Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17284 del 27/06/2019

Cassazione civile sez. I, 27/06/2019, (ud. 09/04/2019, dep. 27/06/2019), n.17284

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 15386/18 proposto da:

-) A.C., elettivamente domiciliato a Forlì, via Giacomo

Matteotti n. 105, presso l’avvocato Francesco Roppo, che lo

rappresenta e difende in virtù di procura speciale apposta in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

-) Ministero dell’Interno, elettivamente domiciliato in Roma, via dei

Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo

rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna del 10 novembre

2017 n. 2669;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 9

aprile 2019 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2015 A.C., cittadino (OMISSIS), chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4 (la data della richiesta non è precisata nel ricorso per cassazione):

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 dicembre 2007, n. 251, ex art. 7 e ss.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. n. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6, (nel testo applicabile ratione temporis).

2. A fondamento dell’istanza dedusse di avere avuto nel suo Paese una relazione con una minorenne, reputandola di maggiore età; che la ragazza concepì un figlio; che i parenti della ragazza “lo minacciarono” (nel ricorso non si precisa in che termini e di cosa); che in seguito alle minacce si trasferì da uno zio, col quale entrò in conflitto perchè questi intendeva far sottoporre alla pratica dell’infibulazione una sorella dell’odierno ricorrente, con lui convivente (il ricorrente non indica l’età della donna); che la sua opposizione all’infibulazione della sorella lo esponeva “al “rischio di essere vittima della magia nera”; che in conseguenza di questi fatti emigrò in altri Paesi centrafricani, per poi giungere in (OMISSIS) ed imbarcarsi da qui “gratuitamente” per l’Italia.

2. La Commissione Territoriale rigettò l’istanza con provvedimento del 16.12.2015.

Avverso tale provvedimento A.C. propose ricorso dinanzi al Tribunale di Bologna ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35.

Il Tribunale di Bologna con ordinanza del 6.7:2016 accordò all’istante il permesso di soggiorno per motivi umanitari, rigettando le altre domande.

3. L’ordinanza venne impugnata dal Ministero dell’interno.

La Corte d’appello di Bologna, con sentenza 10.11.2017 n. 2669, accolse il gravame.

La Corte d’appello ritenne che:

a) la vicenda narrata dal ricorrente riguardava fatti personali, non connessi ad una situazione di compressione dei diritti umani nel Paese di provenienza, e ciò impediva sia di ravvisare la sussistenza delle condizioni richieste per la concessione del diritto di asilo o la protezione sussidiaria; sia i “motivi umanitari” giustificativi della richiesta di permesso di soggiorno D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6;

b) la Corte aggiunse comunque di nutrire “notevoli perplessità” sulla veridicità dei fatti narrati dal ricorrente, evidenziandone varie incongruenze.

4. La sentenza è stata impugnata per cassazione da A.C. con ricorso fondato su due motivi ed illustrato da memoria, tuttavia irricevibile perchè depositata fuori termine.

Ha resistito con controricorso il Ministero dell’Interno.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Il primo motivo di ricorso denuncia, nella sua intitolazione, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19;

nonchè il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo.

Il motivo, sebbene formalmente unitario, contiene plurime censure, embricate più che elencate, così riassumibili:

a) la Corte d’appello ha trascurato di indagare d’ufficio sulle reali condizioni socioeconomiche del Gambia, “con particolare riguardo alle condizioni dei detenuti”;

b) il ricorrente aveva diritto almeno alla protezione umanitaria, perchè se fosse rientrato nel suo Paese sarebbe stato esposto al rischio di carcerazione, “per essersi opposto ai riti della tradizione”, nè avrebbe ricevuto protezione dalle autorità statali;

c) le ragioni con cui la Corte d’appello aveva rigettato la richiesta di protezione c.d. umanitaria erano “insufficienti”;

d) la Corte d’appello non aveva nemmeno esaminato il rischio derivante dal fatto che il ricorrente, rientrando in Gambia, sarebbe stato arrestato per avere avuto rapporti con una minorenne, e che nel Gambia i detenuti sono soggetti a trattamenti disumani e torture, nè l’autorità statale era in grado d’impedirli;

e) la Corte d’appello, infine, aveva trascurato di considerare che il ricorrente aveva intrapreso un “importante percorso di inserimento sociale in Italia”.

