Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1728 del 20/01/2022

Cassazione civile sez. VI, 20/01/2022, (ud. 08/06/2021, dep. 20/01/2022), n.1728

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Gabriella – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13701-2020 proposto da:

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE

DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati ANGELO

GUADAGNINO, PAOLA MASSAFRA;

– ricorrente –

contro

M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato GIULIANO RISI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3121/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 24/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata dell’08/06/2021 dal Consigliere Relatore Dott.

GIUSEPPINA LEO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. la Corte di Appello di Roma, con sentenza pubblicata in data 24.9.2019, ha accolto parzialmente il gravame interposto dall’INPS, nei confronti di M.L., avverso la pronunzia del Tribunale di Frosinone, resa il 13.9.2016, con la quale, in accoglimento del ricorso della M., era stata accertata la responsabilità dell’Istituto nella causazione delle patologie da cui era affetta la lavoratrice, conseguenziali al demansionamento professionale ed al mobbing e, per l’effetto, l’Istituto era stato condannato a corrispondere alla stessa la somma complessiva di Euro 21.541,00, a titolo di risarcimento del danno biologico e morale e di indennità temporanea parziale;

2. la Corte di merito, per quanto ancora di rilievo in questa sede, ha osservato che “la Suprema Corte ha chiarito che, in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del risarcimento del “danno biologico”, quale pregiudizio che esplica incidenza sulla vita quotidiana e sulle attività dinamico-relazionali del soggetto, e di un’ulteriore somma a titolo di ristoro del pregiudizio rappresentato dalla sofferenza interiore (c.d. danno morale, “sub specie” di dolore dell’animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione), con la conseguenza che, ove dedotto e provato, tale ultimo danno deve formare oggetto di separata valutazione e liquidazione (Cass. n. 4878 del 2019)” e che “e’ fondato, invece, il motivo proposto dall’Istituto relativo al cumulo di interessi e rivalutazione, ai sensi della L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 22, comma 36, relativo ai dipendenti pubblici”;

3. pertanto, i giudici di secondo grado, “in parziale riforma dell’impugnata sentenza, confermata nel resto”, hanno “limitato la condanna degli accessori ai soli interessi legali”;

4. per la cassazione della sentenza l’INPS ha proposto ricorso affidato ad un motivo ulteriormente illustrato da memoria; M.L. ha resistito con controricorso;

5. la proposta del relatore è stata comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis cod. di rito.

Diritto

CONSIDERATO

che:

5. con l’unico motivo di ricorso, testualmente, si deduce: “Violazione/falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ovvero, in particolare, degli artt. 2087 e 2043 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), in relazione alla violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost., ed, in particolare, del comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU”, e si assume che “la decisione della Corte d’Appello non pare condivisibile e si pone in contrasto con il quadro normativo e giurisprudenziale”, poiché non tiene conto del fatto che “il mobbing ed il cattivo esercizio del potere direttivo non sono concetti sovrapponibili, ma vanno invece distinti” e che “la M. ha contribuito ad alimentare il clima di conflittualità interna all’ufficio”;

6. il motivo non è meritevole di accoglimento; innanzitutto, la parte ricorrente non ha indicato analiticamente quali siano “i contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro” che si assumono violati, né sotto quale profilo, sarebbero stati falsamente applicati; e ciò, in spregio alla prescrizione di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 cod. rito, comma 1, n. 3, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente incise, ed altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187 del 2014; n. 635 del 2015; Cass. n. 19959 del 2014; Cass. n. 18421 del 2009);

7. inoltre, nel mezzo di impugnazione non si precisa quale sia l’errore di sussunzione in cui sarebbero incorsi i giudici di seconda istanza e non si indica sotto quale profilo le norme del codice civile che si assumono incise sarebbero state violate; né vengono fornite motivazioni, supportate dalla giurisprudenza di legittimità, idonee a controdedurre alle condivisibili argomentazioni svolte nella sentenza impugnata a sostegno della decisione, basate sui consolidati arresti giurisprudenziali della Suprema Corte (v., in particolare, le pagg. 6 e 7 della sentenza impugnata);

8. per le considerazioni svolte, il ricorso va rigettato;

9. le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

10. avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, secondo quanto specificato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 8 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2022

 

 

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