Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 17267 del 17/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 17/06/2021, (ud. 24/02/2021, dep. 17/06/2021), n.17267

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta M.C. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21580-2014 proposto da:

RIULGI SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, BANCO DI ROMA, VIA PO

n. 9, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO NAPOLITANO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSANDRA MILITERNO;

– ricorrente –

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 967/2014 della COMM. TRIB. REG. del LAZIO,

depositata il 14/02/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/02/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

 

Fatto

RILEVATO

Che:

La RI.UL.GI srl ha chiesto la cassazione della sentenza n. 967/28/2014, depositata dalla Commissione tributaria regionale del Lazio il 14.02.2014, con la quale, in accoglimento dell’appello e in riforma della decisione di primo grado, era stato rigettato il ricorso introduttivo della società avverso l’avviso di accertamento, con cui l’Agenzia aveva rideterminato per l’anno d’imposta 2006 il reddito ai fini Ires.

Premettendo di essere società proprietaria di tre immobili, ha riferito di aver prodotto interpello, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, comma 8, per la disapplicazione della normativa sulle società non operative (ed. di comodo), prevista dalla L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30, evidenziando le cause oggettive che avevano impedito un normale svolgimento dell’attività. In particolare ha rappresentato che, mentre un primo immobile era locato ed un secondo era tenuto a disposizione, il terzo era stato oggetto di una completa ristrutturazione sino a tutto maggio 2007, non potendo dunque produrre reddito. Già nell’istanza di disapplicazione aveva evidenziato che all’immobile in ristrutturazione erano annesse attrezzature che non potevano essere prese a base per la quantificazione di ricavi. Nonostante il tenore dell’istanza, con provvedimento del 13 agosto 2007 la direzione regionale dell’Agenzia delle entrate l’aveva accolta limitatamente allo stato dell’immobile ristrutturato, non invece rispetto alle attrezzature per le quali assumeva che non fossero state fornite “oggettive motivazioni atte a giustificare la loro mancata dismissione a titolo più o meno oneroso”. La direzione aveva anche evidenziato che il secondo immobile era tenuto a disposizione, mentre sul canone di locazione del terzo non era stata ancora fornita un'”indicazione di congruità”. Sulla base di tale provvedimento l’Agenzia delle entrate aveva emesso avviso di accertamento, con il quale, esplicitando nell’atto l’esclusione dell’immobile interessato dalla ristrutturazione e tenendo invece conto di tutte le restanti proprietà, ii reddito relativo all’anno d’imposta 2006 era stato presuntivamente rideterminato, ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 30, elevandolo da Euro 2.730,00 ad Euro 169.983,00. Era stata così richiesta una maggiore imposta a titolo di Ires, nonchè irrogate le sanzioni.

Contestando le ragioni dell’accertamento, la ricorrente aveva introdotto la controversia dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Viterbo, che con sentenza n. 209/01/2012 aveva accolto il ricorso. Nel successivo grado d’appello la Commissione tributaria regionale ha riformato la decisione di primo grado, rigettando il ricorso introduttivo della società. Nella decisione il giudice regionale ha ritenuto erronea la statuizione della commissione provinciale perchè avrebbe confuso la modalità d’accertamento fondato sulla della L. n. 724 del 1994, art. 30, con la rettifica basata sulle presunzioni di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d). Invece l’ufficio aveva provveduto a ricostruire il reddito sul valore delle immobilizzazioni, escluso quello in ristrutturazione, calcolato secondo il citato art. 30. Ha ritenuto inoltre corretta la mancata estensione della disapplicazione della normativa sulle società non operative alle attrezzature, così come prive di giustificazione le esclusioni dal test di verifica del reddito delle ulteriori immobilizzazioni.

La ricorrente ha censurato la sentenza affidandosi a nove motivi. Ha chiesto dunque la cassazione della decisione, con ogni conseguente statuizione.

L’Agenzia ha depositato un “atto di costituzione”, al solo fine della eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Preliminarmente deve rilevarsi che l’Agenzia ha resistito con un “atto di costituzione”, non notificato, per l’eventuale partecipazione alla discussione nella pubblica udienza. Va affermato che, in mancanza di notificazione, l’atto depositato non è qualificabile come controricorso e l’intimato, pur in presenza di regolare procura speciale ad litem, non è legittimato neppure a depositare memorie illustrative (Cass., 5/12/2014, n. 25735),

La ricorrente con il primo motivo ha criticato la decisione per violazione e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c., e dell’art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, perchè la Commissione regionale non si sarebbe avveduta che la sentenza di primo grado era passata in giudicato e l’appello era inammissibile. La ricorrente sostiene che con l’appello l’Agenzia aveva denunciato che il giudice di prime cure avesse confuso i principi dell’accertamento presuntivo, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, estranei alla fattispecie, con l’accertamento condotto secondo le modalità fissate dall’art. 30 cit., in materia di società non operative. Così facendo aveva mal interpretato la decisione di primo grado, che non aveva fatto ricorso ai principi sull’onere probatorio degli accertamenti presuntivi, ma più semplicemente aveva riconosciuto la sussistenza delle circostanze che non consentivano l’applicazione della normativa sulle società di comodo. Errando nel motivo d’appello la motivazione della sentenza di primo grado doveva ritenersi passata in giudicato.

