Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1728 del 28/01/2014


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 1728 Anno 2014
Presidente: LA TERZA MAURA
Relatore: MAROTTA CATERINA

ORDINANZA
sul ricorso 23988-2012 proposto da:
MARINI ROMOLO MRNRML33H06D786E, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 2, presso lo studio
dell’avvocato GIORGIO ANTONINI, rappresentato e difeso
dall’avvocato CARLO ORLANDO, giusta delega a margine del
ricorso;

– ricorrente contro
I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE
CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO 01165400589 in
persona del Dirigente con incarico di livello generale, Direttore della
direzione Centrale Prestazioni, elettivamente domiciliato in ROMA,
VIA IV NOVEMBRE 144, presso la Sede Legale dell’Istituto,

Data pubblicazione: 28/01/2014

rappresentato e difeso dagli avvocati LUCIANA ROMEO e EMILIA
FAVATA, giusta procura speciale in calce al controricorso;
– COlItt017.COITC1ItC –

avverso la sentenza n. 386/2011 della CORTE D’APPELLO di

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
14/11/2013 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA.
E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott.
GIANFRANCO SERVELLO.
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente
contenuto:
“Con ricorso al Tribunale di Bologna, Romolo Marini conveniva in
giudizio l’I.N.A.I.L. al fine di sentir dichiarare l’illegittimità del verbale
di revisione del 2/7/2001 con il quale la rendita da infortunio sul
lavoro di cui godeva era stata ridotta in rapporto ad una inabilità del
45% in luogo del già riconosciuto 70%. Il Tribunale di Perugia rilevava
che l’inabilità accertata dall’Istituto nel 2001 effettivamente non
superasse la soglia del 48% e ciò non per effetto di un miglioramento
delle condizioni di salute del Marini bensì per essere stata erronea, per
eccesso, la valutazione effettuata in sede di riconoscimento della
rendita; contestualmente rilevava la decadenza del potere di rettifica
dell’Istituto che, ai sensi dell’art. 9 del d.lgs. n. 38/2000, poteva essere
esercitato entro i dieci anni dal riconoscimento della rendita e tuttavia
riteneva che non potesse essere riconosciuta al ricorrente una rendita
rapportata al 70% ma solo che egli conservasse il diritto all’importo
(senza le successive rivalutazioni) della prestazione che l’I.N.A.I.L. gli
aveva riconosciuto fino al 2001. A seguito di impugnazione principale
da parte del Marini ed incidentale da parte dell’I.N.A.I.L., la Corte di
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PERUGIA del 6.7.2011, depositata il 27/10/2011;

appello di Perugia confermava la decisione di primo grado. Riteneva la
Corte territoriale che, come correttamente rilevato dal Tribunale,
l’I.N.A.I.L. non aveva accertato una inabilità del 45% contro quella del
70% a suo tempo rilevata perché le condizioni del ricorrente erano
migliorate, ma le aveva semplicemente diversamente valutate e che tale

inabilità del 48%.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione Romolo Marini
affidandosi a tre motivi cui resiste l’I.N.A.I.L. con controricorso.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia: “Violazione e falsa
applicazione degli artt. 112 cod. proc. civ. e 9 d.lgs. n. 30/2000 in
relazione all’art. 360, comma 1 n. 4, cod. proc. civ.”. Si duole del fatto
che la Corte territoriale ha travalicato i limiti delle pretese e delle
eccezioni fatte valere dalle parti affrontando e decidendo una
questione (operatività rettifica per errore ex art. 9 d.lgs. n. 38/2000)
estranea all’oggetto del giudizio e sulla quale le parti non avevano
avuto modo di esercitare il contraddittorio.
Il motivo è manifestamente infondato.
Va, infatti, osservato, sulla base del consolidato insegnamento di
questa Corte, che il diritto alla prestazione previdenziale nasce dalla
legge in presenza delle condizioni ivi previste e che gli atti dell’Istituto
assicuratore che riconoscono o negano tale diritto hanno natura
meramente ricognitiva, con la conseguenza che, allorché l’Istituto
abbia erroneamente valutato l’esistenza o la misura della prestazione,
oggetto del giudizio è sempre l’esistenza del diritto riconosciuto dalla
legge, sicché l’Istituto ha l’obbligo, desumibile dai suoi compiti
istituzionali, di correggere l’errore che abbia rilevato e che l’errore, in
ogni caso, può essere verificato dal giudice indipendentemente dalla
circostanza che l’Istituto abbia instaurato un procedimento per la sua
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giudizio era stato condiviso dal c.t.u. il quale aveva indicato una

rettifica, o che tale procedimento sia stato erroneamente qualificato
come revisione per miglioramento, e non per errore. Il che implica, sul
piano specifico della tutela processuale, che, per essere il thema
decidendum incentrato sull’esistenza del diritto azionato con onere della
prova a carico dell’attore, le opzioni difensive dell’Istituto, e, quindi, la

