Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17270 del 17/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 17/06/2021, (ud. 25/02/2021, dep. 17/06/2021), n.17270

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. PANDOLFI Catello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sui ricorsi iscritti al n. 18946/2014 e al n. 18948/2014 R.G.

proposti da:

C.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Tullio Elefante, con

domicilio eletto in Roma, via Cardinal de Luca, n. 10, presso lo

studio della stesso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n.

12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso le decisioni della Commissione tributaria regionale del

Piemonte, rispettivamente, n. 42/24/14 depositata il 16 gennaio 2014

(ricorso RGN 18946/2014) e n. 43/24/14 depositata il 16 gennaio 2014

(ricorso RGN 18948/2014).

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 febbraio

2021 dal Consigliere Giuseppe Nicastro.

 

Fatto

RILEVATO

che:

l’Agenzia delle entrate notificò ad Autoruote s.r.l., società esercente l’attività di commercio di autoveicoli e della quale C.M. era socio (non amministratore) con la quota di partecipazione del 99%, due avvisi di accertamento con i quali, rilevato che la società non aveva presentato la dichiarazione dei redditi per i periodi d’imposta 2003 e 2002, accertò induttivamente un reddito – derivante, in particolare, dalla cessione di autoveicoli acquistati da fornitori dell’Unione Europea per il tramite di società italiane interposte (che avevano quindi emesso fatture per operazioni soggettivamente inesistenti) – di Euro 7.395.321,00 per il periodo d’imposta 2003 e di Euro 1.146.946,00 per il periodo d’imposta 2002;

divenuti definitivi tali accertamenti per mancata impugnazione, il 28 luglio 2010 l’Agenzia delle entrate notificò a C.M. due avvisi di accertamento con i quali, sulla base della presunzione che, data la ristretta base partecipativa della Autoruote s.r.l., i redditi accertati in capo a essa erano stati distribuiti pro quota ai soci nel corso di ciascuno dei due esercizi, accertò, in capo allo stesso C., un maggior reddito, rispettivamente, di Euro 7.321.367,00 per l’anno 2003 e di Euro 1.135.477 per l’anno 2002 (importi corrispondenti al 99% del reddito accertato nei confronti della società), con le conseguenti maggiori IRPEF e Addizionali regionale e comunale all’IRPEF, oltre agli interessi, e con le correlative sanzioni;

C.M. impugnò gli avvisi di accertamento davanti alla Commissione tributaria provinciale di Asti (hinc anche: “CTP”) che, con le sentenze, rispettivamente, n. 69/1/2012 e n. 68/1/2012, rigettò i ricorsi del contribuente;

avverso tali pronunce, C.M. propose appello alla Commissione tributaria regionale del Piemonte (hinc anche: “CTR”) che, con le sentenze, rispettivamente, n. 42/24/14 e n. 43/24/14, con identica motivazione, rigettò i ricorsi del contribuente;