Il motivo è infondato. La stessa contribuente ha riassunto la decisione di primo grado, evidenziando che con essa si era esclusa l’applicabilità dell’art. 30 cit. perchè, sulla premessa che l’istanza di interpello era stata accolta con riguardo all’immobile ristrutturato, l’Agenzia non aveva addotto alcuna prova che potesse giustificare la presunzione di redditività dei beni strumentali presenti nell’immobile ristrutturato, nè di un maggior reddito percepito dall’immobile in locazione (cfr. p, 8 del ricorso). A fronte delle argomentazioni della decisione, sempre la contribuente medesima ha riportato il contenuto dell’atto d’appello, ne quale l’ufficio ha lamentato che “con l’accertamento, infatti, non era certo stata contestata alla società la percezione di maggiori ricavi per ipotetiche attività svolte con i beni strumentali nè la percezione di maggiori canoni d’affitto, ma unicamente la non operatività della società con tutte le necessarie conseguenze di legge sulla determinazione dell’imponibile e delle imposte”. A differenza di quanto pretende la contribuente, l’atto d’appello denunciava proprio l’affermazione del giudice di primo grado – secondo cui alla fattispecie non potesse trovare applicazione la disciplina dettata dalla L. n. 724 del 1994, art. 30 -, rilevando peraltro, in maniera pertinente, che, a fronte delle considerazioni della commissione provinciale – secondo cui l’Agenzia delle entrate non aveva dimostrato un maggior reddito percepito dall’immobile locato, o una presunzione di redditività dei beni strumentali -, “ma unicamente la non operatività della società con tutte le necessarie conseguenze di legge sulla determinazione dell’imponibile e delle imposte” (p. 9 del ricorso per cassazione), ossia sulle modalità di calcolo del reddito. Rispetto al nocciolo della critica rivolta dall’appellante alla pronuncia di primo grado, la circostanza che nell’atto si affermi che il giudice ha confuso due tipi di accertamento è solo un elemento rafforzativo, sul piano difensivo, della denuncia dell’equivoco in cui sarebbe incorsa la Commissione provinciale.

Con il secondo motivo ci si duole della violazione e falsa applicazione della L. n. 724 del 1994, art. 30, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè il giudice d’appello avrebbe erroneamente ritenuto che la disciplina delle società non operative consenta una sua disapplicazione parziale. In particolare, pur avendo riconosciuto che la direzione regionale aveva accolto l’istanza di disapplicazione, in riferimento all’immobile interessato dalla ristrutturazione, ha riconosciuto la legittimità della ricostruzione di un reddito ai sensi dell’art. 30 cit., sulla base degli altri cespiti sociali, laddove, a parere della ricorrente, non sarebbe prevista alcuna applicabilità parziale della disciplina sulle società non operative.

Il motivo è infondato. Questa Cotte ha affermato, in materia di società di comodo, che la L. n. 724 del 1994, art. 30, al comma 1, prevede una presunzione legale relativa, in base alla quale una società si considera “non operativa” se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli “asset” patrimoniali intestati alla società (ed. “test di operatività dei ricavi”), senza che abbiano rilievo le intenzioni e il comportamento dei soci. Il successivo comma 4-bis, (inserito dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, comma 15, convertito con modificazioni in L. 4 agosto 2006, n. 248, applicabile all’anno d’imposta 2006 in forza del medesimo art., comma 16), consente la presentazione dell’istanza di interpello, chiedendo la disapplicazione delle “disposizioni antielusive”, in presenza di situazioni oggettive (ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell’imprenditore), che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito di cui al precedente comma 1, così rispondendo all’esigenza di dare piena attuazione ai principio di capacità contributiva, di cui la disciplina antielusiva è espressione, lasciando nel contempo spazio al diritto di difesa del contribuente, sufficientemente garantito dagli strumenti del contraddittorio e dalla necessità di una motivazione puntuale della condotta elusiva nell’avviso di accertamento (Cass., 20/04/2018, n. 9852). Ciò tuttavia, proprio quando con l’istanza di disapplicazione vengono addotte motivazioni che afferiscono non all’attività complessivamente svolta, ma a singoli cespiti del complessivo patrimonio sociale, eliminabili dal calcolo senza inficiare la redditività degli altri cespiti, come nei caso di specie, non esclude in foto il ricorso ai coefficienti percentuali di valore degli “asset” patrimoniali intestati alia società, limitando la disapplicazione a quello specifico cespite per il quale sia stata ritenuta giustificata. Ne deriva pertanto che il criterio di calcolo resta applicabile al restante patrimonio, con disapplicazione parziale.

