Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17283 del 27/06/2019

Cassazione civile sez. I, 27/06/2019, (ud. 09/04/2019, dep. 27/06/2019), n.17283

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 15381/18 proposto da:

P.H., elettivamente domiciliato a Faenza, via XX Settembre

n. 29, presso l’avvocato Patrizia Bortoletto, che lo rappresenta e

difende in virtù di procura speciale apposta in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, elettivamente domiciliato in Roma, via dei

Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo

rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna del 9 marzo 2018

n. 675;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 9

aprile 2019 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2015 P.H., cittadino pakistano, chiese alla competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 7 e segg.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

2. A fondamento dell’istanza dedusse che nel suo Paese di origine era stato dapprima minacciato, per poi essere vittima di vari atti di violenza (pestaggio del figlio, avvelenamento dell’acqua, incendio della casa) per avere frequentato persone di confessione sciita, e per avere rifiutato di iscrivere i propri figli ad una scuola coranica.

3. La Commissione Territoriale rigettò l’istanza.

Avverso tale provvedimento P.H. propose ricorso dinanzi al Tribunale di Bologna ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35.

Il Tribunale di Bologna con ordinanza del 14.9.2016 rigettò tutte le

richieste dell’opponente.

4. L’ordinanza venne impugnata dal soccombente.

La Corte d’appello di Bologna con sentenza 9.3.2018 n. 675 rigettò il gravame.

La Corte d’appello ritenne che:

(a) lo status di rifugiato non potesse essere concesso all’odierno ricorrente, perchè il Tribunale aveva ritenuto inattendibile il suo racconto delle circostanze astrattamente giustificative dell’asilo, e tale statuizione non era stata censurata;

(b) la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. (c), non potesse essere accordata, sia perchè i fatti descritti dal ricorrente non denotavano una situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato”, sia perchè tale situazione in ogni caso non era stata “nemmeno dedotta” dall’appellante;

(c) infine, era stato lo stesso ricorrente a dichiarare di avere lasciato il suo Paese per ragioni economiche, il che precludeva il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

5. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da P.H. con ricorso fondato su un solo motivo, articolato in più censure.

Il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il motivo unico di ricorso.

1.1. Con l’unico motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 2 e 32 Cost.; art. 24 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; art. 11 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Il motivo, pur formalmente unitario, contiene in realtà tre diverse censure, che è opportuno, per maggiore chiarezza, esaminare separatamente.

1.2. Con una prima censura (illustrata alle pp. 4-5 del ricorso) il ricorrente sostiene che la Corte d’appello avrebbe “omesso qualsiasi motivazione” a sostegno della pronuncia di rigetto della domanda di accertamento dello status di rifugiato politico e di avente diritto alla protezione sussidiaria.

Aggiunge che, anche dinanzi a dichiarazioni del richiedente asilo ritenute non credibili, il giudice dovrebbe comunque accordare almeno la concessione della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. (c), o del permesso di soggiorno per motivi umanitari, se nel Paese di provenienza dell’interessato sussista comunque una situazione di violenza generale e diffusa, idonea a creare una situazione di vulnerabilità per il richiedente.

1.3. Nella parte in cui prospetta il “difetto assoluto” di motivazione, la censura è infondata, in quanto la motivazione nel provvedimento impugnato non manca. La Corte d’appello ha infatti affermato:

-) che lo status di rifugiato non spettava all’odierno ricorrente, perchè non era attendibile il racconto circa le persecuzioni per motivi religiosi;

-) che la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. (c), non spettava, perchè in Pakistan non vi era una situazione di violenza diffusa, e comunque perchè tale situazione non era stata “nemmeno allegata” dall’odierno ricorrente;

-) che il permesso di soggiorno per motivi umanitari non spettava, perchè il ricorrente aveva confessato di essere emigrato per motivi economici.

Quella che precede è una motivazione, intelligibile e non contraddittoria, e come tale sufficiente ad escludere che il provvedimento impugnato possa dirsi “immotivato”.

1.3.1. Nella parte, poi, in cui sostiene che le varie forme di protezione internazionale (rifugio, protezione sussidiaria, protezione umanitaria) possano sempre prescindere dalla valutazione dell’attendibilità del richiedente, quando nel Paese di provenienza di questi sussistano comunque condizioni di “violenza generalizzata”, la censura qui in esame è del pari infondata.

La concessione dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria nell’ipotesi in cui il richiedente sia esposto al pericolo di morte o tortura nel proprio Paese, ai sensi del D.Lgs. n. 215 del 2007, art. 7 e art. 14, lett. (a) e (b), non può essere concessa a chi abbia fornito, a fondamento della sua richiesta, una versione dei fatti inattendibile.

L’inattendibilità in questi casi è ostativa di qualsiasi ulteriore accertamento istruttorio officioso, come già ritenuto da questa Corte (Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549 – 02; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 16925 del 27/06/2018, Rv. 649697 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 4892 del 19/02/2019, Rv. 652755 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 33096 del 20/12/2018, Rv. 652571 – 01).

