Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17286 del 12/08/2011

Cassazione civile sez. II, 12/08/2011, (ud. 09/06/2011, dep. 12/08/2011), n.17286

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. NUZZO Laurenza – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Edilmare di Ritoli & Montalbò s.n.c., con sede in

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante sig.

M.

P., rappresentata e difesa per procura speciale autenticata in

data 26 maggio 2011 a mezzo del notaio Dott. RESOLI Francesco di

Bari, rep. n. 530451, dall’Avvocato prof. Giuseppe Niccolis,

elettivamente domiciliata presso il suo studio in Bari, corso Cavour

n. 156;

– ricorrente –

contro

S.S.M.R. e F.L.P., residenti in

(OMISSIS), rappresentate e difese per procura a margine

del controricorso dall’Avvocato GALLUZZI Vitantonio, elettivamente

domiciliate presso lo studio del Cav. Luigi Gardin in Roma, via Laura

Mantegazza n. 24;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 354 della Corte di appello di Bari, depositata

il 14 aprile 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 9

giugno 2011 dal consigliere relatore Dott. Mario Bertuzzi;

udite le difese delle parti, svolte dall’Avvocato Sandra Graziarli,

per delega dell’Avvocato, Giuseppe Miccolis, per la società

ricorrente e dall’Avvocato Vitantonio Galluzzi per i

controricorrenti;

udite le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. RUSSO Libertino Alberto, che ha chiesto il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

S.S.M.R. e F.L.P. convennero dinanzi al Pretore di Monopoli la s.n.c. Edilmare di Ritoli &

Montalbò esponendo di essere, rispettivamente, usufruttuaria e proprietaria di un fabbricato sito in Via (OMISSIS); che la società convenuta aveva realizzato, in posizione frontale rispetto al loro, un nuovo fabbricato, comprensivo di una serie di garage, modificando ed elevando il suolo stradale in modo da collocare al di sotto dello stesso il piano di calpestio del proprio immobile, ed eseguendo due muri di contenimento; che le opere così eseguite, oltre a provocare la deviazione del flusso delle acque piovani e danni conseguenti, integravano un’evidente violazione delle condizioni stabilite con l’atto pubblico del 9 febbraio 1994, con cui le parti avevano costituito tra le loro proprietà una reciproca servitù di prospetto, veduta e passaggio carrabile, con espresso obbligo per entrambe le parti di non modificare l’assetto stradale con riferimento sia all’altezza che alla sua pendenza; che, proposto ricorso per manutenzione del possesso, il Pretore aveva ordinato alla resistente la riduzione in ripristino dello stato dei luoghi.

Chiesero, pertanto, che l’ordinanza possessoria fosse confermata e la convenuta condannata al risarcimento dei danni.

La società Edilmare si oppose, controdeducendo che le opere erano state realizzate in conformità della concessione edilizia e che la loro esecuzione non consentiva, sotto il profilo della tecnica costruttiva, una soluzione diversa da quella adottata.

Il Tribunale di Bari, Sezione distaccata di Monopoli, in parziale accoglimento delle domande, dichiarò che la costruzione realizzata dalla convenuta integrava molestia del possesso delle attrici e condannò” la società convenuta al risarcimento dei danni, che liquidò nella somma complessiva di Euro 24.468.44.

Interposto gravame, con sentenza n. 354 del 14 aprile 2005 la Corte di appello di Bari confermò integralmente la pronuncia di primo grado, osservando che la regolarità urbanistica dell’edificio realizzato dalla società Edilmare non la esonerava dal rispetto dei diritti della proprietà del vicino, che nella specie risultavano violati in quanto la sopraelevazione del piano stradale era stata eseguita trasgredendo allo specifico obbligo assunto dalle parti con l’atto pubblico del 9 febbraio 1994 di non alterarne altezze e pendenze e che, correttamente, il giudice di primo grado aveva valutato il danno, sulla base della consulenza tecnica d’ufficio, al momento del suo accertamento, sia con riguardo al costo delle opere necessarie per ovviare all’inconveniente del deflusso delle acque determinato dalla modificata pendenza del piano stradale che con riferimento al diminuito valore del bene.

Per la cassazione di questa decisione, notificata il 4 ottobre 2005, ricorre, con atto notificato il 2 dicembre 2005, la Edilmare di Ritoli & Montalbò s.n.c, affidandosi a tre motivi.