in particolare, la CTR affermò: a) la sussistenza, nella specie, delle condizioni previste dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, comma 3 (D.L. 4 luglio 2006, n. 223, comma inserito dall’art. 37, comma 24, del convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248) per il raddoppio del termine per l’accertamento, in quanto: a.1) sussistevano i presupposti dell’obbligo di denuncia per uno dei reati di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, atteso che, “all’epoca della decisione (della CTP), la (relativa) valutazione (era stata) già compiuta dal giudice penale. Per meglio dire, come risulta in atti, il Procuratore della Repubblica di Asti il 31 agosto 2010 chiese al g.i.p. ai sensi dell’art. 411 c.p.p., l’emissione di un decreto di archiviazione, così motivando il suo provvedimento: “a prescindere da eventuali valutazioni di merito (a titolo indicativo, si evidenzia come l’imputazione degli elementi attivi in capo al C. sia avvenuta, in mancanza delle scritture contabili della Autoruote, sulla base della presunzione che la società avesse ripartito ai soci tutti gli utili e dunque equiparando una società di capitali a ristretta base societaria ad una società di persone: operazione questa che, pur legittima in sede amministrativa, non pare accettabile in sede di accertamento della responsabilità penale) va preliminarmente rilevata l’estinzione del reato, per intervenuta prescrizione”. In altri termini è indubitabile che, seppure in termini astratti, nel caso in giudizio era ipotizzabile l’azione penale. E quindi la valutazione compiuta dall’Ufficio che inviò la notizia di reato alla Procura non era affatto apodittica”; a.2) il raddoppio del termine per l’accertamento operava anche relativamente ai periodi d’imposta per i quali erano già decorsi i termini “brevi” di cui al primo e al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 2, atteso che, come chiarito da Corte Cost., sent. n. 247 del 2011, i termini raddoppiati “operano autonomamente” da quelli “brevi”, “in presenza di violazioni tributarie per le quali v’è l’obbligo di denuncia”, sicchè “(è) del tutto irrilevante che detto obbligo possa insorgere anche dopo il decorso del termine “breve” o possa non essere adempiuto entro tale termine. Ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo, perchè essa soltanto connota, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’applicabilità dei termini raddoppiati di accertamento”; a.3) non aveva pregio la tesi del contribuente secondo cui “non vi sarebbe stata alcuna proroga ex lege, essendo, nel processo penale, pronunciata una sentenza di proscioglimento (ai sensi degli artt. 529,530 e 531 del c.p.p.)”, atteso che Corte Cost., sent. n. 247 del 2011, aveva altresì chiarito che “l’obbligo di denuncia (comportante il raddoppio dei termini di accertamento) sorge anche ove sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento resti riservato all’autorità giudiziaria penale”; b) che il suddetto raddoppio del termine per l’accertamento non violava nè la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3 (comma 3), nè l’art. 10 – atteso che l’amministrazione finanziaria aveva applicato il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, inserito dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24, cioè una disposizione che, essendo sopravvenuta alla L. n. 212 del 2000, ben vi poteva derogare – e che non era fondata la censura con la quale il contribuente aveva lamentato la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, per “l’insufficienza e la contraddittorietà” degli avvisi di accertamento impugnati; c) la sussistenza, nella specie, delle condizioni per l’operatività della presunzione di distribuzione pro quota al socio dei redditi accertati in capo a una società di capitali, atteso, tra l’altro, che “dagli atti di causa non risulta che il C. si fosse disinteressato completamente alla gestione della società a responsabilità limitata “Autoruote”. In questo senso manca la dimostrazione che, pur avendone i poteri ai sensi dell’art. 2476 c.c., il C. non svolse un’effettiva attività di verifica sull’andamento aziendale ovvero che, in virtù di siffatto controllo esercitato, non abbia potuto, impiegando l’ordinaria diligenza, rilevare che le operazioni realizzate dall’amministrazione erano inserite in una trama di frode dell’imposta intracomunitaria. Nè può aver pregio il riferimento alle risultanze del processo penale in quanto da esse risulta una carenza di responsibilità commissiva (la quale altrimenti avrebbe condotto il giudice penale ad intraprendere nei confronti del ricorrente un’azione penale ai sensi dell’art. 110 c.p.). Non è emersa, invece, una responsabilità omissiva, non essendo portato dal citato D.Lgs. n. 74, alcun obbligo giuridico, in capo ai soci, di impedire l’evento evasivo. Per meglio dire, se il C. non era rimproverabile dal giudice penale altrettanto non può esserlo dal giudice tributario, a motivo, appunto, del mancato superamento della presunzione (semplice) di incasso di utili extracontabili destinati ai soci”; d) l’infondatezza delle doglianze del contribuente “relative alla mancanza di prova che le autovetture importate fossero poi cedute al dettaglio per il tramite della suddetta società “Quattroruote” (recte: Autoruote), lucrando così questa dei profitti, poi percepiti dall’appellante”, atteso che “la mancata impugnazione dell’avviso di accertamento notificato dall’Ufficio alla società rese definitivo l’accertamento di un maggiore reddito in capo alla stessa e di conseguenza in capo al ricorrente, socio della società”; e) l’infondatezza delle doglianze del contribuente “relative all’errata determinazione dell’utile distribuito (…) per non aver fatto l’Ufficio (e i giudici poi) corretto governo del principio che a fronte dei cosiddetti “ricavi in nero” dovrebbe essere data al contribuente la possibilità di detrarre i relativi costi”, atteso che, premesso che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, “”spetta (…) al contribuente l’onere della prova circa l’esistenza (a) dei fatti che danno luogo ad oneri e/o a costi deducibili e (b) del requisito dell’inerenza degli stessi all’attività professionale o d’impresa del contribuente””, “non avendo offerto il contribuente la dimostrazione, sia nella prima fase del processo che in questo, dell’entità dei costi di acquisto correlati alla cessione delle autovetture il motivo non può essere accolto”; f) relativamente alle sanzioni irrogate, l’infondatezza delle doglianze del contribuente di violazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, artt. 20,5,7 e 17,10 e 6; g) l’infondatezza delle doglianze con le quali il contribuente aveva lamentato che la CTP non avesse compensato le spese tra le parti nonchè l’ammontare delle spese da essa liquidate;

