Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17289 del 27/06/2019

Cassazione civile sez. I, 27/06/2019, (ud. 09/04/2019, dep. 27/06/2019), n.17289

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 23260/18 proposto da:

A.K.D., elettivamente domiciliato a Bologna, Via Luigi

Carlo Farini n. 37, presso l’avvocato Elisa Sforza, che lo

rappresenta e difende in virtù di procura speciale apposta in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna del 23 gennaio

2018 n. 237;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 9

aprile 2019 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. A.K.D., cittadino senegalese nato il (OMISSIS), residente in Italia e munito di permesso di soggiorno, figlio di altro cittadino senegalese regolarmente residente in Italia, nel 2015 chiese alle competenti autorità amministrative il rinnovo del permesso di soggiorno.

La Questura di Piacenza, con provvedimento 21.1.2016, comunicato al richiedente il 12.3.2016, negò il rinnovo ed intimò all’interessato di lasciare il territorio italiano, sul presupposto che questi fosse persona priva di qualsiasi volontà di integrazione, condannata per reati legati agli stupefacenti, avesse violato l’obbligo di soggiorno, e non avesse mai imparato la lingua italiana.

2. Il provvedimento fu impugnato da A.K.D. dinanzi ai Tribunale di Piacenza D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 30, comma 6.

Il Tribunale con ordinanza 12.8.2016 rigettò l’opposizione.

Il soccombente appellò la decisione dinanzi alla Corte d’appello di

Bologna.

3. Nelle more del giudizio d’appello A.K.D. dedusse che il proprio padre era divenuto cittadino italiano con decreto notificato il 22.9.2016.

Sulla base di queste circostanze chiese che fosse accertato il suo diritto ad ottenere il permesso di soggiorno per motivi familiari, in quanto convivente col padre, cittadino italiano, e mercè l’insussistenza di motivi di pericolosità sociale.

4. La Corte d’appello di Bologna con sentenza 23.1.2018 rigettò il gravame.

Ritenne la Corte d’appello che:

-) per effetto dell’acquisto della cittadinanza italiana da parte di suo padre, A.K.D. avrebbe avuto teoricamente diritto al rilascio del permesso di soggiorno anche se non convivente col padre, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007;

-) tuttavia A.K.D. aveva precedenti per furto, spaccio ed ubriachezza molesta; non aveva mai imparato l’italiano; non risiedeva col padre; aveva violato l’obbligo di dimora nel Comune di Piacenza impostogli dall’autorità di polizia; aveva ancora un nucleo familiare in Senegal. Tali circostanze, secondo la Corte d’appello, giustificavano ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 13, la scelta della Questura di negare il rinnovo del permesso di soggiorno.

5. La sentenza d’appello è impugnata per cassazione da A.K.D. con ricorso fondato su due motivi; il Ministero non si è difeso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che la Corte d’appello avrebbe violato il D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 13.

Sostiene che egli, in quanto familiare di cittadino italiano, aveva il diritto di soggiorno accordatogli dal D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 23; e che il questore, investito della richiesta di rinnovo del titolo di soggiorno, non poteva negarlo per ragioni di ordine pubblico: sia perchè tali ragioni possono consistere solo nella commissione di gravi reati contro la sicurezza dello Stato, ai sensi del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 20; sia perchè competente ad adottare un provvedimento di espulsione per tali ragioni può essere solo il Ministro od il Prefetto.

1.2. Il motivo è manifestamente infondato.

Questa Corte infatti, decidendo una fattispecie concreta pressochè identica a quella oggi in esame, ha già stabilito che “la verifica della pericolosità sociale del cittadino straniero costituisce una condizione ostativa del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari richiesto dal familiare straniero di cittadino italiano (…)” e l’assenza di tale ostacolo può essere valutata dall’autorità competente al rilascio del titolo, ovvero al mantenimento di quello preesistente” (Sez. 1, Sentenza n. 12071 del 17/05/2013, Rv. 626265 – 01).

Nella motivazione della sentenza appena ricordata si è osservato: “la sussistenza, anche per le ipotesi di soggiorno temporaneo, della verifica dell’assenza di pericolosità sociale (ed il conseguente potere di allontanamento) conduce ad escludere che tale requisito possa non ricorrere tra le condizioni per la conservazione di un titolo di soggiorno dotato di stabilità temporale e non debba essere assunto come parametro ogni qual volta le autorità pubbliche competenti si trovino a verificare il mantenimento delle condizioni del diritto di soggiorno.

L’opzione contraria condurrebbe a conclusioni incoerenti rispetto all’esigenza di tutela effettiva e non differita della collettività che il D.Lgs. n. 30 del 2007, in ossequio ai principi della Direttiva 2004/38/CE, vuole e salvaguardare.

Diversamente opinando, in sede di rinnovo del permesso di soggiorno il questore, pur ritenendo, sulla base di riscontri oggettivi (…) che il cittadino straniero sia socialmente pericoloso, dovrebbe concedere ugualmente il rinnovo del titolo di soggiorno ma contestualmente segnalare all’autorità competente per l’allontanamento (il prefetto) l’esistenza della condizione ostativa, e procedere successivamente all’esecuzione coattiva del provvedimento.

Tale soluzione non è condivisibile perchè introduce nel sistema normativo ed amministrativo di rilascio e rinnovo dei titoli di soggiorno per motivi familiari ai cittadini stranieri familiari di cittadini italiani o dell’Unione Europea, un’insanabile contraddittorietà.

La condizione relativa alla pericolosità sociale costituisce, secondo la Direttiva e la stessa intitolazione dell’art. 20, una “limitazione” al mantenimento del titolo di soggiorno. Alla luce di questa specifica funzione, non può escludersi l’esame della sua positiva o negativa sussistenza nel procedimento tipicamente destinato alla verifica delle condizioni per il rinnovo (ovvero la conservazione) del titolo, ed invece consentirle soltanto in corso di esercizio del diritto, sulla base dl accertamenti casuali”.

A tale orientamento questo Collegio intende dare continuità, con l’ulteriore precisazione che il diniego del rinnovo del permesso di soggiorno può essere legittimamente giustificato dalla circostanza che il richiede costituisca un pericolo non solo per l’ordine pubblico, ma anche solo per la sicurezza pubblica, come già ritenuto da SE:Z. 6 – 1, Ordinanza n. 19337 del 29.9.2016.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo, subordinato al primo, il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 23.

Sostiene che il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, vieta l’espulsione di straniero convivente con un parente entro il secondo grado, che sia cittadino italiano, e che questa norma si sarebbe dovuta applicare al caso di specie, in quanto più favorevole rispetto al D.Lgs. n. 30 del 2007.

2.2. Il motivo è infondato.

A prescindere da quale sia in concreto la norma più favorevole rispetto all’interesse del richiedente asilo, è dirimente il rilievo che la Corte d’appello ha accertato in punto di fatto che l’odierno ricorrente non convive affatto col proprio padre, e tale valutazione non è censurata dal ricorso.

Tale accertamento, facendo venir meno il presupposto stesso del diritto al rinnovo del permesso di soggiorno, rende superfluo stabilire se vi sia stata o no violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19.

3. Le spese.

3.1. Non è luogo a provvedere sulle spese, attesa la indefensio della parte intimata.

3.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

PQM

la Corte di cassazione:

(-) rigetta il ricorso;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di A.K.D. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 9 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019

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