Resistono con controricorso, illustrato da memoria, S.S. M.R. e F.L.P..

Con atto depositato in Cancelleria il 7 giugno 2011, la società ricorrente si è costituita con un nuovo difensore.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso denunzia ” Violazione di legge. Art. 360 c.p.c., n. 5), per insufficiente motivazione, anche in relazione al combinato disposto dell’art. 1170 c.c., artt. 703 e 705 c.p.c.”, lamentando, con una prima censura, che la sentenza impugnata non abbia ritenuto la legittimità delle opere eseguite dalla società convenuta attesa la loro conformità alla concessione edilizia, comprensiva anche dei locali garage.

La Corte territoriale è poi incorsa in un errore di valutazione laddove ha dichiarato che “lo schema dei punti fissi” in relazione alle opere realizzate era stato presentato al Comune nel 1995 dopo la presentazione del ricorso della controparte, mentre esso faceva invece parte della documentazione del progetto presentata per l’ottenimento della concessione. La sentenza ha trascurato inoltre di considerare che lo spazio esistente di fronte alla proprietà delle attrici, prima dell’esecuzione delle opere, non aveva dignità ed aspetto di strada, trattandosi di un mero ricettacolo di terra, rovi e materiale vario.

Sotto altro profilo, il mezzo deduce che la sentenza è errata per avere ritenuto irrilevante la circostanza che il piano stradale apparteneva ad entrambe le parti in causa per una metà ciascuna e che esso, in base allo strumento urbanistico, rientrava tra le aree che dovevano essere cedute al Comune, circostanza che dimostrava la mera strumentalità dell’azione intrapresa dalla controparte.

Il motivo è infondato.

Con riferimento alla prima censura, che oppone la liceità delle opere in ragione della loro conformità alle norme edilizie ed urbanistiche, va senz’altro condivisa l’affermazione della Corte barese in ordine alla irrilevanza di tale situazione in relazione all’oggetto della controversia. Tale conclusione appare infatti conforme all’orientamento di questa Corte secondo cui, in tema di distanze nelle costruzioni, la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra Pubblica Amministrazione e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, dal momento che il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perchè queste riguardano solo l’aspetto formale dell’attività costruttiva. Di conseguenza, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l’aver eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sè la violazione di dette prescrizioni e quindi il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni (Cass. n. 7563 del 2006; Cass. n. 10173 del 1998). Le altre censure sollevate dal motivo appaiono invece inammissibili. Tali doglianze investono infatti esclusivamente l’accertamento dei fatti operato dal giudice di merito in forza della valutazione del materiale probatorio acquisito nel corso del giudizio, criticando in tal modo un giudizio che, all’evidenza, è di mero fatto, come tale non sindacabile nè censurabile dinanzi al giudice di legittimità. A ciò si aggiunga che il mezzo non appare sostenuto dal requisito di autosufficienza, il quale impone al ricorrente per cassazione che deduca l’omessa considerazione o erronea valutazione da parte del giudice di merito di risultanze istruttorie di riprodurre esattamente il contenuto dei documenti e delle prove che si assumono non esaminate, al fine di consentire alla Corte di valutare la sussistenza e decisività delle stesse (Cass. n. 17915 del 2010; Cass. n. 18506 del 2006; Cass. n. 3004 del 2004).

Costituisce diritto vivente di questa Corte il principio che il ricorso per cassazione deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. n. 15952 del 1997; Cass. n. 14767 del 2007; Cass. n. 12362 del 2006). In particolare, il motivo non rispetta tale requisito, dal momento che omette di indicare gli atti o i documenti da cui risultano le circostanze che si assumono non esaminate dal giudice di merito, nonchè di riprodurne il contenuto, mancanza che impedisce al Collegio qualsiasi valutazione sul punto.

Il secondo motivo di ricorso denunzi a violazione degli artt. 1363, 1366, 1367, 1368 cod. civ. e dell’art. 12 preleggi, nonchè insufficiente motivazione ” anche in relazione al combinato disposto dell’art. 1170 c.c., artt. 703 e 705 c.p.c.”, censurando la decisione impugnata per avere adottato una interpretazione errata e riduttiva dell’accordo concluso dalle parti in data 9 febbraio 1994, il cui aspetto centrale era rappresentato dalla reciproca costituzione di servitù. Ciò avrebbe dovuto indurre, in applicazione dei criteri di interpretazione del contratto stabiliti dagli artt. 1363, 1366 e 1365 cod. civ., a valutare la successiva clausola contenente l’obbligo di non alterare l’altezza e la pendenza del piano stradale non come un divieto assoluto, bensì in funzione della soddisfazione della costituenda servitù di passaggio carrabile, che era in concreto realizzabile soltanto a seguito della modificazione della strada.