avverso tali decisioni – depositate in segreteria il 16 gennaio 2014 e non notificate – ricorre per cassazione C.M., che affida i propri ricorsi, notificati il 15/28 luglio 2014, a cinque motivi;

l’Agenzia delle entrate resiste con controricorsi;

C.M. ha depositato memoria in ciascun giudizio.

Diritto

CONSIDERATO

che:

va preliminarmente disposta, ai sensi dell’art. 274 c.p.c., la riunione dei due ricorsi in quanto connessi, stante l’identità delle parti, dell’oggetto e dei motivi;

infatti, “(l)’istituto della riunione di procedimenti relativi a cause connesse, previsto dall’art. 274 c.p.c., in quanto volto a garantire l’economia ed il minor costo dei giudizi, oltre alla certezza del diritto, risulta applicabile anche in sede di legittimità, in relazione a ricorsi proposti contro sentenze diverse pronunciate in separati giudizi, in ossequio al precetto costituzionale della ragionevole durata del processo, cui è funzionale ogni opzione semplificatoria ed acceleratoria delle situazioni processuali che conducono alla risposta finale sulla domanda di giustizia, ed in conformità dal ruolo istituzionale della Corte di cassazione, che, quale organo supremo di giustizia, è preposta proprio ad assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonchè l’unità del diritto oggettivo nazionale” (Cass., S.U., 13/09/2005, n. 18125; successivamente, tra le tante, Cass., S.U., 23/01/2013, n. 1521);

con il primo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, con riguardo all'”oggetto della valutazione che il giudice tributario deve compiere in merito alla sussistenza dei presupposti giuridici per il raddoppio dei termini ordinari di accertamento”, per avere la CTR ritenuto che tale valutazione “risulti eziologicamente legata alla mera sussistenza “in astratto” dei presupposti dell’obbligo di denuncia all’A.G.”, laddove, anche alla luce di quanto affermato da Corte Cost., sent. n. 247 del 2011, si deve “ritenere compito del giudice tributario quello di accertare “in concreto”, con c. d. prognosi postuma, se l’A.E. abbia fatto, o meno, un uso strumentale e distorto della norma al fine di fruire di un termine di accertamento più ampio”, atteso che, “(d)iversamente opinando l’indagine sulla sussistenza dell’obbligo di denuncia demandata al Giudice tributario non avrebbe alcun senso, perchè la sola esistenza di una denuncia per violazione della L. n. 74 del 2000, già determina in astratto la possibilità di ricondurre la fattispecie concreta ad uno dei reati previsti dalla L. n. 74 del 2000, così vanificando ogni garanzia in favore del contribuente e della certezza dei termini decadenziali per l’accertamento dei tributi”;

con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, con riguardo alla “non applicabilità della novella normativa di cui al D.L. n. 223 del 2006, art. 37, ai termini di accertamento già scaduti alla data di inoltro della notitia criminis per fattispecie delittuose già prescritte”, per avere la CTR ritenuto che “la disciplina del raddoppio dei termini di accertamento, contemplata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, valga anche per i termini già scaduti alla data d’inoltro della notitia criminis, ed anche per fattispecie delittuose di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, già prescritte penalmente”;

con il terzo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la violazione del citato codice, art. 112, per “omessa pronuncia su punto decisivo della controversia” con riguardo allo “ius superveniens di cui al D.L. n. 16 del 2012, art. 8, convertito in L. n. 44 del 2012; deducibilità in capo alla società dei costi relativi alle fatture soggettivamente inesistenti”, per avere la CTR omesso di pronunciarsi sulla richiesta, formulata nel ricorso in appello, di applicazione dello ius superveniens di cui al D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8 (commi da 1 a 3), convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, e, quindi, di deduzione, nella determinazione dei redditi di Autoruote s.r.l. che gli sarebbero stati presuntivamente distribuiti pro quota, dei costi di acquisto degli autoveicoli risultanti dalle fatture per operazioni asseritamente soggettivamente inesistenti emesse dalle società italiane interposte;

