.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA R. ROMEI 19,

presso lo studio dell’avvocato RIITANO ADOLFO, che lo rappresenta e

difende unitamente agli avvocati IUCCI GIUSEPPE, MANFELLOTTO

RAFFAELLO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5965/5/2017 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE della LAZIO, depositata il 12/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 07/11/2018 dal Consigliere Relatore Dott. GORI

PIERPAOLO.

Fatto

RILEVATO

Che:

– Con sentenza in data 13 giugno 2016 la Commissione tributaria regionale del Lazio (in seguito, la CTR) accoglieva parzialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 119/2/12 della Commissione tributaria provinciale di Frosinone (in seguito, la CTP) che aveva accolto il ricorso di R.E. (in seguito, il contribuente) contro l’avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2007;

– La CTR osservava in particolare che la pronuncia gravata, come dedotto nell’appello dell’Agenzia, era erronea sia in ordine all’eccezione di invalidità dell’atto impositivo impugnato per difetto di motivazione sia relativamente al merito delle pretese erariali, basandosi le medesime legittimamente sulla presunzione legale relativa derivante da accertamenti bancari di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, n. 2, dovendosi peraltro limitare la validazione delle pretese medesime ai “versamenti”, escludendone i “prelevamenti” in applicazione della sentenza n. 228/2014 della Corte costituzionale, così come anche ammesso dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale, appellante;

– Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione il contribuente deducendo quattro motivi che illustra con memoria;

– Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

– Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – il ricorrente lamenta vizio motivazionale della sentenza impugnata in relazione ai dedotti profili di invalidità formale dell’avviso di accertamento impugnato, con particolare riguardo alla motivazione dello stesso e specificamente alla mancata allegazione giudiziale del PVC compendiante l’istruttoria amministrativa correlativa;

– La censura è per un verso inammissibile, per un altro infondata. Relativamente alle critiche mosse alle valutazioni del giudice tributario di appello in ordine all’eccezione di difetto motivazionale dell’avviso di accertamento impugnato, va semplicemente ribadito che “La proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4, con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio” (Cass. 7 settembre 2017 n. 20910);

– Lo sviluppo della censura su tale punto collide con il principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale. Il ricorrente infatti, in luogo di censurare la sentenza impugnata specificamente in ordine alla affermazione della contestata adeguatezza della motivazione dell’atto impositivo in oggetto, adduce argomenti del tutto ultronei, in quanto afferenti alla diversa questione della prova delle pretese erariali. Sotto tale profilo la censura è dunque inammissibile;

– Relativamente alla affermata tardività della sub-eccezione di invalidità dell’avviso di accertamento per omessa produzione del PVC inerente lo stesso, va poi ribadito che “Nel processo tributario, caratterizzato dall’introduzione della domanda nella forma dell’impugnazione dell’atto fiscale, l’indagine sul rapporto sostanziale è limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione che il contribuente deve specificamente dedurre nel ricorso introduttivo di primo grado. Ne consegue che il giudice deve attenersi all’esame dei vizi di invalidità dedotti in ricorso, il cui ambito può essere modificato solo con la presentazione di motivi aggiunti, ammissibile, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ex art. 24, esclusivamente in caso di “deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione”” (Cass. 2 luglio 2014 n. 15051);

– Il giudice tributario di appello ha fatto piena e corretta applicazione del principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale, non contenendo peraltro il motivo se non un breve, generico ed inconcludente accenno a tale ratio decidendi. Per tale profilo il motivo è quindi infondato;

– Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – il ricorrente si duole della omessa/insufficiente motivazione in relazione al principio di capacità contributiva, poichè la CTR ha basato la propria decisione sulla valenza presuntiva della presunzione legale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, senza adeguatamente considerare l’intervento della sentenza n. 228/2014 della Corte costituzionale.

– La censura è inammissibile. Va ribadito che: “In materia di ricorso per cassazione, il vizio di motivazione riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, può concernere esclusivamente l’accertamento e la valutazione di fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia e non anche l’interpretazione o l’applicazione di norme giuridiche, potendo l’eventuale vizio di motivazione su questione di diritto, in presenza di una corretta decisione del giudice di merito della quesitone sottoposta al suo esame, dar luogo alla correzione della stessa ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2” (Cass. 13 dicembre 2017 n. 29886);

– “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. 7 aprile 2017 n. 9097).

La censura de qua collide all’evidenza con entrambi i principi di diritto espressi in tali arresti giurisprudenziali, posto che critica la decisione del giudice tributario di appello, per un verso in relazione all’applicazione di una disposizione legislativa (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32) in rapporto ad un principio costituzionale, così ponendosi una questione di diritto e non di fatto; per altro verso contestandone le valutazioni probatorie e quindi richiedendo a questa Corte una “revisione” del relativo giudizio meritale riservato alla CTR;

– Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente denuncia la violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, n. 2, poichè la CTR ha ritenuto di applicare la citata pronuncia di illegittimità di tale disposizione legislativa (Corte cost. 228/2014) limitatamente ai “prelevamenti” e non anche ai “versamenti”, così dovendosi considerare l’espunzione del termine “compensi” dalla disposizione medesima;

– La censura è infondata. Va ribadito che “In tema di accertamento, resta invariata la presunzione legale posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicchè questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti” (Cass. 9 agosto 2016 n. 16697; conforme, Cass. 10 febbraio 2017 n. 3628). La sentenza impugnata è pienamente conforme al principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale.

– Con il quarto motivo il ricorrente lamenta l’omesso esame della sua eccezione di inapplicabilità dell’IRAP, per difetto del relativo presupposto d’imposta;

– La censura è inammissibile e comunque infondata. E’ appena il caso di notare che, se è pur vero che nella sentenza impugnata non si è espressamente affrontata tale eccezione, la quale risulta pacificamente contenuta nel ricorso introduttivo della lite, tuttavia non è in alcun modo dato sapere dalla lettura del ricorso se il contribuente appellato l’abbia espressamente riproposta nel grado di appello. Si profila sul punto un difetto di autosufficienza dell’atto introduttivo del giudizio di Cassazione, si che questa Corte non è messa in grado di valutare se tale eccezione sia stata effettivamente devoluta in secondo grado oppure non lo sia stata, con la conseguente applicabilità del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, e quindi la formazione del giudicato parziale interno sulla questione della fondatezza della relativa pretesa creditoria erariale. La doglianza è anche infondata, in quanto dall’esame degli atti processuali non risulta che il contribuente abbia riproposto in appello la questione;

– In conclusione, il ricorso va rigettato, e dal rigetto discende il regolamento delle spese di lite secondo soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, e condanna parte ricorrente alla rifusione alla resistente delle spese di lite, liquidate in Euro 5.500,00 oltre spese prenotate a debito.

La Corte dà atto che, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (legge di stabilità 2013), per effetto del presente provvedimento sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore contributo unificato di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-bis, testo unico spese di giustizia.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2019

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