1.2. Delle censure che precedono il meno che si possa dire è che esse si attagliano ad una impugnazione di merito, non certo ad una censura di legittimità.

Ed infatti:

-) il vizio di “omesso esame” del fatto decisivo, invocato nella intitolazione del primo motivo non ricorso, non si comprende a quale delle cinque censure sopra riassunte sia riferito;

-) in ogni caso esso non viene dedotto coi criteri imposti dalla Sezioni Unite di questa Corte con la nota sentenza n. 8053 del 2014 (quale fatto sia stato trascurato dal giudice, quando sia stato dedotto, come sia stato provato, perchè sia decisivo);

-) la censura di violazione di legge, infine, è lasciata più all’intuito del giudicante, che affidata all’analitica esposizione del ricorrente: il ricorso infatti non espone chiaramente avverso quale statuizione di merito sia rivolta ogni singola censura (diniego dell’asilo, diniego della protezione sussidiaria, diniego della protezione umanitaria); nè espone dove e quando, nei gradi di merito, formulò le istanze e allegò i fatti che assume malamente valutati dalla Corte d’appello.

Tali mende già sarebbero di per sè sufficienti a ritenere inammissibile il ricorso, per violazione del precetto di cui all’art. 366, n. 3 (ordinata esposizione dei fatti di causa) e n. 4 (ordinata esposizione dei motivi di impugnazione).

Il primo motivo di ricorso, nondimeno, è comunque inammissibile od infondato anche per altre ed indipendenti ragioni.

1.4. La censura sub (a) di cui al p. 1.1 che precede è inammissibile, in quanto la Corte d’appello, con autonoma ratio decidendi, ha ritenuto che il racconto delle proprie peripezie compiuto dal richiedente asilo non potesse dirsi veridico, ma anzi suscitasse perplessità, ed alcuni dei fatti riferiti dall’odierno ricorrente (in particolare, il percorso del suo viaggio di fuga dal Gambia) evidenziassero condotte “incomprensibili” (così la sentenza, p. 4).

La ritenuta non credibilità soggettiva del richiedente asilo esonerava pertanto la Corte d’appello dall’indagare, anche d’ufficio, sulla sussistenza dei requisiti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 e art. 14, lett. (a) e (b), ai fini della concessione del rifugio politico o della protezione sussidiaria.

Quanto, poi alla doglianza con cui il ricorrente lamenta il mancato impiego, da parte della Corte d’appello” dei propri poteri officiosi per accertare la sussistenza dei requisiti di cui al D.Lgs. n. 251 del 1974, art. 14, lett. (c), per la concessione della protezione umanitaria (il rischio di gravi danni alla persona in situazioni di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato), la censura è inammissibile perchè prescinde dal contenuto effettivo della sentenza d’appello.

La Corte d’appello ha interpretato la domanda ritenendo che, con essa, il ricorrente avesse posto a fondamento della propria richiesta di protezione solo due circostanze di fatto:

(a) il timore di ritorsioni da parte dei parenti della ragazza da lui resa madre;

(b) il timore di divenire oggetto di riti di “magia nera” (così la sentenza, p. 3).

Ha, di conseguenza, concluso che questi fatti riguardassero vicende personali, come tali non giustificatrici della richiesta di protezione D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. (c).

Il ricorrente, incurante di questa ratio decidendi, con la prima censura del primo motivo del proprio ricorso insiste sul fatto che la Corte d’appello avrebbe dovuto indagare d’ufficio sulla situazione di violenza indiscriminata esistente nel Gambia, ma non impugna l’affermazione secondo cui il ricorrente non aveva mai dedotto in giudizio la sussistenza dei requisiti di cui al citato D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. (c).

1.4. La censura sub (b) di cui al p. 1.1 che precede è infondata.

Come accennato, la Corte d’appello da un lato ha ritenuto non attendibile il racconto del richiedente asilo; e dall’altro ha qualificato la domanda attorea nel senso che, con essa, il richiedente asilo ha fondato la propria istanza solo su due ben precise vicende personali, e non già su una situazione ambientale di violenza diffusa.