con il quarto motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., dell’art. 115 c.p.c., e “dei principi generali in materia di onere della prova nel processo tributario”, in quanto la CTR – con ritenere l’operatività della presunzione di distribuzione al socio C.M. dei redditi accertati in capo a Autoruote s.r.l. perchè “non risulta che il C. si fosse disinteressato completamente alla gestione della società a responsabilità limitata “Autoruote”. In questo senso manca la dimostrazione che, pur avendone i poteri ai sensi dell’art. 2476 c.c., il C. non svolse un’effettiva attività di verifica sull’andamento aziendale ovvero che, in virtù di siffatto controllo esercitato, non abbia potuto, impiegando l’ordinaria diligenza, rilevare che le operazioni realizzate dall’amministrazione erano inserite in una trama di frode dell’imposta intracomunitaria” – ha erroneamente valutato le condizioni che legittimano la presunzione di distribuzione ai soci dei redditi accertati in capo a una società di capitali, atteso che, ai fini della legittima operatività di tale presunzione, era necessaria “la prova diretta che il C. fosse complice e solidale con i soggetti che idearono l’operazione fraudolenta” (dal che l'”erronea ammissione di una presunzione semplice a favore della tesi erariale, così violando l’art. 2729 c.c. (…) e (l’)illegittima inversione dell’onere della prova in capo al contribuente (…), con violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c.”) e non ha conseguentemente valutato le “risultanze documentali delle fasi di merito (…) mai contestate dalla difesa erariale” che avrebbero dovuto indurla a escludere la sussistenza di dette complicità e solidarietà;

con il quinto motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost., dell’art. 132 c.p.c., e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, in quanto le argomentazioni della CTR riportate nell’esposizione del quarto motivo sono “state svolte in maniera talmente contraddittoria da non permettere di individuare la motivazione sottesa alla decisione” riguardo al “mancato superamento della presunzione (semplice) di incasso di utili extracontabili destinati ai soci”, atteso che, in particolare: a) “non si comprende cosa venga imputato al C.M.: se di avere esercitato il controllo sull’attività aziendale o di averlo omesso”; b) “non si è spiegato come sull’esercizio di tale attività di controllo del socio – che non si comprende se i giudici abbiano ritenuto eseguita o omessa – possa inferirsi la presunzione di percezione di utili extracontabili da parte del socio medesimo”; c) non “si comprende il successivo passaggio motivazionale sulle risultanze del processo penale agli organi societari. In particolare la CTR ritiene che il mancato coinvolgimento del C. in quel processo penale dimostrerebbe l’insussistenza di una responsabilità commissiva della stesso; quindi la CTR dovrebbe dedurne – per giustificare le conclusioni finali cui perviene – la rilevanza ai fini tributari di una responsabilità omissiva del C. stesso. Invece, a contrario, la CTR deduce “Per meglio dire, se il C. non era rimproverabile dal giudice penale altrettanto non può essere dal giudice tributario”. Quindi la CTR pare giungere ad una conclusione in contrasto con la propria premessa”; d) “anche in questo successivo passaggio motivazionale, risulta mancare l’esternazione logica che dovrebbe consentire di collegare la motivazione al decisum, perchè non sono dedotti i motivi per i quali la responsabilità omissiva (…) avrebbe dovuto consentire di innestare la presunzione di percezione di utili extracontabili da parte del socio”;

il primo e il secondo motivo – i quali, attenendo entrambi a denunce di violazione e falsa applicazione della disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento, possono essere esaminati congiuntamente – non sono fondati;

alle fattispecie di causa, relative ad avvisi di accertamento per gli anni 2003 e 2002 notificati il 28 luglio 2010, è applicabile, ratione temporis, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3, nel testo inserito dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24 (secondo cui, “(i)n caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”), non essendo invece applicabili, a norma del primo periodo del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 2, comma 3 (secondo cui: “(s)ono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento (…) notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto”), le modificazioni apportate alla disciplina dei termini per l’accertamento dallo stesso D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, comma 1 (che aveva aggiunto un ulteriore periodo al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3) e, successivamente, dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 131 (che ha sostituito lo stesso art. 43) e art. 132 (Cass., 14/05/2018, n. 11620, 19/12/2019, n. 33793);