revisione, oppure su quello dell’allegazione di un errore iniziale di
diagnosi, non limitano l’accertamento giudiziale alla verifica dei
miglioramenti successivi ovvero della sola situazione originaria,
giacché, come va ribadito, l’ordinamento consente che siano
corrisposti solo i trattamenti effettivamente dovuti in base alla legge
(così ad es. Cass. 30 luglio 2002, n. 11297; id. 15 luglio 2010, n. 16587;
16 ottobre 2012, n. 17746) e che a tale verifica è funzionale l’indagine
del giudice.
Peraltro, l’individuazione del procedimento in concreto intrapreso
dall’Istituto (revisione per miglioramento o aggravamento ovvero
revisione per errore) deve essere compiuta sulla base dei rispettivi
presupposti, e non del “nomen” ad esso attribuito dal soggetto che ne
abbia assunto l’iniziativa, ed è attività riservata al giudice di merito, il
quale non è vincolato dalla qualificazione data dalle parti né dal tipo di
procedimento instaurato dall’istituto previdenziale (così Cass. 13 luglio
2005, n. 14773).
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia: “Carenza e/o
insufficienza della motivazione in relazione all’art. 360, comma 1 n. 5,
cod. proc. civ.”. Sostiene che il giudice di appello ha operato la
qualificazione del provvedimento dell’I.N.A.I.L. sulla base della
consulenza tecnica d’ufficio di primo grado contenente una
valutazione, in punto di insussistenza di miglioramenti, illogica e

Ric. 2012 n. 23988 sez. ML – ud. 14-11-2013
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scelta stessa di difendersi sul terreno dell’esistenza dei presupposti della

scientificamente errata dal momento che aveva trascurato
completamente l’effettiva situazione in capo al ricorrente.
Il motivo presenta profili di inammissibilità ed è comunque
manifestamente infondato.
Si osserva, infatti, che le censure di parte ricorrente vengono mosse

ai fini degli indicati rilievi, né il contenuto della consulenza tecnica né
quello della documentazione (esiti di altre visite eseguite da medici
dell’I.N.A.I.L., valutazione dell’Istituto di Neuroscienze dell’Azienda
Ospedaliera di Perugia) che si assume essere stata pretermessa, ciò in
violazione del principio di autosufficienza del ricorso.
Si ricorda, al riguardo, che in caso di ricorso per cassazione per
vizio di motivazione, la parte che addebita alla consulenza tecnica di
ufficio lacune di accertamento o errori di valutazione oppure si duole
di erronei apprezzamenti contenuti in essa (o nella sentenza che l’ha
recepita) ha l’onere di trascrivere integralmente nel ricorso per
cassazione almeno i passaggi salienti e non condivisi e di riportare, poi,
il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di
evidenziare gli errori commessi dal giudice del merito nel limitarsi a
recepirla e nel trascurare completamente le critiche formulate in ordine
agli accertamenti ed alle conclusioni del consulente di ufficio. Le
critiche mosse alla consulenza ed alla sentenza devono pertanto
possedere un grado di specificità tale da consentire alla Corte di
legittimità di apprezzarne la decisività direttamente in base al ricorso
(cfr., ex ~kis, Cass. 13 giugno 2007, n. 13845; id. 22 febbraio 2010, n.
4201).
In ogni caso le censure si risolvono in un mero dissenso
diagnostico non attinente a vizi del processo logico formale, e si
traducono, quindi, in una inammissibile critica del convincimento del
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senza riportare integralmente, o quantomeno nei passaggi significativi

giudice (giurisprudenza consolidata: v. da ultimo Cass. n. 1652 del
03/02/2012; id. n. 569 del 12/01/2011; n. 22707 del 08/11/2010; n.
9988 del 29/04/2009).
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia: “Violazione e falsa
applicazione dell’art. 324 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360,

territoriale, nel determinare il grado di inabilità nella misura del 48%
non ha tenuto conto della sentenza del Pretore di Perugia del
21/5/1984, passata in giudicato, che aveva determinato il grado di
inabilità del Marini nella misura del 51%.
Anche tale motivo presenta profili di inammissibilità ed è
comunque manifestamente infondato.
Il ricorrente non riporta i passaggi significativi della citata sentenza
del Pretore di Perugia in relazione ai quali incentra la censura. La
sentenza in questione, peraltro, non è stata depositata unitamente
all’atto di ricorso e quest’ultimo è privo di ogni indicazione utile a
consentire il reperimento di detto documento (risultando inidonea a tal
fine la generica indicazione “prodotta in primo grado”). Manca,
dunque, ogni elemento che consenta al giudice di legittimità il
controllo della decisività della suddetta sentenza che, per il richiamato
principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve
essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute
nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini
integrative (cfr. ex aliis, Cass. 30 luglio 2010 n. 17915).
In ogni caso, il giudicato intervenuto comporta che la situazione
già accertata nel precedente giudizio non può formare oggetto di una
valutazione diversa solo ove permangano immutati gli elementi di fatto
e di diritto preesistenti. Il che, nel caso di specie, non risulta avvenuto
sol che si consideri che già in sede di accertamento collegiale del 1991
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comma 1 n. 4, cod. proc. civ.”. Si duole del fatto che la Corte

(successivo alla pronuncia del Pretore) i suddetti elementi erano stati
rimessi in discussione.
In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai
sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5″.
2 – Ritiene questa Corte che le considerazioni svolte dal relatore

dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del
processo, soluzione non contrastata dalle parti e condivisa dal
Procuratore generale, che ha aderito alla relazione.
3 – Conseguentemente, il ricorso va rigettato.
4 – Non è luogo a pronunciare sulle spese, attesa l’applicabilità,
ratione temporis,

dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., nel testo vigente

anteriormente alla novella di cui a D.L. 30 settembre 2003, n. 269,
convertito in L. 24 novembre 2003, n. 326.

P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 novembre 2013.

siano del tutto condivisibili. Ricorre con ogni evidenza il presupposto

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