Sotto altro aspetto, la Corte territoriale ha errato nel non riconoscere che, avendo la convenuta realizzato le opere di sistemazione della strada su particelle di cui era esclusiva proprietaria, esse erano mera estrinsecazione del suo diritto di proprietà e possesso sul bene.

Anche questo motivo deve essere respinto.

La censura di erronea interpretazione dell’atto contrattuale di costituzione della servitù del 9 febbraio 1994 è inammissibile, in quanto, in osservanza del principio di autosufficienza, il ricorrente avrebbe dovuto produrre, cosa che non ha fatto, il testo di tale atto, al fine di dimostrare, allegando critiche specifiche e puntuali, che l’interpretazione di esso fatta propria dal giudice a quo non era conforme ai canoni di interpretazione contrattuale stabiliti dalla legge.

La censura è inoltre generica in quanto richiama a sostegno la violazione delle regole interpretative dettate dagli artt. 1363, 1366, 1367 e 1368 cod. civ. che, com’è noto, essendo sussidiarie rispetto al criterio di interpretazione testuale stabilito dal precedente art. 1362 cod. civ., possono trovare applicazione soltanto nei casi in cui quest’ultimo conduca ad un risultato insufficiente ed il significato del contratto rimanga oscuro o ambiguo (Cass. n. 9786 del 2010; Cass. n. 12721 del 2007). Tale gradualità impone alla parte che ne deduca la violazione l’onere di dimostrare che, nel caso concreto, il criterio di interpretazione testuale porta a risultati inappaganti, che vale a dire esso non è in grado di chiarire in modo sufficiente i rispettivi obblighi e diritti delle parti. Il ricorso omette invece qualsiasi allegazione o spiegazione sul punto e ciò è sufficiente a ritenere la censura generica.

L’altra censura sollevata dalla ricorrente è invece manifestamente infondata, atteso che le facoltà insite nel diritto di proprietà del singolo trovano un limite nei diritti di proprietà altrui e, in particolare, per quanto qui interessa, nelle regole che disciplinano i rapporti tra proprietari vicini, la cui violazione è stata nella specie accertata dal giudice di merito.

Il terzo motivo di ricorso denunzia violazione di legge ed insufficiente motivazione ” anche in relazione all’art. 2041 c.c.”, lamentando che la sentenza impugnata abbia confermato, senza adeguata motivazione, la condanna al risarcimento dei danni, liquidati, per Euro 3.098,74, in ragione del costo dei lavori necessari a salvaguardia dell’immobile delle attrici dalle infiltrazioni d’acqua conseguenti alla modificata pendenza del piano stradale e, quanto a Euro 21.369,70. per il diminuito valore del loro immobile. In particolare, quanto alla prima voce di danno, la Corte non ha considerato che il pregiudizio era soltanto ipotetico e non reale e che tali opere di salvaguardia non erano mai state eseguite dalla controparte; la valutazione del danno relativo al minor valore dell’immobile per effetto delle opere della ricorrente, non ha considerato il pessimo stato di manutenzione del fabbricato e che esso era stato venduto dalle attrici nel 2001 ad un prezzo congnio e che esso era stato demolito, sicchè, al più, tale pregiudizio avrebbe dovuto essere riconosciuto soltanto fin a tale data.

Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Inammissibile laddove investe apprezzamenti di fatto propri del giudice di merito e non è sorretto dal requisito di autosufficienza in ordine alle circostanze che si assumono non considerate.

Infondato per avere il giudice correttamente valutato l’entità dei danni al momento del loro accertamento, richiamando, ai fini della loro quantificazione, le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, ed osservando, con considerazione logicamente corretta, che la circostanza della successiva permuta dell’immobile da parte degli attori era irrilevante, dovendosi presumere che il valore dello stesso fosse stata determinato, al momento della cessione, sulla base dello stato di fatto in cui si trovava e che, pertanto, su di esso avesse inciso negativamente la situazione di fatto conseguente alle opere realizzate dalla società convenuta.

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza della società ricorrente.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2011

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