come chiaramente risulta dalla lettera del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, citato comma 3, il raddoppio dei termini di accertamento aveva, come unica condizione di operatività, la sussistenza dell’obbligo, del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., di uno dei reati tributari previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000;

come questa Corte ha più volte precisato, anche sulla scorta dei principi affermati da Corte Cost., sent. n. 247 del 2011, i termini raddoppiati operavano automaticamente e autonomamente – non innestandosi, quindi, su quelli “brevi” – in presenza della detta sola condizione (della sussistenza dell’obbligo di denuncia penale), indipendentemente, perciò, dall’effettiva presentazione della denuncia e, quindi, anche dal fatto che questa fosse presentata dopo il decorso dei termini “brevi” di decadenza (ex plurimis, Cass., 16/12/2016, n. 26037, 14/05/2018, n. 11620, 28/06/2019, n. 17586, 19/12/2019, n. 33793)

è stato altresì ripetutamente chiarito, sempre sulla scorta anche di Corte Cost., sent. n. 247 del 2011, che l’obbligo di denuncia – come si è detto, (unica) condizione di operatività del raddoppio dei termini sorge anche nel caso in cui ricorra una causa di estinzione del reato quale la prescrizione, il cui accertamento resta riservato all’autorità giudiziaria (ex plurimis, Cass., 11/04/2017, n. 9322, n. 11620 del 2018, n. 17586 del 2019);

da ciò discende l’infondatezza del secondo motivo;

quanto al primo motivo, concernente il controllo giudiziario in ordine all’effettiva insorgenza dell’obbligo di denuncia, la stessa Corte Cost., sent. n. 247 del 2011, chiarì che “(i)l giudice tributario (…) dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento”, con la precisazione che “il correlativo tema di prova – e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario – è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato”;

con il primo motivo, il ricorrente lamenta che la CTR abbia reputato che il predetto controllo sia “eziologicamente legat(o) alla mera sussistenza “in astratto” dei presupposti dell’obbligo di denuncia”, laddove si dovrebbe “ritenere compito del giudice tributario quello di accertare “in concreto”, con c.d. prognosi postuma”, la sussistenza degli stessi presupposti;

dalla lettura della sentenza impugnata (come riportata nella parte in fatto, sub a), risulta tuttavia che, contrariamente a quanto reputato dal ricorrente, la CTR riferisce la locuzione “in termini astratti” alla sussistenza dei presupposti non dell’obbligo di denuncia penale bensì dell'”azione penale”, con ciò intendendo evidentemente fare riferimento al fatto che – conformemente a quanto chiarito, come si è visto, da Corte Cost., sent. n. 247 del 2011 – la valutazione che essa, quale giudice tributario, doveva compiere non riguardava l’accertamento del reato (e in questi termini l’aggettivo “astratto” è utilizzato anche da Cass., 02/07/2020, n. 13481, secondo cui “il raddoppio è legato all’astratta sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, che fa sorgere l’obbligo di denuncia in capo al pubblico ufficiale ai sensi del citato art. 331, e non dipende dal suo accertamento in concreto”);

da ciò consegue l’infondatezza del primo motivo;

il terzo motivo non è fondato;

questa Corte ha ripetutamente affermato, anche sulla scorta della relazione al disegno di legge di conversione del D.L. n. 16 del 2012, che la disciplina della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, “nuovo” comma 4-bis – nel testo di questo comma sostituito dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1 – comporta che, poichè nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati, di regola (salvo, ad esempio, il caso in cui il “costo” sia consistito nel “compenso” versato all’emittente il falso documento), non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati o utilizzati nel ciclo produttivo, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore perchè non siano deducibili, ai fini delle imposte sui redditi, i costi relativi alle dette operazioni;