Con il terzo motivo si denuncia a violazione e falsa applicazione della L. n. 724 del 1994, art. 30, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver riconosciuto la disapplicazione della disciplina relativamente all’immobile, e non invece alle attrezzature inserite nell’immobile.

Il motivo è inammissibile. Va premesso che al caso di specie trova applicazione l’art. 30, il comma 4 bis, nella formula originariamente introdotta dal D.L. 223 del 2006, così che l’istanza di disapplicazione poteva essere proposta nelle ipotesi di “…oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi…nonchè del reddito determinati ai sensi del presente articolo…”. Tale formula ha avuto vigenza per tutto l’anno d’imposta 2006, come espressamente previsto dal medesimo D.L., comma 16, mentre la successiva soppressione delle parole “di carattere straordinario”, ad opera della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 109 lett. h), ha avuto effetto a partire dall’anno d’imposta 2007, non trovando applicazione del D.L. n. 296 cit., comma 110, che non menziona affatto la lett. h).

Ciò chiarito, a fronte del parziale accoglimento della istanza di disapplicazione da parte dell’ufficio regionale dell’Amministrazione finanziaria, che aveva ritenuto insussistenti i motivi di carattere straordinario per escludere dalla redditività anche i beni strumentali, il giudice regionale ha ribadito l’insussistenza di situazioni oggettive straordinarie, non dipendenti dalla volontà della contribuente, che ne consentissero l’esclusione. Ebbene, con la censura la contribuente pretende di fissare un rapporto di logica inscindibilità tra l’immobile ristrutturato e i beni in esso allocati. A parte che non è dato comprendere neppure di quali beni si tratti, per cui il motivo è carente di autosufficienza, con la censura, con cui non viene rappresentata alcuna ragione oggettiva, si pretende una rivalutazione in fatto, così sollecitando un giudizio di merito, inibito in questa sede e dunque inammissibile.

Con il quarto motivo ci si duole della violazione e falsa applicazione della L. 724 del 1994, art. 30, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sotto il diverso profilo della mancata considerazione che il reddito minimo presupposto per il superamento del test di operatività non era stato conseguito nel 2006 non per finalità elusive rispetto all’esercizio di una effettiva attività commerciale, ma per la presenza di situazioni peculiari e contingenti. Il motivo è infondato perchè, escluso l’immobile oggetto di ristrutturazione, il test è risultato non superato sulla redditività dei restanti beni, per i quali non vi erano ragioni per l’esclusione del meccanismo di calcolo della redditività regolato dall’art. 30 cit..

Con il quinto motivo si critica la decisione per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 2697 c.c., nonchè della L. n. 724 del 1994, art. 30, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente affermato che “tutte le altre immobilizzazioni della società…non potevano escludersi dal test di operatività”. Insiste in particolare nel riaffermare che non vi fossero contestazioni sulla assenza di redditività dei beni allocati nell’immobile ristrutturato, e sulla redditività dell’immobile già locato ad un canone che non poteva essere unilateralmente modificato, Anche questo motivo è infondato perchè non coglie nel segno. Premesso che anche questo motivo, non identificando la natura dei beni allocati nell’immobile ristrutturato, è carente di autosufficienza, in ogni caso la decisione della commissione regionale è stata fondata sulla considerazione che, escluso lo stabile ristrutturato, non vi erano ragioni per esonerare dal test di operatività tutti gli altri cespiti. Ebbene, dall’esito del calcolo risultava un reddito ben superiore a quanto dichiarato dalla contribuente. A fronte di ciò era del tutto irrilevante che il canone dell’immobile locato fosse quello concordato tra la società ed il terzo locatario, perchè quello che la disciplina impone, come questa Corte ha ripetutamente chiarito, è che per la disapplicazione della normativa antieìusiva, ai sensi del cit. art. 30, comma 4 bis, l’impresa è tenuta a dimostrare di essersi trovata nell’impossibilità oggettiva di esercitare una adeguata attività produttiva è conseguentemente di poter conseguire ulteriori redditi oltre quelli dichiarati. Non assume cioè alcuna rilevanza che la mancata percezione di ulteriori redditi sia dipesa da una scelta volontaria dell’imprenditore (da ultimo cit. Cass., 7/12/2020, n. 27975). Nel caso di specie la circostanza che la contribuente avesse volontariamente locato un immobile ad un canone evidentemente inadeguato per concorrere a superamento del test di operatività non poteva giustificare lo scostamento da reddito minimo determinato secondo il test di operatività. A margine, dallo stesso ricorso è dato evincere che l’Agenzia delle entrate, con riferimento ai beni allocati nell’immobile ristrutturato, aveva rilevato che “non vengono fornite oggettive motivazioni atte a giustificare la loro mancata dismissione a titolo più o meno oneroso”. Inoltre è incomprensibiie perchè il terzo immobile fosse tenuto “a disposizione”, senza alcun impiego finalizzato ai conseguimento d un reddito.