Correttamente dunque nel caso di specie il giudice di merito, ritenuta l’inattendibilità del richiedente, si è astenuto da ulteriori approfondimenti.

1.3.2. Quanto, poi, alla richiesta di protezione sussidiaria per l’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. (c), ed alla richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari, la Corte d’appello ha ritenuto non solo che tale situazione non sussistesse, ma ha altresì ritenuto – con autonoma ratio decidendi – che neanche fosse stata mai dedotta in giudizio dall’odierno ricorrente una situazione, nel suo Paese, di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato (così la sentenza d’appello, p. 3, ultimo capoverso).

La sentenza d’appello, dunque, si fonda sul rilievo di un deficit assertivo dell’odierno ricorrente, affermazione che è astrattamente corretta (questa Corte, infatti, ha già stabilito che la domanda di riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio: così Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 27336 del 29/10/2018, Rv. 651146 01) e che, non essendo stata censurata in questa sede (ed anzi è stata implicitamente confermata dallo stesso ricorrente, là dove afferma che tale deduzione non era necessaria: così il ricorso, p. 6, primo capoverso), rende superfluo stabilire se la Corte d’appello abbia correttamente inquadrato le condizioni socioeconomiche del Pakistan.

1.4. Con una seconda censura (illustrata alle pp. 5-7 del ricorso) il ricorrente lamenta che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere inesistente in Pakistan una situazione giustificativa della richiesta di protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. (c).

Allega che in Pakistan sussiste una situazione di grave violazione dei diritti umani e di instabilità, e tale circostanza risulterebbe:

– dal sito web del ministero degli esteri;

– dal sito web di Amnesty International;

– dai siti web di “altre organizzazioni accreditate) (sic).

1.5. La censura, come la precedente, è inammissibile per estraneità alla ratio decidendi.

Per quanto già detto, infatti, la Corte d’appello ha rigettato sia la domanda di protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. (c); sia quella di protezione “umanitaria”, in base al rilievo che l’odierno ricorrente non avesse mai “neanche dedotto” la sussistenza in Pakistan d’una situazione di violenza indiscriminata causata da un conflitto armato: affermazione, come detto, che non è stata censurata dal ricorrente.

1.7. Con una terza censura (illustrata alle pp. 7-10 del ricorso), infine, il ricorrente sostiene che la Corte d’appello ha errato nel negargli sinanche il permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Deduce che ricorreva nella specie il requisito della “vulnerabilità”, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, in quanto la permanenza del Paese di origine avrebbe gravemente leso il diritto del ricorrente alla salute e quello all’alimentazione, che nel nostro ordinamento sono tutelati dagli artt. 2 e 32 Cost., nonchè per effetto dell’adesione deliltalia al Patto internazionale sui diritti civili e politici.

1.8. Anche questa terza censura è tanto inammissibile, quanto infondata.

Essa è inammissibile, in primo luogo, in quanto il ricorrente – in violazione dell’onere di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 – non espone quando ed in che termini abbia prospettato tale questione nei gradi di merito; non indica da quali prove risulti il rischio di vulnus alla salute ed alla sopravvivenza; ed in ogni caso censura un apprezzamento di fatto.

In secondo luogo il motivo sarebbe comunque infondato, nella parte in cui prospetta genericamente che, nel proprio Paese d’origine, il diritto del ricorrente alla vita, al benessere ed alla salute sarebbero compromessi dalle condizioni ivi diffuse.

Questa Corte, infatti, ha già ripetutamente affermato che il permesso di soggiorno per motivi umanitari è una misura residuale ed atipica, che può essere accordata solo a coloro che, se facessero ritorno nel Paese di origine, si troverebbero in una situazione di vulnerabilità strettamente connessa al proprio vissuto personale. Se così non fosse, il permesso di soggiorno per motivi umanitari, misura “personalizzata” e concreta, finirebbe per essere accordato non già sulla base delle specificità del caso concreto, ma sulla base delle condizioni generali del Paese d’origine del richiedente, in termini del tutto generali ed astratti, ed in violazione della ratio e della lettera della legge (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 9304 del 03/04/2019, Rv. 653700 – 01; Sez. 1 -, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 – 01).

2. Le spese.

2.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1 e sono liquidate nel dispositivo.

Poichè la parte vittoriosa è un’amministrazione dello Stato, nei confronti della quale vige il sistema della prenotazione a debito dell’imposta di bollo dovuta sugli atti giudiziari e dei diritti di cancelleria e di ufficiale giudiziario, la condanna alla rifusione delle spese vive deve essere limitata al rimborso delle spese prenotate a debito, come già ritenuto più volte da questa Corte (ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 5028 del 18/04/2000, Rv. 535811).

2.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

PQM

la Corte di cassazione:

(-) rigetta il ricorso;

(-) condanna P.H. alla rifusione in favore del Ministero dell’interno delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 2.100, oltre rifusione delle spese prenotate a debito, I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di P.H. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte di Cassazione, il 9 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019

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