è stato peraltro altresì precisato che resta sempre ferma la necessità della verifica della concreta deducibilità degli stessi costi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (ex plurimis, Cass., 20/06/2012, n. 10167, 30/10/2013, n. 24426, 02/07/2014, n. 15044, 17/12/2014, n. 26461, 06/07/2018, n. 17788, 30/10/2018, n. 27566, 20/11/2019, n. 30146, le quali tutte hanno cassato la sentenza di appello con rinvio ai fini dell’accertamento degli indicati requisiti di deducibilità dei costi);

in base al chiaro tenore del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, primo periodo del comma 3, (secondo cui “file disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis, previgente non si siano resi definitivi”), tale disciplina ha effetto retroattivo in bonam partem (ex plurimis, Cass., n. 15044 del 2014, n. 26461 del 2014, n. 17788 del 2018);

tanto premesso, si deve rilevare che la CTR non ha omesso di pronunciare sulla richiesta del contribuente di applicazione del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, e, quindi, di deduzione, nella determinazione dei redditi di Autoruote s.r.l. che sarebbero stati a lui distribuiti pro quota, dei costi di acquisto degli autoveicoli risultanti dalle fatture per operazioni asseritamente soggettivamente inesistenti emesse dalle società italiane interposte;

tale pronuncia si deve ravvisare là dove, dopo avere premesso che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, “”spetta (..) al contribuente l’onere della prova circa l’esistenza (a) dei fatti che danno luogo ad oneri e/o a costi deducibili e (b) del requisito dell’inerenza degli stessi all’attività professionale o d’impresa del contribuente””, la CTR afferma che, “non avendo offerto il contribuente la dimostrazione, sia nella prima fase del processo che in questo, dell’entità dei costi di acquisto correlati alla cessione delle autovetture il motivo non può essere accolto”;

contrariamente a quanto reputato dal ricorrente – il quale, nelle proprie memorie, asserisce che tale motivazione sarebbe relativa al diverso profilo di doglianza concernente la deducibilità dei costi nel caso di accertamento induttivo (cosiddetto “puro”) – detta motivazione è senz’altro da riferire anche alla richiesta di deduzione dei costi ai sensi del D.L. n. 16 del 2012, art. 8 (che è riportata, del resto, sia a pag. 8 sia a pag. 11 della sentenza impugnata), atteso che, come si è visto, l’applicazione di tale sopravvenuta disposizione lascia ferma la necessità della verifica della concreta deducibilità dei costi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, ciò che la CTR ha, appunto, escluso, a ragione e sotto il profilo della mancata “dimostrazione (…) dell’entità dei costi di acquisto correlati alla cessione delle autovetture”;

da ciò discende l’infondatezza del terzo motivo;

il quarto motivo non è fondato;

costituisce orientamento assolutamente costante di questa Corte quello secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, qualora siano accertati utili non contabilizzati, opera la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili stessi, salva la prova contraria che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti, con l’ulteriore precisazione che siffatta presunzione non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, salva in ogni caso la prova contraria, gravante sul contribuente, del mancato conseguimento o della diversa destinazione degli utili (Cass., 24/12/2020, n. 29503; in senso analogo, tra le tantissime, Cass., 11/08/2020, n. 16913, 02/07/2020, n. 13550, 19/12/2019, n. 33976, 24/01/2019, n. 1947, 20/12/2018, n. 32959);

premesso che, nel caso di specie, non è in contestazione la ristrettezza della base partecipativa (essendo Autoruote s.r.l. pacificamente costituita dai due soli soci C.M. e M.G.M.), la CTR non si è discostata dai suddetti principi, avendo: a) da un lato, correttamente ritenuto che tale ristrettezza partecipativa rendesse operativa la presunzione di distribuzione ai soci – e, in particolare, a C.M., detentore di una quota di partecipazione del 99% – dei redditi accertati in capo alla società, con la conseguente inversione dell’onere della prova a carico del contribuente; b) dall’altro lato, escluso, sulla base della valutazione degli atti di causa – che, in particolare, evidenziavano come C.M. non avesse provato nè di non avere controllato lo svolgimento degli affari sociali nè di averlo fatto senza però poter rilevare la frode posta in essere dall’amministratore, e, quanto alle risultanze del processo penale, solo l’assenza di una “responsabilità commissiva” – che C.M. avesse fornito la prova contraria che i redditi accertati in capo a Autoruote s.r.l. erano stati accantonati o reinvestiti o, comunque, diversamente (non a lui) destinati;

alla luce delle ricordate condizioni di operatività della presunzione di distribuzione ai soci dei redditi accertati in capo alla società nonchè dell’oggetto, appena indicato, della prova contraria a carico del contribuente, si deve escludere che l’amministrazione finanziaria dovesse fornire “la prova diretta che il C. fosse complice e solidale con i soggetti che idearono l’operazione fraudolenta”;