Con il sesto motivo si critica la decisione per omessa pronuncia, con violazione dell’art. 112 c.p.c., e nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, perchè il giudice d’appello non si era pronunciato sull’illegittimità dell’atto impositivo, fondato sulla disapplicazione parziale della disciplina sulle società non operative. Inoltre non si era pronunciato sull’applicazione in sede d’accertamento di percentuali minime, ai fini del test di operatività, superiori rispetto a quelle applicabili nell’anno d’imposta 2006.

Con riguardo alla prima denunciata omissione, a parte l’infondatezza del motivo per quanto già chiarito in riferimento alla seconda censura, esso è inammissibile perchè, come emerge dalla sua stessa formulazione, la questione era stata oggetto di mere argomentazioni difensive della contribuente, senza costituire in sede d’appello neppure l’oggetto di una impugnazione incidentale condizionata. Stesse conclusioni valgono con riguardo alia seconda denuncia di omissione. A margine, la critica non coglie neppure nel segno, perchè la Commissione regionale, avvertendo come “tutte le altre immobilizzazioni della società non potevano escludersi dal test di operatività” fa inequivocabilmente riferimento a tutti gli immobili, compreso quello lasciato “a disposizione” e dunque improduttivo di reddito per scelta, così che ogni considerazione difensiva della contribuente, che non tenga conto di quest’ultimo cespite, è del tutto inadeguata.

Con il settimo motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., e la nullità della decisione per pronuncia ultra petitum, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Il motivo è infondato per le ragioni già espresse nel primo motivo con riguardo alle critiche proposte in appello dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza di primo grado. Parimenti la decisione del giudice d’appello non è stata fondata sulla critica alla disciplina richiamata dalla commissione tributaria provinciale, ma sulla constatazione che il test di operatività dei ricavi della società non era-stato superato, pur sottraendo dal calcolo l’immobile ristrutturato e tenendo conto solo degli altri cespiti.

Con l’ottavo motivo la contribuente solleva, anche dinanzi a questa Corte, la questione di legittimità costituzionale della normativa dettata dalla L. n. 724 del 1994, art. 30, in relazione agli artt. 53,24 e 41 Cost.. La questione di legittimità costituzionale è stata già affrontata da questa Corte e ritenuta infondata. In particolare si è affermato che “in una controversia relativa sempre all’anno 2006, come la presente, anche su uno degli aspetti denunciati nel presente ricorso – e cioè la applicazione della “nuova” versione della norma, introdotta proprio durante il 2006 con il D.L. n. 223 di quell’anno, conv. in L. n. 248 del 2006, all’anno in corso – affermando,…., che è vero che lo stesso si limita a prevedere un meccanismo di determinazione del reddito basato su presunzioni, ma esse sono superabili con prova contraria, laddove il contribuente, in presenza di oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile ii conseguimento dei ricavi e degli altri elementi rilevanti per la determinazione del reddito imponibile, può chiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive (Sez. V, n, 21358 del 2015). Nè questa appare trattarsi, come ritiene il contribuente, di prova impossibile, riguardando dati oggettivi che possono venire indicati come elementi che hanno avuto una influenza sulla mancata produzione del reddito. Al riguardo, infatti, questa Corte ha precisato che la nozione di “impossibilità” di cui alla disposizione in esame va intesa non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni del mercato (Sez. V., n. 5080 del 2017), e quindi non si tratta di una prova che non può, per sua natura, essere mai fornita” (Cass., 20/06/2018, n. 16204). Le considerazioni sono integralmente condivise da questo Collegio.

Con ii nono motivo si critica infine la decisione per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver disatteso la domanda, proposta in via subordinata dalla contribuente, di disapplicazione delle sanzioni per obiettiva difficoltà di interpretazione della L. n. 724 del 1994, art. 30.

Il motivo è inammissibile, perchè sulla questione, proposta in appello dalla contribuente, la sentenza è del tutto silente, così che l’omessa pronuncia doveva essere censurata sotto il profilo della nullità della sentenza in parte qua, laddove la critica è stata formulata sotto il profilo dell’erronea interpretazione della norma sulle esimenti in tema di sanzioni.

Il ricorso va dunque rigettato. Nulla va statuito in ordine alle spese de giudizio di legittimità, attesa l’irrituale costituzione dell’Agenzia delle entrate.

PQM

Rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2021

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