Di conseguenza la ritenuta inattendibilità soggettiva del ricorrente esonerava la Corte d’appello dal dovere di accertare d’ufficio le condizioni sociopolitiche del (OMISSIS), perchè tale questione era estranea al thema decidendum.

1.5. La censura sub (c) di cui al p. 1.1 che precede è inammissibile, non essendo più consentita, dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5, la deducibilità in sede di legittimità del vizio di insufficiente motivazione.

1.6. La censura sub (d) di cui al p. 1.1 che precede è infondata.

La Corte d’appello, infatti, ha ritenuto inattendibile il racconto con cui l’odierno ricorrente ha giustificato la propria richiesta: sicchè, non reputando veridico il rischio di carcerazione, non aveva alcun obbligo di indagare anche d’ufficio sulla situazione carceraria esistente nel (OMISSIS).

1.7. La censura sub (e) di cui al p. 1.1 che precede, infine, è inammissibile per la sua novità, dal momento che il ricorrente non deduce se, in quale atto ed in quali termini essa sia mai stata proposta nei gradi di merito, e ciò a prescindere da qualsiasi valutazione circa la sua fondatezza giuridica.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo il ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3,comma 5.

Sostiene che la Corte, prima di qualificare come lacunoso e contraddittorio il racconto dei fatti fornito dal ricorrente, avrebbe dovuto procedere ad un nuovo esame di questi, interrogandolo sulle circostanze reputate lacunose.

2.2. Il motivo è infondato.

Il giudizio di opposizione alle decisioni della Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale era disciplinato, in origine, dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35. Tale norma prevedeva espressamente, al comma 10, che il Tribunale decidesse sull’opposizione “sentite le parti”, mentre il successivo comma 13 estendeva tale previsione ai giudizi d’appello.

In seguito il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, commi 10 e 13 vennero abrogati dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 34,comma 20, lett. (c), e la materia venne disciplinata dall’art. 19 di quest’ultimo decreto, il quale non previde più espressamente l’obbligo del Tribunale di “sentire le parti”, limitandosi a stabilire che l’impugnazione della decisione della Commissione Territoriale avvenisse con le forme del rito sommario, le quali (artt. 702 bis e 702 ter c.p.c.) non prevedono affatto l’obbligo del giudice di sentire le parti personalmente.

Tale norma, oggi pur essa abrogata, era quella vigente all’epoca in cui il giudizio di opposizione venne introdotto dall’odierno ricorrente (2015).

Da un lato, dunque, in base al diritto applicabile ratione temporis la Corte d’appello non aveva l’obbligo di sentire le parti, ma solo la facoltà di farlo; dall’altro lato, l’eventuale cattivo esercizio di tale facoltà da parte del giudice d’appello non potrebbe essere sindacato in questa sede, riguardando un atto rimesso alla discrezionalità del giudice di merito (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 3003 del 07/02/2018, Rv. 647297 – 01); in terzo luogo qualsiasi eventuale nullità processuale verificatasi nel corso del giudizio d’appello, per potere condurre alla cassazione della sentenza impugnata, deve aver prodotto un vulnus alle ragioni della difesa di chi la invoca, pregiudizio che nel caso di specie non viene neanche prospettato.

3. Le spese.

3.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

Poichè la parte vittoriosa è un’amministrazione dello Stato, nei confronti della quale vige il sistema della prenotazione a debito dell’imposta di bollo dovuta sugli atti giudiziari e dei diritti di cancelleria e di ufficiale giudiziario, la condanna alla rifusione delle spese vive deve essere limitata al rimborso delle spese prenotate a debito, come già ritenuto più volte da questa Corte (ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 5028 del 18/04/2000, Rv. 535811).

3.2. La circostanza che il ricorrente sia stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato esclude l’obbligo del pagamento, da parte sua, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,comma 17), in virtù della prenotazione a debito prevista dal combinato disposto di cui agli artt. 11 e 131 del decreto sopra ricordato (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 9538 del 12/04/2017, Rv. 643826 – 01).

PQM

la Corte di cassazione:

(-) rigetta il ricorso;

(-) condanna A.C. alla rifusione in favore del Ministero dell’interno delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 2.100, oltre rifusione delle spese prenotate a debito, I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile della Corte di cassazione, il 9 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019

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