il fatto che la CTR, nel valutare la prova contraria (in ordine alla circostanza che i redditi accertati in capo alla società fossero stati accantonati o reinvestiti o, comunque, non destinati al socio), abbia implicitamente attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre risultanze processuali, ancorchè non contestate, non rende ravvisabile una violazione dell’art. 115 c.p.c., trattandosi di un’attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c.;

da ciò discende l’infondatezza del quarto motivo;

il quinto motivo è in parte non fondato (nei suoi primo e terzo profilo) e in parte inammissibile (nei suoi secondo e quarto profilo);

quanto al primo profilo – con il quale il ricorrente lamenta che “non si comprende cosa venga imputato al C.M.: se di avere esercitato il controllo sull’attività aziendale o di averlo omesso” -, con la frase “manca la dimostrazione che, pur avendone i poteri ai sensi dell’art. 2476 c.c., il C. non svolse un’effettiva attività di verifica sull’andamento aziendale ovvero che, in virtù di siffatto controllo esercitato, non abbia potuto, impiegando l’ordinaria diligenza, rilevare che le operazioni realizzate dall’amministrazione erano inserite in una trama di frode dell’imposta intracomunitaria”, la CTR, come si è anticipato nella motivazione sul quarto motivo, ha, in tutta evidenza, argomentato come, alla luce delle risultanze di causa, C.M. non avesse provato nè di non avere controllato lo svolgimento degli affari sociali nè di averlo fatto senza però poter rilevare la frode posta in essere dall’amministratore, con la conseguente esclusione della lamentata incomprensibilità dell’argomentazione;

quanto al suo terzo profilo – con il quale il ricorrente lamenta che non “si comprende il successivo passaggio motivazionale sulle risultanze del processo penale agli organi societari. In particolare la CTR ritiene che il mancato coinvolgimento del C. in quel processo penale dimostrerebbe l’insussistenza di una responsabilità commissiva della stesso; quindi la CTR dovrebbe dedurne – per giustificare le conclusioni finali cui perviene – la rilevanza ai fini tributari di una responsabilità omissiva del C. stesso. Invece, a contrario, la CTR deduce “Per meglio dire, se il C. non era rimproverabile dal giudice penale altrettanto non può essere dal giudice tributario”. Quindi la CTR pare giungere ad una conclusione in contrasto con la propria premessa” -, la frase della sentenza impugnata “se il C. non era rimproverabile dal giudice penale altrettanto non può esserlo dal giudice tributario”, non può che essere letta, nel contesto complessivo in cui si inserisce, nel senso che il C. non poteva essere non rimproverabile (“altrettanto non può esserlo”) dal giudice tributario, con la conseguente esclusione della lamentata contraddittorietà dell’argomentazione della CTR;

da ciò discende l’infondatezza del primo e del terzo profilo;

quanto al secondo e al quarto profilo del motivo – con i quali il ricorrente lamenta, rispettivamente, che “non si è spiegato come sull’esercizio di tale attività di controllo del socio (…) possa inferirsi la presunzione di percezione di utili extracontabili da parte del socio medesimo” (secondo profilo) e che “anche (nel) passaggio motivazionale (relativo alle risultanze del processo penale), risulta mancare l’esternazione logica che dovrebbe consentire di collegare la motivazione al decisum, perchè non sono dedotti i motivi per i quali la responsabilità omissiva (…) avrebbe dovuto consentire di innestare la presunzione di percezione di utili extracontabili da parte del socio” (quarto profilo) -, si deve osservare che i due passaggi della sentenza impugnata relativi, rispettivamente, all’attività di controllo del socio C.M. e alle risultanze del processo penale, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, non sono intesi a fondare “la presunzione di percezione di utili extracontabili da parte del socio”, bensì a escludere che questi abbia fornito la prova contraria;

da ciò discende l’inammissibilità del secondo e del quarto profilo, atteso che essi fraintendono il significato dell’argomentazione che censurano;

in conclusione, i ricorsi devono essere rigettati;

le spese dei giudizi di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., comma 1, e sono liquidate come indicato in dispositivo.

P.Q.M.

riuniti i ricorsi, li rigetta e condanna il ricorrente al pagamento delle spese dei giudizi di legittimità, che liquida in Euro 13.000,00 per ciascun giudizio, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – comma inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 – si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i ricorsi principali a norma del suddetto art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2021

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